La situazione socio-economica della Sardegna è sostanzialmente sfavorevole alla maternità e alla paternità. La nostra regione ha il più basso tasso di natalità nazionale (1,03). Non perché le donne sarde non vogliono mettere al mondo bambini – detengono il primato nazionale statistico dei figli che si vorrebbero avere (2,1) – ma per una serie di fattori, i più importanti dei quali si chiamano incertezza del futuro, disoccupazione e precarietà del lavoro, disinteresse istituzionale verso i problemi della famiglia. Disagio sociale e condizione femminile spesso coincidono a causa delle specifiche difficoltà che le donne sarde incontrano nell’accesso alle risorse materiali e immateriali che determinano la qualità della vita degli individui e della famiglie. Innanzitutto l’esclusione dal lavoro, in particolare da lavori stabili e garantiti, principale meccanismo attraverso cui per molte di esse si consolida nell’arco della vita una condizione di svantaggio. L’alta quota di donne in Sardegna estromessa dal mondo del lavoro e dalle opportunità, che il farne parte garantisce, forma un bacino notevole di soggetti a rischio disagio e un problema sociale di portata generale. Non ultimo per la crisi del cosiddetto welfare state, che sempre meno appare in grado di venire incontro alle difficoltà che molte donne devono affrontare in particolari momenti della loro vita: maternità, malattia o anche condizione di solitudine nella vecchiaia. Dai dati disaggregati sul mercato del lavoro regionale, relativi all’ultima rilevazione del III trimestre 2008, si attesta che su una popolazione di 1.661.000, di cui 845.000 donne (più del 50%):
– le forze lavoro (quelli attivi nel mercato del lavoro) sono 694.000, le donne sono solo 278.000.
– le non-forze lavoro sono 967.000 di cui 567.000 le donne.
A parte 101.000 sotto i 15 anni e 172.000 oltre i 64, nella fascia più propriamente lavorativa (15-64) vi sono ben 295.000 donne, di cui 27.000 cercano lavoro non attivamente, 8.000 cercano lavoro ma non sono disponibili a lavorare se non a certe condizioni, 33.000 non cercano ma sono disponibili a lavorare, mentre 227.000 non cercano e non sono disponibili a lavorare.
– Il tasso di attività ( 15-64 anni) per le donne è del 48,5% contro il 70,8% per gli uomini.
– Il tasso di occupazione ( 15-64 anni) è del 42,1% per le donne contro il 64,2% degli uomini.
– Il tasso di disoccupazione è del 13,2% per le donne contro il 9,2% degli uomini.
Gli indicatori evidenziano chiaramente che tra le non forze lavoro (15-64) è maggiore la presenza femminile e vi sono ben 68.000 donne disponibili ad entrare nel mercato del lavoro. Se vi riuscissero potrebbero abbattere il divario con la corrispondente percentuale maschile. Le 68.000 donne disponibili al lavoro potrebbero far crescere il tasso di attività, ma sarebbe importante capire perché le altre 227.000 donne, o parte di esse, facenti capo alla non forza lavoro, non sono disponibili a lavorare. Quali difficoltà, problemi o vincoli portano queste donne a rinunciare? Le trasformazioni del lavoro stanno mettendo a dura prova la famiglia. Prima di tutto la crescente precarietà rende arduo per i giovani sposarsi. La stessa incertezza occupativa spesso mette in crisi i nuclei familiari costituiti. Di contro, senza una soddisfacente vita familiare il lavoro rischia di diventare una forma di alienazione. In Sardegna, dove 400 mila persone vivono in condizioni di povertà e dove mancano adeguati meccanismi di sostegno non solo economico ma anche sociale, le donne sarde pagano il prezzo più alto. Per tradizione si è soliti assegnare all’altra metà del cielo la responsabilità della gestione della casa, della cura dei figli e dell’assistenza agli anziani. Questioni familiari tali da determinare, molto volte, la scelta femminile di abbandonare, temporaneamente o in modo definitivo, il lavoro o rinunciarvi a causa delle ridotte possibilità di conciliare casa e professione. Il salvagente non arriva di certo dalla rete dei servizi sociali, carente soprattutto per la prima infanzia, al di sotto delle necessità delle donne che lavorano. Solo il 14,9% dei Comuni sardi ha attivato servizi per l’infanzia e solo il 10% dei bambini da 0-3 anni ne ha usufruito. Una rete, per altro, costosa: il prezzo dei nidi pubblici privati è in media di 273 euro. Insomma le famiglie sarde arrancano, e non solo per la crisi finanziaria mondiale e gli aumenti dei generi alimentari. Mancano servizi sociali adeguati ai nuovi bisogni. Anche il welfare sardo è in crisi da diverso tempo, perché non in grado di rispondere alle reali esigenze delle persone. Assistenza ai non autosufficienti e carenti servizi per la prima infanzia sono lacune che incidono pesantemente sulla vita familiare e sul reddito. A farne le spese sono sempre più spesso le donne che, secondo l’Istat, in un caso su 5 abbandonano il lavoro dopo aver avuto un figlio e nella ricerca di un lavoro una su 3 rinuncia a trovarsi un’occupazione per l’impossibilità di conciliarla con i carichi di lavoro familiare, anziani da accudire e figli. Naturalmente a complicare questa situazione si aggiunge il dato sull’aumento delle povertà e dell’emarginazione sociale. Anche in Sardegna sono le donne a colmare le carenze del welfare sardo con un sistema assistenziale principalmente basato sul "welfare fai da te", costituito da reti di aiuto informali, in cui le famiglie si sono date da fare per far fronte ai loro bisogni. Ormai questa rete non ce la fa più, perché costruita sul protagonismo femminile. Ma le donne rispetto al passato hanno sempre meno tempo. Disoccupazione, precariato, carenza di servizi sociali e assistenziali, diminuzione dei matrimoni e della natalità, povertà sono aspetti diversi anche di una complessiva crisi economica e del lavoro. Oriana Putzolu
NEL 2008, 144 AZIENDE ISOLANE HANNO CHIUSO I BATTENTI: RECORD DI FALLIMENTI A NUORO
AFFONDANO
LE IMPRESE SARDE
Le imprese staccano la spina: game over . Il 2008 sarà ricordato anche per questo: in Italia i fallimenti sono più che raddoppiati (+106%). E la Sardegna non è stata a guardare: l’isola ha registrato in media un balzo del 23,1%, con punte del +110% a Nuoro. È quanto emerge da una elaborazione di Cribis.it, su dati delle Camere di commercio, pubblicati ieri sul Sole 24 Ore. In Sardegna c’è un’eccezione. Nel 2008 la provincia di Oristano è stata l’unica (e una delle poche in Italia) in cui si è registrata una diminuzione dei fallimenti. Motivo? «Si tratta della provincia meno industrializzata della Sardegna», spiega Massimo Putzu, presidente regionale della Confindustria. «L’economia dell’Oristanese è basata in prevalenza sull’agroalimentare: i maggiori fallimenti, invece, si sono verificati nel comparto manifatturiero». E non è un caso che a Nuoro – provincia sferzata dalla crisi di industrie energivore e legate al mondo della chimica – i risultati sono pesanti. Qui l’aumento dei fallimenti è stato del 110% (21 imprese rispetto alle 10 del 2007). Male anche Sassari, con un incremento del 37,5% (22 imprese rispetto alle 16 di due anni fa) e Cagliari con il 17,3% (95 imprese rispetto alle 81 del 2007). Fa caso a sé Oristano, che è l’unica provincia sarda in cui il numero delle chiusure è diminuito: soltanto sei rispetto alle dieci del 2007, con una diminuzione del 40%. I dati, a livello generale, dimostrano che nel 2008 la difficile congiuntura economica ha portato al fallimento quasi 13 mila imprese italiane, più del doppio rispetto all’anno precedente. In testa alla classifica si trovano la provincia di Napoli (1.128 fallimenti e +563% dal 2007 al 2008) e quella di Roma (1.022 e +76%). Ai vertici anche la Lombardia, con in prima fila Milano (806 fallimenti e +47%) e Brescia (468 fallimenti e +271%). «Queste differenze con la Sardegna, in termini assoluti e percentuali, indicano una disparità di sviluppo», precisa Putzu. «Paradossalmente, l’isola – che è molto sviluppata nel comparto dei servizi – risente meno della bufera economica che sta investendo tutte le grandi imprese. Ad ogni modo», aggiunge il presidente della Confindustria sarda, «ci attendiamo un 2009 più difficile per le aziende isolane». L’elaborazione di Cribis.it mette in evidenza l’allarme che vivono le imprese italiane. Nel 2008 sono stati 12.786 gli imprenditori italiani che hanno chiuso i battenti. Ma non solo. I protesti (che è il risultato di debiti non pagati) hanno raggiunto quota 1.397.685. «La crisi è trasversale», aggiunge Massimo Putzu, «ma non dobbiamo farci prendere dallo sconforto e dal pessimismo». Molto dipenderà dalle scelte di politica economica. «In Sardegna – dopo le elezioni – bisognerà tornare a parlare di strategie e di crescita», osserva ancora il presidente regionale di Confindustria. «Per farlo, però, occorrerà mettere da parte le polemiche e le divisioni. Lo sforzo dovrà essere comune».
