di Massimiliano Perlato
Compie appena 4 anni ma è già vecchio dato che vivrà solo fino al 2012. È il protocollo di Kyoto: l’accordo stipulato nel dicembre 1997, ma entrato in vigore nel 2005, che impegna a ridurre le emissioni di biossido di carbonio e altri cinque gas serra (metano, ossido di diazoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo) del 5,2% entro il 2012 rispetto ai valori del 1990. Per anni l’assenza di Russia e Stati Uniti ha rinviato l’entrata in vigore degli accordi, che in base agli accordi sarebbe scattata dopo che almeno 55 Paesi avessero ratificato l’adesione al protocollo, a partire dai 194 sottoscrittori originari. Nel 2002 il protocollo era stato ratificato da 55 Paesi ma nel complesso non si raggiungeva il 55% delle emissioni planetarie di gas serra come previsto dagli accordi: questo limite si è raggiunto solo nel 2004 con la ratifica della Russia.
Ma come si è arrivati a Kyoto? Nel 1972, anno della prima Conferenza internazionale sull’ambiente, i ricercatori del Massachusset Institute of Technology elaborarono il rapporto "I limiti dello sviluppo": per la prima volta da un pulpito scientifico rimbalzavano indicazioni opposte rispetto a quelle della civiltà dei consumi. Il ragionamento, semplice da comprendere quanto difficile da digerire, era che la crescita economica mondiale è legata al limite delle risorse disponibili e il progressivo esaurimento delle risorse naturali avrebbe portato a catastrofi ecologiche, a imponenti conflitti sociali e al collasso dell’intero sistema economico. Dopo la conferenza, l’Onu fece nascere il Programma per l’ambiente (Unep) ma si dovette attendere il 1979 per la prima Conferenza sul clima e l’annuncio al mondo della presenza di alterazioni climatiche: innalzamento delle temperature medie e scioglimento dei ghiacciai. Nel 1988 l’Unep creò l’organismo di controllo (Ipcc: International Panel on Climate Change) allo scopo di indagare sul fenomeno dei cambiamenti climatici e sulle sue cause. Le fondamenta del protocollo di Kioto furono create in occasione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, firmata a Rio de Janeiro nel 1992 durante l’Earth Summit: i partecipanti riconobbero l’importanza della Convenzione come base di successive azioni più energiche. Il secondo rapporto dell’Ipcc è del 1995 e contiene gli elementi di connessione tra le attività umane e i cambiamenti climatici. Materiale convincente, ma non per la Casa Bianca: nel 1997 il Senato Usa respinse il Protocollo di Kyoto con 95 voti a zero. Qui va ricordato che l’opposizione alle iniziative ecologiche non è di natura squisitamente politica: le industrie petrolifere e automobilistiche hanno costituito gigantesche lobby negli Stati Uniti per esercitare pressioni su politici e media. Questo negazionismo climatico, nato per screditare le ricerche sui cambiamenti, sta tuttavia mostrando i propri limiti. E oggi la svolta di Barak Obama, indirizzata alla costruzione di un’economia a basso impatto ambientale come strategia per combattere la crisi economica globale, sembra andare nella logica di Kyoto. I 15 miliardi di dollari stanziati per lo sviluppo massiccio delle energie rinnovabili e per ridurre le emissioni negli Usa ai livelli del 1990 produrranno risultati importanti, ma resta il fatto che attualmente i Paesi che ancora non hanno ratificato il trattato producono circa il 40% delle emissioni di CO2, percentuale ancora troppo alta. E’ il quarto anniversario dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Oggi la domanda fondamentale non è tanto se gli Usa ratificheranno l’accordo ma cosa si dovrà fare dopo il 2012. C’è chi suggerisce misure più severe, chi attende le prossime mosse di Obama, chi se la prende con Cina e India. Ma dato che il problema è legato saldamente alla produzione di energia, la risposta più saggia la troviamo nel libro di Gabrielle Walker (giornalista scientifica) e David King (docente di chimica e fisica a Cambridge) "Una questione scottante, cosa possiamo fare contro il riscaldamento globale" (Codice, 2008): «Quando impareremo a imbrigliare la luce del sole in maniera efficiente, avremo tutta l’energia di cui ci sarà bisogno a domicilio.» La vera soluzione ci sarebbe e il suo nome è decrescita. Ma, abituati come siamo al benessere energetico, chi avrà mai il coraggio di chiederci di ridurre i consumi e gli sprechi?