I PRIMI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SI FANNO SENTIRE ANCHE IN SARDEGNA
I SARDI SPENDONO SEMPRE MENO
Consumi in netto calo nel 2008 e tra le prime spese ad essere tagliate figura quella per la macchina nuova, mentre non si rinuncia al computer o ai mobili. Questo il risultato della quindicesima edizione dell’Osservatorio di Findomestic banca sui consumi dei beni durevoli in Sardegna, presentata a Cagliari. Lo scorso anno, secondo l’indagine, la spesa complessiva si è attestata sui 1.566 milioni di euro facendo segnare un calo dell’8,6% rispetto all’anno precedente: contrazione ancora superiore alla media nazionale (8%), mentre c’è stata una tenuta del commercio estero regionale. Questo nonostante la ricerca sottolinei come il reddito medio pro capite sia cresciuto nell’isola del 4,5%, si sostiene nella ricerca. A risentire della crisi economica è stato soprattutto il settore dell’auto. La voce rappresenta ancora il maggiore capitolo di spesa per le famiglie isolane ma, lo scorso anno, ha subito una contrazione del 17,9% (con un importo di 544 milioni di euro) nel nuovo e del 5,7% nell’usato (314 milioni). Le immatricolazioni (39.037 lo scorso anno) sono infatti calate di oltre novemila unità e con una previsione di taglio di altre 2.500 nel 2009. La contrazione riguarda soprattutto l’Oristanese (-21,6%) mentre Sassari è quella che ha perso meno (-17,8%). Elevato anche il calo negli acquisti dei motoveicoli, -9,2% rispetto al 2007, quando furono spesi 45 milioni di euro (contro i 41 milioni del 2008). A reggere sono stati solo i settori dell’informatica e dell’arredamento, che sono riusciti a mantenere gli stessi livelli del 2007. In particolare a crescere dello 0,8% sono stati gli acquisti di computer e accessori. La provincia più attenta al settore informatico è stata quella di Nuoro, dove il balzo in avanti è stato dell’1,6%. A seguire Cagliari (+0,9%) e Sassari (+0,4%). Oristano si è fermata invece allo 0,1%. Per l’arredamento per la casa sono stati invece spesi 450 milioni di euro (pari a +0,4%). In calo dell’1,9% gli acquisti per gli elettrodomestici bianchi come frigoriferi e lavatrici. Secondo Findomestic, a calare nel 2008 è stato anche il credito al consumo erogato alle famiglie. Secondo una stima, ancora provvisoria, si parla di una riduzione di 6 o 7 punti percentuali in linea con il dato nazionale. Da notare poi come Cagliari, secondo lo studio, sia al primo posto per sviluppo della grande distribuzione con 5 ipermercati, 7 centri commerciali e 58.800 metri quadri di superficie totale. Alla base del brusco calo dei consumi sono stati soprattutto «il caro prezzi, ma anche la paura di modificare il proprio tenore di vita», ha spiegato il direttore delle relazioni esterne Findomestic Gregorio D’Ottaviano. Per fronteggiare la crisi, il 64% dei sardi pensa a tagliare le spese quotidiane. Come evidenzia Stefano Martini, responsabile della comunicazione per Findomestic Banca, «la contrazione riguarderà nel 50% dei casi le spese per vacanze, mentre il 21% cercherà un secondo lavoro».
UNA SARDIGNA CHENA PASTORES EST COMENTE A LA BIDER CHENA NURAGHES
IL GRIDO D’AIUTO DELL’AGRICOLTURA SARDA
"Pastori sardi per un giusto prezzo del latte ovino". È un gruppo creato nel social network Facebook, a sostegno del settore agricolo della Sardegna e come denuncia della perenne crisi della nostra amata terra, che rischia di portare all’estinzione coloro che l’hanno resa celebre nel mondo e in essa sono stati l’essenza della sua storia: i pastori. La situazione ormai è al limite della tolleranza; prima che s’ arrivi ad un punto di non ritorno, sinonimo di perdita di valori, passioni e
sentimenti fino ad oggi presenti in tutti noi; è fondamentale agire. L’agricoltura sarda è attanagliata da una dura crisi. A causa di chi? Sono molte le risposte a questa domanda, senza dubbio grave responsabilità sta nelle istituzioni; le quali sebbene si siano impegnate per il settore, forse non l’hanno fatto in modo corretto. Dopo decenni di finanziamenti oggi ci ritroviamo in una situazione di disagio, frutto delle politiche distorsive soprattutto dei decenni passati. Atteggiamenti che concedevano denaro in abbondanza a questo settore, che posero le basi per un suo sviluppo , ma che non hanno avuto risultati soddisfacenti. La crisi si manifesta ad ampio spettro, dalla non adeguata retribuzione del prodotto agricolo, al continuo abbandono dei giovani delle campagne, alla crescente subordinazione del settore da aiuti. Nei famosi piani di modernizzazione economica della Sardegna degli anni Settanta e Ottanta vennero concessi tanti finanziamenti per lo sviluppo agricolo, che al tempo non educarono l’agricoltore a un loro proficuo utilizzo. Queste politiche non erano intese molto spesso come investimenti a lungo termine, ma come sussidi economici per un limitato periodo, i quali hanno portato la nostra terra a una continua dipendenza da queste entrate. Tali errori stanno alla base poiché al tempo favorirono lo sviluppo di tanto capitale fisico nel settore, ma forse ancora nessuno pensava al potenziamento di un altro tipo di capitale, quello umano, che a distanza di anni avrebbe potuto aiutare il settore ad espandersi e dare impulso a ragionamenti con un maggiore carattere imprenditoriale. I prodotti delle campagne sarde vengono retribuiti in modo non dignitoso, si pensi al latte ovino pagato circa 0,75 euro al litro a fronte di un costo di produzione (stimato dalla Coldiretti) di circa 1,20 euro, al prezzo della carne di agnello pagata all’allevatore anche a 2,00 euro il chilo mentre al mercato viene venduto a un prezzo che arriva ad essere sette volte superiore, o al valore dato a tutti quei prodotti di nicchia che ormai sono prossimi all’estinzione per la loro non valorizzazione sebbene ricercati dagli estimatori. Se a tutto ciò si aggiunge la lievitazione dei prezzi del mangime e dei concimi che sono raddoppiati, che futuro ci attende? Dove sono le istituzioni? La Sardegna grida aiuto, fino ad ora sono arrivate solo promesse, al limite qualche sussidio elargito durante campagne elettorali passate, per conquistare una poltrona politica che fa dimenticare in fretta gli impegni assunti in precedenza. Non vogliamo che ci si faccia stare zitti con sussidi economici spesso aventi l’aria di un atto commiserevole, per poi tornare al punto di partenza. Si ha bisogno di nuove politiche, con strategie ben definite e non vaghe, meglio se associate anche a una valorizzazione nella formazione di figure professionali che sappiano guidare il settore. Il pastore per secoli ha preso dalla sua terra, ma ha anche saputo ridarle ciò che meritava, oggi a questo nessuno ci pensa? I pastori hanno bisogno di utilizzare un social network per esporre i loro problemi? Forse non si sentono più in mano alle istituzioni o ai sindacati? Tutto ciò è sinonimo si di innovazione, d’altra parte siamo nell’era di internet, ma anche d’ una reale e concreta distanza da chi dovrebbe risolvere i problemi e ascoltare la nostra voce. Una Sardigna chena pastores est comente a la bider chena nuraghes.
Manuel Baiu
SE C’E’ UN PRESIDENTE NERO, CI STA BENE ANCHE UN PRESIDENTE VERO
TIRITERA ELETTORALE
Il mio amico Bruno Tognolini ha scritto un duru-duru elettorale. Eccolo: GUARDATE BENE, SARDI, GUARDATE BENE DURUDURU (TIRITERA) ELETTORALE. Noi siamo piccoli, noi siamo sardi Piccoli. Uomini che fanno lunghi sguardi. Passano i secoli, con piccoli passi. Noi siamo piccoli però non siamo bassi. Non siamo bassi perché in cuore siamo scalzi. Non ci mettiamo né tacchi né rialzi. Noi stiamo zitti. Guardiamo il mare. Secoli fitti che si vedono arrivare. Arrivano dal mare i soliti Baroni. Arrivano dal mare i Presidenti ed i Padroni. I sardi sono piccoli. I grandi sono fessi. I nomi son diversi ma i Baroni son gli stessi. Arriva da lontano, per dirci chi votare. È un Barone. Non si riesce a moderare. I sardi sono arcaici. Con sopracciglia folt.e Per farcelo capire lui ritorna nove volte. Cannoni di sorrisi. Granate di parole … Se siamo piccoli, però, perché ci vuole? Se siamo piccoli, però, di che ha paura? Ha paura del mulo pelle scura. Ha paura dell’asino nascosto. Del cuore di quest’isola che sta in un altro posto. Di qualche spaccatura. Che sta nascendo altrove. Di qualche mulo che si sveglia e che si muove. Di qualche cosa che lo faccia moderare. Gli sappia fare guerra. Lo metta a piede in terra. Qualcosa che è lontana, che a Roma non si sente. Però quest’isola è un altro continente … Noi siamo piccoli. Col pepe nelle vene. Noi siamo piccoli però guardiamo bene. Andiamo a votare. Da chi farci comandare. Però c’è un modo strano di rispondere ai comandi. Noi siamo piccoli ma abbiamo gli occhi grandi. Guardate bene, sardi. Io guardo e miro. Guardate bene, sardi. Io guardo e spero. Se si può fare un presidente nero si può fare anche un presidente vero.
(ci riferisce Flavio Soriga)
I COMMENTI E IL SONDAGGIO NEL BLOG DI "TOTTUS IN PARI" E LE TESTIMONIANZE DEI COLLABORATORI
PER SORU E’ UN PLEBISCITO
A me pare che Renato Soru continui nell’opera (non so quanto cosciente) di rompere gli schemi della politica con cui aveva iniziato la sua avventura, autocandidandosi a capitanare lo schieramento di centro sinistra nella precedente tornata elettorale regionale. Il miracolo è che non abbia ancora pagato dazio, che né la destra e né la sinistra l’abbiano espulso come corpo estraneo alla logica che presiede il balletto politico che da una quindicina d’anni va in scena nei teatri delle lande italiane. Dà un fastidio tremendo ad entrambi gli schieramenti. Intanto perché si presenta come "altro", proveniente dalla società civile, non intenzionato a fare carriera politica per denaro. Anzi ci rimette del suo a non occuparsi di business, come prima. Poi perché n
on usa piegarsi a logiche spartitorie di partito, non tenendo in calo che i voti provenienti dall’uso accorto di determinate clientele valgono quanto e più degli altri. Non parliamo poi di questa sua tendenza a non voler vedere (quasi) mai l’interesse primario del partito stesso, che consiste nel suo perpetrarsi nel tempo, sempre, anche a scapito degli elettori e di quelle anime candide (opinionisti, giornalisti indipendenti, pochi ma ce ne sono ancora) che mica si debbono preoccupare di essere rieletti, loro, e quindi si possono permettere sfoggi di moralismo che chi vive di sola politica deve accantonare come l’ultima delle priorità. "Primum manducare, deinde philosophari". Questa storia poi di non voler ricandidare nelle sue liste (come fossero cosa sua personale) chi abbia già occupato per più anni i prestigiosi e remuneratissimi scranni istituzionali, beh questa è proprio volersi dare la zappa sui piedi. In un qualsiasi partito italiota, da rifondazione alla lega, uno così verrebbe caldamente consigliato di rivolgersi urgentemente ad annose sedute psicoanalitiche. Prima di ripresentarsi nelle competenti sedi. Che nel suo di listino ci metta poi un sacco di donne di valore, senza minimamente tener conto che in Italia per "quote rosa" si intende la candidatura di splendide figliole che sgambano di solito nei talk-show televisivi e sono, quando va bene, il cinque per cento di tutti i posti disponibili, maschiamente e virilmente occupati come da prassi più che annosa. Com’è che il cosiddetto centro sinistra lo va a ricandidare? Ma per disperazione, naturalmente. Il partito più forte, si fa per dire, il PD è quell’ectoplasma che ha visto metà dei suoi votare contro una delle leggi più caratterizzanti l’intera legislatura, mettendoci del suo (l’altro è opera del "governatore") per mandare a casa tutto il consiglio regionale e andare a votare anticipatamente, seppur di pochi mesi, ma con l’alea mortale di non essere, dio non voglia, più rieletti. Che se quel matto di Soru viene sconfitto male che gli vada se ne torna a dirigere Tiscali, magari a mettere su alberghi stellati a Funtanazza o a giocare a fare l’editore con "L’Unità". Ma se uno non fa più il consigliere regionale cosa gli tocca dal destino crudele? Correre per l’elezione a sindaco di Figu? Implorare un posto in una qualche sottocommissione se si butta dall’altra parte della barricata vincente? Sono tragedie personali e "strategie politiche" che i comuni mortali neanche riescono a immaginare! E gli altri partiti, i "più deboli", quel misto fritto di sardisti, neocomunisti, verdi commissariati, improbabili socialisti mai morti, cosa volete che facciano loro? Andranno a Lourdes a pregare che la salute del Renato sanlurese continui a reggere, che diversamente sperare di battere il cosiddetto Popolo della Libertà (con un candidato diverso da Soru) sarebbe indice sicuro di quel trauma psichico che prima andavamo imputando al campidanese nostro. Perché è evidente che, dati per conosciuti i mezzi mediatici con cui in Italia si sposta il voto non ideologico degli elettori senza casacca (il 30% del totale): parlo naturalmente delle tre reti personalmente in possesso del Presidente del Consiglio, le tre reti Rai che svolgono, da sempre, "servizio pubblico" largamente spostato a destra; il sistema giornalistico e della grande editoria tutto (tranne Repubblica e qualche giornaletto "di sinistra" che vende poche decine di migliaia di copie ed è sul punto di scomparire per inedia di lettori) è saldamente nelle mani del Cavaliere. Le statistiche internazionali di "libertà di stampa" ci vedono largamente in fondo al gruppo dei peggiori arrancare per acciuffare il posto del Burkina -Faso. Neanche Nembo Kid vincerebbe mai un’elezione contro uno simile schieramento. E’ successo al buon Prodi giusto due volte perché si veniva da anni in cui il Cavaliere ne aveva combinate talmente tante, col suo governo, che era proprio impossibile scordarsele tutte e praticamente era come avesse fatto, per anni, campagna elettorale contro se stesso, esattamente come in questo periodo del resto (vedi Alitalia, Expò milanese, riforma gelminiana ecc. ecc.). Ma che c’entra il Cavaliere, direte voi, che il vero antagonista risponde al nome di Cappellacci Ugo. Gli è che il signor Cappellacci che in politica ci sta invece da sempre, l’ha respirata, come in molte famiglie italiane usa, fin da bambino, e quindi sa benissimo che, se si mette a correre da solo contro quell’ircocervo di Soru, non ha la minima probabilità di vincere. Ma chi lo conosce? E’ mai andato da Fabio Fazio, o alle "invasioni barbariche"? E allora,che fa: si mette a urlare a squarciagola che leverà ogni tassa possibile e immaginabile, darà lavoro a duecentomila, trecentomila, disoccupati, farà arrivare in Sardegna un altro gasdotto dalla Russia senza passare dall’Ucraina (Berlusconi ha già telefonato al suo amico sovietico, che lui esecra il termine comunista). Insomma i programmi elettorali, si sa, valgono per il giorno che li si scrive. Anche fosse davanti a un prestigioso notaio come Vespa Bruno, giornalista indipendente. Allora tocca mettersi nelle mani di Lui, il Cavaliere prossimo re d’Italia, e se si perde un poco la faccia, beh il fine giustifica i mezzi. Si comanderà in compenso per cinque anni in Sardegna e su tutte le sue coste. In scorno al WWF e agli amanti del cervo sardo, che tra parentesi dà un prosciutto che levati! Come voteranno i sardi residenti non mi è dato di sapere, certo qui in Continente non ci sarebbe gara: Soru Huber Halles! Nell’isola fatata però tutto può succedere. Visto il robusto vento che spira da destra nell’intero orbe terraqueo, visto l’apparato mediatico che può squadernare il Puparo di Castellacci, il miracolo vero sarebbe che Soru riuscisse a vincere la partita. A dispetto di tutti, compresi i "suoi". Uno più sardista di lui non lo si vedeva dai tempi di Lussu, se scomparisse dall’orizzonte politico della scena nazionale (come Riccardo Illy) lascerebbe un vuoto di sincera nostalgia.
Sergio Portas
IL SOSTEGNO A SORU ARRIVA ANCHE DA UN EMIGRATO ALLE HAWAII
Sono un cittadino americano oltre che italiano, o un sardo-hawaiiano se preferite. Sono soprattutto un sardo! Orgoglioso di esserlo e grato di questo dono della natura (del destino) che mi ha accompagnato e ci accompagna ovunque noi siamo nel mondo e qui in Italia. Volevo RACCONTARVI LA MIA ESPERIENZA, e spiegarvi perché stò con Soru e perchè son contento di esserlo. Vengo da una numerosa famiglia che culturalmente e socialmente ha fatto cose importanti in Sardegna, ma che si è sempre mantenuta umile, direi quasi volutamente povera economicamente. I miei genitori erano due insegnanti scolastici con 7 figli e tutto casa e chiesa. Io però mi sentivo estremamente ricco per i principi morali e la sardità nobile che regnava nelle nostre famiglie. Ero animato da mire diverse. Io ho voluto seguire una mia strada, diversa da quella classica dei miei genitori o dei miei fratelli e sorelle, diversa anche da quella che e
ra diventata la strada obbligata dei miei colleghi insegnanti o giornalisti. A vent’anni mentre mi stavo diplomando all’ISEF ho lasciato la Sardegna, seguendo l’invito dell’ editore Mursia, per andare a Milano col sogno segreto di fare il giornalista sportivo in giro per il mondo. HO POSTO L’ASTICELLA UN PO’ PIU’ IN ALTO E HO PROVATO A SALTARLA. CI SONO RIUSCITO e sono andato avanti senza curarmi di chi cercava di frenarmi o di combattermi. Ho diretto riviste, collaborato con tante testate ed editori internazionali, ho fatto lo speaker nelle gare di Coppa del mondo ho seguito due olimpiadi. Per venti anni ha girato il mondo quasi non stop in lungo e in largo con e senza windsurf, nei cosiddetti paradisi delle vacanze. E spesso, con tristezza li vedevo trasformati da un anno all’altro, E ogni volta mi dicevo, ma da noi in Sardegna non è più bello? Speriamo da noi non succeda questa trasformazione del paesaggio. Per trent’anni sono rientrato a spizzichi in Sardegna e solo in questi ultimi 2-3 anni ho sentito il vento del cambiamento come mai era avvenuto prima. Al raggiungimento dei miei obiettivi mi ha aiutato e mi aiuta tantissimo, quell’equilibrio spirituale che si raggiunge dal fatto di avere l’animo sardo. Nel 2000, mi sono trasferito con la famiglia a Maui nelle Hawaii, un’isola ai nostri antipodi che già ben conoscevo. Un’isola che in trent’anni si è trasformata. Passando dal commercio delle canne da zucchero alla ‘ricchezza’ portata da un turismo praticato 12 mesi all’anno, sfruttando le loro bellezze naturali. Da tempo penso che anche noi possiamo e dobbiamo seguire questa politica. Non costruendo i palazzoni sulle spiagge, ma sfruttando le zone interne, ancora più intriganti, ancora più caratteristiche. Dove il forestiero, può entrare nel tessuto della nostra società della nostra cucina, dei nostri modi di essere. Quando nel 2003 ho sentito che Soru voleva entrare in politica e candidarsi alle Regionali, ho avuto uno scatto di entusiasmo. Finalmente un tecnico con il cuore per la Sardegna. Poi à arrivata la legge salvacoste e lì ho esultato. Da sardo cittadino del mondo mi son sentito protetto, Questo ‘fermo biologico’ del cemento sulle nostre coste è un stato un gesto di rara lungimiranza che anche chi scalpita adesso capirà e beneficerà tra 10-15 anni. Tre anni fa ho fatto rientrare mia moglie con le nostre due figlie in Sardegna. Volevo che assorbissero le radici della nostra cultura, il nostro modo di intendere la famiglia, l’amicizia. Ma anche io vorrei tornare in pianta stabile in Sardegna, non solo per stare più spesso con mia moglie e le mie figlie, ma anche per vivere nella mia terra e restituirle qualcosa, se ne son capace. Vorrei contribuire a creare in Sardegna quel flusso turistico a cui accennavo prima. Per questo sto con Soru, per questo spero possa continuare il suo programma. Il nostro ambiente, il nostro territorio, difendiamolo! Valorizziamolo con le giuste attenzioni. Da qualsiasi parte della Sardegna proveniamo. I nostri sapori, i nostri colori, le nostre pietre, le nostre piante, i nostri vini ma anche le nostre chiese, i nostri nuraghi, le nostre montagne, le nostre spiagge. La nostra lingua, così bella, così espressiva. Son tutte cose di valore, che conosciamo bene quando siamo nel nostro territorio, che amiamo profondamente e che ci mancano quando ne stiamo lontani troppo a lungo. E son cose che spesso non sappiamo di aver la fortuna di avere, fino a quando non andiamo fuori e facciamo il confronto. Io credo che realmente in Sardegna nei prossimi decenni si possa vivere in larga misura con l’indotto creato da un turismo sostenibile. Un turismo legato all’ambiente. UN TURISMO LEGATO AI NOSTRI PERCORSI A PIEDI O IN BICICLETTA. Allora, impariamo le nuove professioni legate al turismo ambientale, legate alle energie rinnovabili, legate all’informatica e la comunicazione, perché è da quelle che troveremo le nuove occupazioni o le troveranno i nostri figli che vorranno sempre tornare indietro, a vivere in Sardegna. Per questo credo in Soru e spero possa continuare questo processo di rinnovamento e valorizzazione che ha iniziato.
Pietro Porcella
IN SARDEGNA DALLA FINLANDIA, PER IL PERIODO ELETTORALE
UNA BREVE VISITA
Dall’11 al 18 febbraio andrò in Sardegna per una breve visita, considerando che nel mio posto di lavoro sono previste le cosidette "vacanze invernali". Qui in Finlandia le lezioni hanno inizio il 10 agosto e quindi questo intervallo è ampiamente giustificato. Come sappiamo è in corso nella nostra Isola la campagna elettorale per l’elezione del nuovo consiglio regionale. Da quel che si legge, nessuna particolare novità: nella nostra terra calano in continuazione uno stormo di ministri e altissime cariche dello Stato con le più variegate promesse. Le cronache ci informano che finalmente i problemi della Chimica saranno defitivamente risolti, i disoccupati avranno un sostanzioso sussidio per un non lieve numero di anni, la Sardegna diventerà addirittura un paesaggio dove il verde la farà da padrone, ed il sorriso tornerà radioso nelle bocche di tutti, specie dei residenti. Io che risiedo in lontananza non so esattamente se ridere o piangere. Quello che mi infastidisce maggiormente è il constatare con cronometrica precisione come ci si interessi di noi solo nei giorni precedenti le tornate elettorali. Dopo di che, gabbata la popolazione, l’indifferenza e l’abbandono ridiventeranno abituali.
Ricordate l’alluvione di Capoterra di qualche mese fa? Ebbene, in quell’occasione NESSUNO, dei più alti vertici dello Stato, si è preoccupato di portare un sostanzioso aiuto e dei contributi per il domani. Il problema è sempre lo stesso: noi siamo considerati sempre più alla stregua di una colonia d’oltremare, da consumare con lauti banchetti e poi abbandonare al proprio destino. Ma la colpa di questa situazione ricade anche su noi stessi, sulla nostra indifferenza, sul nostro modo di essere quasi compiaciuti di dipendere dal "ricco e potente", che viene e finge interesse mentre in realtà ci offre solo squallidi piatti di lenticchie. Il nostro destino è sempre lo stesso: sembriamo quasi assuefatti
di dipendere da questa generazione di padroni, che sfoggiano le bellezze dell’Isola solo per mostrarle ai potenti di turno, come si fà quando il maturo miliardario esibisce alla sua combriccola l’imberbe ragazzina quale trofeo della sua potenza e arroganza. E noi sardi sembra che stiamo a questo gioco, che non abbiamo la minima forza per ribellarci e reagire: è il nostro destino, a pensarci bene. Evidentemente non ci meritiamo altro. Perchè è arrivato il momento di parlare chiaramente: siamo solo bravi a subire senza reagire, ad accettare tutto, anche le più gravi nefandezze. Non riusciamo a prendere alcuna iniziativa personale, ci lamentiamo di tutto, ci sentiamo vittime del destino e della predestinazione. Sembra che quasi, privi di qualsiasi forza propulsiva, ci faccia piacere dipendere dagli altri, promettendo loro il voto senza nulla in cambio, se non le loro false promesse. Forse abbiamo ciò che meritiamo. Forse l’essere una "colonia" ci fà star meglio, forse ancora l’aspettare il lavoro stando comodamente seduti in poltrona rientra nel nostro modo di vivere e concepire la società. Ma se è così, smettiamola una volta per sempre di lamentarci contro tutto e tutti, e prendiamocela solo con noi stessi, con la nostra voglia di subire senza reazione. Queste elezioni rappresentano una specie di cartina di tornasole al riguardo. In questi giorni l’Isola è frequentata come non mai dai "grandi" dello Stato. Noi stiamo a guardare ed osservare incuriositi. Io stesso, quando arriverò fra non molti giorni, sarò portato a verificare ciò che pensano i miei corregionali. Il mio pessimismo nasce proprio dalla considerazione che i primi a non volere alcun "cambiamento" siamo noi, eternamente destinati a dipendere dallo Stato centrale, che tutto decide, dispone e controlla, alla faccia della gente sfiduciata che si prostra invariabilmente ai loro piedi, eterna testimonianza del valore della differenza di classe e di censo. Vedrò, con più precisione, quale sia la quantità dei miei corregionali che ancora credono alle lusinghe e alle promesse di questi pseudo signori. Anzi, di questi pseudo padroni dei nostri stivali.
Mario Sconamila
PERCORSI DI FEDE E RICERCA SCIENTIFICA DI UN PRESBITERO SARDO
LIBRO AUTOBIOGRAFICO DI TONINO CABIZZOSU
Tonino Cabizzosu, dottorato conseguito nella facoltà di Storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e autore di ben 38 pubblicazioni scientifiche, è certamente da considerarsi il massimo studioso della Chiesa nella società sarda dell’Ottocento e Novecento. Agli iniziali stimoli alla scrittura -nella scoperta e valorizzazione delle figure dei sacerdoti-intellettuali Damiano Filia, storico illoraese, e del poeta letterato berchiddese Pietro Casu, in cui si fondevano "azione ecclesiale e culturale"- il Cabizzosu è riuscito a conciliare in modo esemplare l’attività di studio con quella specificatamente sacerdotale, che ora propone con la stampa (Grafiche Ghiani srl, Monastir, Pagg.244, s.p.) di "Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo". Il libro autobiografico e di sentimenti intensi, scritto nel 2000 in occasione dell’anniversario del xxv° di sacerdozio, era stato "custodito nella memoria informatica" sino alla primavera del 2008; ora, apportati i minimi e necessari aggiornamenti, pubblicato per "riflettere su un arco di tempo significativo" e rendere omaggio all’ambiente familiare, principalmente all’azione educatrice dei genitori Giuseppe Agostino e Mattia, e di quanti hanno favorito la formazione e lo sviluppo vocazionale, coronato nella "grazia inestimabile del sacerdozio ministeriale". La metodologia del lavoro è rigorosa, minuziosa, precisa ed inquadrata nelle diverse realtà sociali ed umane; risaltano le esperienze pastorali e i fermenti sociali, giudicati sempre con estrema obiettività. Attraverso "Percorsi…", si ha la possibilità di conoscere la storia semplice di "…un ragazzo, nato in una famiglia numerosa, in un paese del Goceano" che, mediante la fede, ha sviluppato un tragitto da sacerdote moderno e con la passione allo studio ha donato un corpus innovativo di pregevoli, appassionanti e originali studi scientifici su Chiesa e società sarda.
Cristoforo Puddu
LA VITTORIA COMPLETA SOLO CON LA TERAPIA GENICA
LA TALASSEMIA FA MENO PAURA
Sino a trent’anni fa la talassemia era un flagello della Sardegna, si registravano dai 100 ai 120 casi all’anno. E i pazienti non avevano una lunga vita: un malato su due moriva prima di arrivare a 12 anni. Con l’avvento di campagne di prevenzione e della diagnosi prenatale il numero dei malati è calato drasticamente a 5-6 l’anno. E i progressi della ricerca hanno fatto sì che la loro vita non avesse un limite particolare. Oggi il 90% dei 1.200 talassemici sardi (800 circa concentrati nelle province di Cagliari, Sulcis e Medio Campidano) ha più di 18 anni. Molti si sposano, hanno figli, conducono una vita normale. E prima i trapianti di midollo, ora gli studi sulla terapia genetica in corso, in numerosi paesi lasciano intravedere una speranza di guarigione. La talassemia è una malattia ereditaria del sangue: una forma di anemia cronica, la più diffusa in Italia, legata all’alterazione dell’emoglobina. Sulla sua origine non si hanno notizie storiche certe. Potrebbe essere stata importata nel nostro Paese dall’Asia minore o dalla Grecia. E’ sicuro invece che in origine fosse particolarmente diffusa nelle aree paludose del Mediterraneo, infestate dalla malaria, che però risparmiava i portatori sani. I quali, grazie a questa forma di selezione, si sono moltiplicati, determinando un maggior numero di malati. In seguito alle migrazioni, dalle aree asiatiche e mediterranee si è diffusa in nazioni che ne erano immuni. L’Italia resta il paese più colpito, ma oggi la talassemia è presente anche in altri, lontanissimi paesi dell’Europa del nord come la Svezia,
l’Inghilterra, la Danimarca e le nazioni dell’Est. I primi a descrivere la malattia sono stati nel 1925, i pediatri americani Cooley e Lee, in bambini italiani e greci. Da qui i vari nomi: talassemia (dal greco thalassa), anemia mediterranea, morbo di Cooley (ma anche microcitemia). All’origine c’è l’alterazione dei due geni che presiedono alla formazione dell’emoglobina, sostanza del sangue che consente il trasporto dell’ossigeno nei tessuti. Ed è solo attraverso la trasmissione di questi geni dai genitori ai figli che si può contrarre la malattia. Una coppia formata da portatori sani ha una probabilità su quattro di avere figli talassemici. Rischio che si ripresenta invariato in occasione di ogni gravidanza. Due genitori sani potranno invece avere altri figli anche loro portatori sani ma non talassemici. Se invece un genitore è portatore sano e un altro no, potranno avere un figlio portatore sano ma non talassemico. Questo significa che è possibile prevenire la malattia con alcuni esami di laboratorio prima del concepimento (per accertare la presenza dell’anomalia genetica). Durante la gravidanza, si può invece accertare se il feto è malato attraverso l’esame dell’emoglobina fetale e la diagnosi prenatale. Proprio grazie a una imponente campagna di sensibilizzazione e di prevenzione effettuata dagli anni 70 in poi, in Sardegna si è riusciti a ridurre al minimo il numero di nuovi casi. Oggi l’unico metodo per guarire dalla talassemia è il trapianto di midollo osseo, che in Sardegna si esegue presso gli ospedale Microcitemico, Binaghi e Businco di Cagliari. Chi non può essere sottoposto a trapianto deve invece ricevere periodiche trasfusioni di sangue per porre rimedio al grave stato di anemia. Questo provoca un accumulo di ferro che viene ridotto mediante la quotidiana somministrazione di un farmaco, il desferal, attraverso un infusore sistemato all’altezza dell’addome. Pratica che ha consentito di migliorare la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti, ma comporta, specie per i più giovani, disagi di ordine pratico. Che, in parte, sono stati eliminati dall’introduzione di due farmaci da prendere per bocca, il deferisinox e deferiprone.
Massimiliano Perlato
E FECERO DELL’ITALIA L’OMBELICO DEL MONDO
DALLA PARTE DI UN EUROPA SENZA FRONTIERE
C’è in giro, qua e là per l’Italia, un ipernazionalismo stucchevole. Ne sono infettati frequentatori del Bar dello sport, ma anche giornalisti di fama e politici più o meno famosi che pensano al loro Stato come insostituibile ombelico del mondo. Passi per i primi, che più degli avventori non influenzano. Ma gli altri, se presi sul serio, sarebbero capaci di trascinarci in guerre revansciste o in rottura di rapporti diplomatici, inizi di disamistedes internazionali. Si sono irati perché il Vaticano, stato indipendente, ha deciso di valutare volta per volta se accogliere o non accogliere nel proprio ordinamento le leggi italiane, leggi di uno stato estero. Adesso sono incavolati, fino a minacciare (qualcuno, sia chiaro) il ritiro dell’ambasciatore italiano, perché il Brasile ha osato applicare le proprie leggi nel caso di un latitante lasciato scappare dall’Italia. Quel che è giusto in Italia – è il ragionamento degli ipernazionalisti – non può non essere giusto fuori dei suoi confini. Naturalmente non è vero il reciproco e credo troverebbero ridicola la pretesa, che so?, della Spagna di applicare in Italia le leggi spagnole. Trovano normale (ed io con loro, ovviamente) che le leggi italiane impediscano l’estradizione di qualcuno verso uno stato che applichi la pena di morte, contestano fino alle urla che uno stato contempli la non estradizione verso l’Italia di qualcuno condannato per un crimine politico. Si permettono di dire che il Kosovo o il Montenegro sono staterelli in balia delle mafie, ma si indignerebbero (più di una volta lo hanno fatto) se all’Italia è rivolta la stessa accusa. Sbertucciano i piccoli stati, ma non riescono neppure a sorridere alla storiella cinese che fa dire "e in quale albergo sono scesi?" a un capo della Cina a cui è riferito che gli italiani hanno deciso di invaderla. Credo che il top di questo morbo lo abbia raggiunto giorni fa un giornalista, Gian Antonio Stella, che scrive della trista condizione degli italiani sulla frontiera fra Slovenia e Croazia. Racconta delle difficoltà (spesso vere vessazioni burocratiche) cui sono soggetti gli abitanti di comuni contigui in quel che fu l’Istria sotto la dominazione italiana, oggi divisa fra due stati. Come se il superamento delle frontiere non avesse fino ad avantieri creato problemi ai sud tirolesi che volesse andare nel nord Tirolo. Come se fino ad avantieri non ci fossero stati problemi di frontiera per gli occitani delle Valli cuneesi per raggiungere gli occitani in terra di Francia. L’Italia ha annesso territori e popoli, ha ceduto territori e popoli (da Nizza alla Savoia), ha creato frontiere laddove non c’erano. Ma che conta? Per gente come Gian Antonio Stella l’Italia è nel giusto; chi è da condannare sono la Slovenia e la Croazia che hanno fatto lo stesso. Per uno che, come me, è decisamente dalla parte dell’Europa delle Regioni, senza frontiere, quel che capita fra i due stati balcanici è francamente intollerabile. E da sardo non posso non riprovarlo; ma come cittadino dell’Italia sarei almeno cauto come un bue che volesse dare del cornuto ad un asino. Il giornalista cita come esempio di mala sorte quel cittadino croato di etnia italiana che è "nato italiano per diventare yugoslavo, sloveno e in fine croato" senza mai muoversi di casa. Che dire dei sardi che, senza muoversi dall’isola, nacquero sardi, diventarono catalani, spagnoli, austriaci, piemontesi, italiani?
Gianfranco Pintore
SONO SEMPRE PIU’ INSISTENTI LE VOCI
IL RITORNO DEL NUCLEARE IN ITALIA
Il Governo insiste per il "ritorno" del nucleare in Italia. Sta per riportare l’Italia fra le nazioni che utilizzano l’energia nucleare fra le fonti di produzione energetica. Senza "se" e senza "ma". Il disegno di legge n. 1195 ("Disposizioni per lo sviluppo e l’
internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia"), attualmente in discussione al Senato della Repubblica, dà il "via libera" alle procedure per la localizzazione e realizzazione delle nuove centrali nucleari nel nostro Paese. Non è proprio una sorpresa, se ne parlava da tempo. L’Italia ha già utilizzato l’energia nucleare, fra il 1960 ed il 1980, con risultati positivi scarsi (la percentuale di energia prodotta si aggirava sul 2 % del fabbisogno energetico) e problemi insoluti enormi, come quelli della sicurezza e delle scorie. E’ un penoso, pericoloso e costoso ritorno al passato. Per il solo disastro nucleare di Chernobyl sono state stimate oltre 500 mila vittime dirette ed indirette (The Guardian, 2006). Al contrario di quanto sostenuto dal Ministro per le attività produttive Claudio Scaiola, sono diversi i Paesi che hanno rinunciato all’energia nucleare proprio per la mancata soluzione di questi gravi problemi: l’Austria (1978), la Svezia (1980), l’Irlanda, la Danimarca, la Grecia, la Norvegia, il Belgio, la Germania. Nemmeno appaiono convenienti i pesanti costi di investimento per la realizzazione degli impianti e per le necessarie – ma non risolutive – misure di sicurezza e di gestione e smaltimento delle scorie. Nel 1987, a forte maggioranza (fra il 71,90 % e l’80,60 % dei votanti), gli elettori italiani con tre referendum decisero per l’uscita dell’Italia dal gruppo delle Nazioni che producevano energia elettrica anche con il nucleare. Nel 2003 in Sardegna ci fu una vera e propria rivolta popolare contro l’ipotesi governativa di realizzarvi il deposito unico delle scorie nucleari nazionali. Lo stesso avvenne qualche mese dopo a Scanzano, in Basilicata. Una soluzione non è stata ancora trovata, ma il Governo vuole imbarcarci tutti in questa nuova avventura nucleare. Avventura che sarà il più possibile coperta dal segreto di Stato. Naturalmente senza che gli italiani abbiano chiesto nulla né che siano stati consultati per scelte così rilevanti. Anzi, l’unico pronunciamento degli elettori (1987) è stato fortemente contrario, i recenti sondaggi (Ipsos – Public affairs, 2007) anche, visto che gli italiani chiedono la promozione delle energie rinnovabili. Ricordiamo qualche elemento di estrema importanza:
– l’energia nucleare non è abbondante: essa serve solo a produrre energia elettrica e l’energia elettrica rappresenta nel mondo meno di un terzo del bilancio energetico. Alla produzione di energia elettrica, l’energia nucleare fornisce un contributo pari al 15%, a fronte del 66% rappresentato dai combustibili fossili come petrolio e carbone. A questo ritmo di consumo, c’è uranio fissile – ci dice il rapporto congiunto del 2008 dell’A.I.E.A. e della N.E.A., Agenzia dell’O.C.S.E. – per 50-70 anni, a seconda che si tratti di risorse "ragionevolmente assicurate" o di "risorse stimate". Se dunque si volesse almeno dimezzare la massiccia incidenza dei combustibili fossili, bisognerebbe almeno triplicare in tempi rapidi la percentuale nucleare: ci scanneremmo per l’uranio come ci scanniamo per il petrolio che è all’origine di tanti conflitti;
– l’energia nucleare non è pulita: dosi comunque piccole di radiazioni, sommandosi al fondo naturale di radioattività, possono causare eventi sanitari gravi (tumori, leucemie, effetti sulle generazioni future) ai lavoratori e alle popolazioni, nel funzionamento "normale" degli impianti e, ovviamente, nel caso di incidenti. Resta irrisolto il problema dei rifiuti radioattivi, materia tuttora di ricerca, dopo il fallimento della prospettiva di utilizzare strutture saline. E quanto ai cambiamenti climatici, anche un raddoppio – invero improbabile – dei reattori oggi esistenti nel mondo darebbe un contributo insignificante alla riduzione della concentrazione di anidride carbonica;
– l’energia nucleare non è a basso costo: la complessità del ciclo del combustibile, i dispositivi sempre più impegnativi per mitigare l’impatto sanitario degli impianti sono alla base della lievitazione del costo dell’energia prodotta e della situazione di stallo nei paesi più avanzati, che pure avevano perseguito con decisione nel passato questa produzione di energia anche per l’intreccio essenziale con la produzione degli armamenti nucleari. Oggi, mentre il costo del kWh nucleare continua a crescere, i costi delle fonti rinnovabili diminuiscono ogni anno e la loro diffusione cresce in modo esponenziale. I costi di alcune fonti energetiche rinnovabili sono già oggi del tutto paragonabili alle altre, nucleare in testa.
Stefano Deliperi
L’INCHIESTA SUL POLIGONO MILITARE DI PERDAS DE FOGU
QUIRRA E I RAGAZZI DI "MAMA SABOT"
I ragazzi di Mama Sabot, gli scrittori e i giornalisti che hanno intrapreso l’inchiesta sul poligono militare di Perdas de Fogu, dalla quale con Massimo Carlotto hanno prodotto l’omonimo romanzo noir mediterraneo, stanno girando la Sardegna e l’Italia per parlare alla gente di questa questione spaventosa che viene regolarmente ignorata dai media locali. Il collettivo sardo sta dando prova di come la letteratura può profondere nella società un grande impegno di rilevanza essenziale. Le loro conferenze sono diventate l’epicentro dei gruppi di azione contro le installazioni militari in tutta Italia. La lettura del romanzo è duplice, gli intenti narrativi nascono da un meticoloso lavoro di inchiesta che parte dalle contorsioni istituzionali, passa per gli interessi della Nato e arriva sino al cuore della Sardegna, che si svela sporco, velenoso e radioattivo. Il patto letterario si basa sulla veridicità dei fatti, esaminati attraverso due anni di inchiesta che ha prodotto 1.500 pagine di esami e di prove. Il poligono sperimentale e di addestramento Interforze del Salto di Quirra comprende otto comuni e 26.000 abitanti; esso viene usato ormai da anni per sperimentare nuove tecnologie militari, non solamente della Nato ma anche di multinazionali della morte che, potendo prendere in affitto alcuni lotti dei 13.000 ettari a disposizione della NATO, hanno la facoltà di sperimentare qualsiasi tipo di strumentazione senza poter essere controllati o limitati nelle loro attività. Il giro d’affari che sta dietro queste concessioni è gigantesco, le compagnie sborsano fino a 50.000 € per un’ora, quindi circa 400.000 per una giornata intera per l’utilizzo di un solo lotto; inoltre basta un’autocertificazione che attesti le operazioni di esercitazione e una dichiarazione in cui il soggetto occupante si assuma la responsabilità delle eventuali conseguenze negative della manovra. La storia che c’è dietro a quei paesi è una storia di tumori e leucemie, malformazioni genetiche e morti silenziose. L’azione dell’uranio impoverito è nota da lunga data, già dal ’79 si conosce il pericolo sia per le persone vicine che per quelle sottovento, anche a lunga gittata. Le radiazioni Alfa che vengono prodotte dalla detonazione possono essere trascinate dal vento e si depositano nell’organismo senza essere filtrate dai polmoni, sedimentandosi nelle cellule probabilmente per sempre. La pericolosità di tali munizioni è stata accertata dagli scienziati americani e ne è stata data conferma ai vertici militari italiani, nel ’78, ’79, ’86, ’90, e nel ’92 con un documentario su videocassetta. Allora come mai permettono tutt’oggi che i nostri soldati le utilizzino al fronte e nel suolo nazionale abitato da civili? Nella guerra del Golfo sono stati sparati 400 tonnellate di munizioni all’uranio impoverito, causando 90.000 casi di malattie gravi su 700.000 soldati. Nella guerra dei Balcani ne sono state sparate solo 30 tonnellate e si è rilevato che i danni riportati possono essere comparati a quelli di un’altra Cernobyl. I politici italiani a suo tempo dichiararono di non aver sparato neppure una di quelle munizioni, ma contemporaneamente il comandante delle forze alleate Bagnoli li auto smentiva dichiarando che in quella guerra furono sparati 11.000 proiettili. Ciò non basta, i soldati americani per sminare erano forniti della tuta impermeabile NBC progettata per essere usata in aree altamente contaminate; mentre i soldati italiani, ridendosela andavano in magliettina o a torso nudo. Quello che accade entro il perimetro della struttura è praticamente un mistero coperto da segreto militare e da segreto industriale, ma gli effetti si sono avvertiti già negli anni ’80 a Quirra, Villasor, San Sperate e a Decimo, dove si è rilevato un incremento di neonati malformati (in un anno 6 su 18), si sono riscontrati casi di ermafroditismo e un caso di idrocefalea. Negli ultimi vent’anni su una popolazione di 150 persone 32 si ammalano di leucemia; tra il ’97 e il 2001 si è registrato un tasso superiore del 3% di mortalità delle donne e un 3% in più di casi di leucemia per i pastori. La colpa di ciò non può essere imputata solamente all’utilizzo dell’uranio impoverito; per causare una devastazione simile servirebbe un quantitativo pari a sei volte l’uranio usato nei Balcani. Con ogni probabilità la casa va ricercata nella commistione degli inquinamenti prodotti dalle nano particelle, dai motori dei razzi e dalle radiazioni emesse dai radar, che combinandosi assieme producono un cocktail che intacca significativamente il suolo, le acque e l’aria. Dal 2007 è stata avviata la Commissione parlamentare d’inchiesta, mentre gli abitanti del luogo lamentano la tipologia delle indagini già in corso dal 2001, che loro affermano essere certamente pilotate e inefficaci. I ragazzi del collettivo Mama Sabot hanno scoperto molte cose, la dottoressa Antonietta Gatti ne ha scoperto anche di più (da lei è stato coniato il termine "nanopatologia", patologie indotte dall’inalazione, dall’ingestione o, comunque, dall’ingresso di particelle inorganiche non biodegradabili e non biocompatibili, di dimensioni micro- e nanometriche, nell’organismo umano). Hanno scoperto gli enormi interessi delle multinazionali militari, che tra l’altro stanno per investire 400 milioni di euro per un drone uav (veivolo da combattimento senza pilota). Hanno scoperto i danni ambientali e fisici che producono gli esperimenti militari e d’aviazione civile. La domanda inespressa va rivolta alla cittadinanza di Quirra, di Cagliari, ai connazionali Sardi e Italiana: cosa si può fare? Cosa si può fare se lo Stato italiano ricatta le 150 fami
glie che dipendono dall’esistenza del poligono, cosa si può fare se le istituzioni sono inevitabilmente coinvolte? ( Il sindaco di Quirra è un militare dell’aeronautica). Cosa si può fare se la Difesa dal 2001 istituisce una commissione per accertare il suo stesso operato? Cosa si può fare se questo è il più grande poligono d’Europa di "fondamentale importanza strategica e militare per gli equilibri geopolitici mondiali"? Cosa si può fare se la Francia e gli USA attuano le proprie sperimentazioni nel deserto e da noi le si fanno dietro le case dei sardi e vicino ai pascoli dei pastori?
Pierluigi Carta
SONO ANCORA 37 MILIONI I BAMBINI CHE NON POSSONO ANDARE A SCUOLA
VITTIME DELLE GUERRE
"Siamo orgogliosi di poter dire che stiamo mantenendo gli impegni presi: quasi 6 di questi 8 milioni di bambini oggi hanno un’istruzione grazie a "Riscriviamo il futuro", ha dichiarato Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia. Ma, ha proseguito, "non possiamo fermarci qui. Bisogna lavorare per rimuovere tutti quei fattori che compromettono gravemente il diritto dei bambini alla protezione e all’istruzione". "Uno di questi – ha chiarito Tesauro – è l’ampia diffusione e disponibilità di armi leggere in Paesi in conflitto armato o reduci da guerre. Armi che finiscono con il danneggiare soprattutto i bambini, contribuendo a creare eserciti di bambini soldato, a ferirne, ucciderne, traumatizzarne migliaia di altri e a fomentare e accrescere le violenze". Si stima che siano almeno 250.000 i minori – di cui il 40% bambine – impiegati in 17 conflitti armati e arruolati in eserciti non governativi in almeno 24 nazioni e territori. Bambini costretti a commettere violenza, ma anche a subirla: negli anni scorsi, almeno 2 milioni sono morti uccisi dal fuoco delle armi leggere e 6 milioni sono stati feriti, resi disabili o hanno subito traumi psicologici, obbligati ad assistere a terribili atti ed episodi di abusi e violenze. Si calcola, poi, che ogni anno siano tra 8.000 e 10.000 le giovani vittime di ordigni esplosivi, in particolare delle mine rimaste sul terreno.
Senza istruzione Sotto il fuoco delle armi e la violenza delle guerre collassa anche il sistema scolastico: insegnanti uccisi, scuole distrutte o trasformate in caserme, centinaia di migliaia di minori privati di un’istruzione. In Afghanistan, solo la metà dei bambini tra i 7 e i 13 anni frequenta la scuola; in Nepal, i maoisti hanno chiuso 1.000 scuole private e, tra gennaio e agosto 2005, circa 200 insegnanti e 11.800 studenti sono stati rapiti, per essere indottrinati o arruolati nell’esercito ribelle. In Sud Sudan, ci sarebbe bisogno di almeno altre 6.000 classi per accogliere gli alunni e ben l’82% delle bambine in età scolare è ancora escluso dall’istruzione. "La scuola è l’unica arma in grado di offrire a un bambino protezione, un senso di normalità e la prospettiva di un futuro migliore", ha spiegato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia. "È ormai dimostrato, per esempio, che a un aumento dell’1% dell’istruzione femminile corrisponde una crescita del Pil dello 0,37% e che una maggiore scolarizzazione femminile può contribuire a prevenire circa 700.000 contagi da Hiv all’anno. Purtroppo, però, solo un numero esiguo di bambini in nazioni in crisi ed emergenza ha accesso all’istruzione, mentre ha ampio e facile accesso alle armi leggere".
Impegni da prendere Nel 2007 le nazioni Cafs (Conflict Affected Fragile States – Paesi fragili in stato di guerra) hanno speso 17,8 miliardi di dollari in armamenti, ovvero 3 volte quanto necessario per garantire a tutti i bambini che vivono in tali Paesi di iscriversi e frequentare la scuola primaria. Le importazioni militari, comprese quelle di armi leggere, costituiscono fette consistenti del budget di molti Paesi in conflitto o reduci da guerre. Ugualmente le armi leggere rappresentano una fonte notevole di guadagni per molte altre nazioni, primi fra tutti i Paesi del G8, inclusa l’Italia. "Quello che ci preoccupa molto – ha dichiarato Neri – è che gli otto grandi continuano a fornire armi leggere anche a gruppi e governi che commettono violazioni dei diritti umani, compreso il reclutamento di minori. Nel 2007 risulta che abbiano esportato armi leggere verso almeno 8 Paesi Cafs, contravvenendo ai principali impegni internazionali che vietano l’esportazione di armi verso nazioni che non rispettano i diritti umani". "È una questione di coerenza: i Paesi del G8 non possono dare aiuti in educazione impegnandosi solennemente a garantire questo diritto" e contemporaneamente "esportare armi leggere verso quei Paesi". "Se veramente abbiamo a cuore il futuro dei minori afflitti da guerre, comprese le migliaia di bambini-soldato – ha concluso Neri – bisogna incrementare gli investimenti in educazione e contemporaneamente affrontare il nodo rappresentato dal commercio indiscriminato di armi leggere".
LA MOSTRA A TORINO E MILANO DI GIOVANNI CANU PER TUTTO IL MESE DI FEBBRAIO
NEL SEGNO DELLA TERRA MADRE
"Nel Segno della terra madre" – Galleria Terre d’Arte, Torino dal 29 gennaio 2009 – in questa mostra, Canu ha deciso di mettere in scena uno dei materiali a lui più congeniale, la ceramica. Oggetti e forme dalla superficie ruvida ma convesse e accogliente (per maggiori info@terredarte.net).
Un ritorno a Torino, voluto, questo di Giovanni Canu, dopo quattro decenni intensi, un lungo percorso artist
ico e umano costellato di incontri, mentre si allargava e si solidificava la sua fortuna critica. Sardo di Mamoiada, classe 1942, era approdato nel 1968 nella capitale sabauda, prima al Liceo artistico e poi all’Accademia Albertina, quindi a Milano dal 1970, per completare la sua formazione a Brera e inserirsi infine nel contesto artistico del capoluogo lombardo. Poliedrico artista, alle spalle esperienze anche da disegnatore/ pittore – protagonisti i suoi conterranei, donne e uomini naturalisticamente effigiati, avvolti nel nero orbace – ha voluto tornare a esporre nella prima città che lo ha accolto "in Continente", mettendo in scena uno dei materiali che più gli è congegnale, la ceramica. E la plastica argilla, ancora una volta, ben testimonia il divenire della sua storia, modellandosi in forme che riportano certo al passato ma, al contempo, segnalano il suo essere diverso oggi, pur nella fedeltà di un coerente percorso. Fedeltà alla primigenia natura, allora: aspra e forte ma rielaborata con "solido mestiere", a dirla con Rossana Bossaglia, e con felice libertà espressiva; fedeltà alla sua cultura, caratterizzata e caratterizzante: la cui ricchezza viene rielaborata sì con orgoglio ma soprattutto con autonoma sensibilità, superato ma non rinnegato ogni localismo, a restituire nuove emozioni. Nell’insieme, forme dalla superficie ruvida, ma convesse e accoglienti, dove a volte l’ansa suggerisce e permette un diretto rapporto con l’ archetipo: e la madre terra si adorna di simboli, forse arcaici e certo rievocativi ma che suggeriscono immediate, attuali riflessioni e portano a nuove esperienze, visive e tattili. Un artefice ben dentro la sua storia, dunque, e maestro della sua materia, con lo sguardo al presente e al futuro, certamente, ma sempre – tenacemente, da vero figlio di Sardegna – consapevole delle radici sue e della sua arte, così antica, così moderna … Anty Pansera
LA MATERIA E IL SEGNO
"La Materia e il Segno" – Tingo Design Gallery, Milano dal 6 al 27 febbraio 2009 – Giovanni Canu è soprattutto scultore, usa la ceramica ma anche altri materiali come il ferro, la pietra, il nero basalto, la rossa trachite, il granito…la graniglia di marmo. In questa mostra l’artista presenta pezzi d’eccezione che ricompongono artigianalità e artisticità : opere d’arte trasfigurate in oggetti dall’ uso quotidiano. Tavoli, tavolini e sedute e ancora librerie , vasi e attaccapanni, invenzioni tecniche e linguistiche per "domare" e "alleggerire" il marmo di Orosei; oggetti permeati di una forte simbologia che proviene dall’iconografia tradizionale sarda. È il primo esperimento dell’artista nell’ambito del forniture e si tratta di manufatti realizzati con tiratura limitata.
Scultore, soprattutto: le tre dimensioni ad affascinare, da sempre, Giovanni Canu. Ceramica – e abbiamo già visto la sua capacità nell’affrontarla, nella rassegna torinese a Terre d’Arte – ma anche il legno, il ferro, la pietra, il nero basalto, la rossa trachite, il granito…la graniglia di marmo. Declinati con una sintassi che non ha nulla del tradizionale linguaggio della figurazione plastica, e tuttavia recupera un passato lontano – Canu è barbaricino – per riproporlo con una tensione "anche" progettuale. Materiali ricchi di storia e di memoria ma che l’artista si impegna a far dialogare con quella contemporaneità, con quell’ ambiente d’intorno, che chiede – meglio richiede quando non sollecita/impone – l’ "uso". Così Canu, in quella Milano dove l’interior design è di casa, e dove il furniture dilaga, ha da tempo proposto – e continua a riproporre – dei manufatti, realizzati con sapiente tecnica, dall’inesauribile forza estetica e dall’immediata efficacia narrativa/comunicativa. Pezzi d’eccezione, certo, dal modellato raffinato, che ricompongono artigianalità e artisticità, all’insegna di quella progettuale creatività che li rendono, nelle nostre case, insiemi anch’essi di emozioni e momenti di gioia, ma anche trasfigurati oggetti quotidiani, cui non possiamo rinunciare. Tavoli, allora, tavolini e sedute e, ancora, librerie…vasi e attaccapanni: invenzioni tecniche e linguistiche per "domare" il marmo di Orosei e "alleggerirlo", quasi, grazie a un geometrico percorso, nitido e suggestivo insieme: a nascondere/evocare insieme simbologie e inaspettate fruizioni, a organizzare, intorno, armonici spazi. A lanciare, quasi, una sfida: rimaterializzando e "appesantendo", per consapevole scelta, complementi d’arredo che nel corso del tempo sono andati dematerializzandosi, riconferendogli non soltanto un luogo nel nostro habitat ma la forza pregnante di un segno. Anty Pansera
(ci riferisce Carla Caredda)