Lettera n. 1
Carissimo Amico
Mando un fascio di lettere; e i fogli che dopo letti manderà a zio insieme alla lettera a lui diretta. Dopo sbrigata la posta oggi tornerò dal primo ufiziale o dal Ministro per avere un’ultima risposta, e decidermi alla partenza anche non dandomela. Promesse e promesse; m’hanno anche dato franchi 200, perché allegavo le spese; ma la noja mi uccide, non potendo io vivere disoccupato, né potendo fissare in altre cose quando un forte pensiero mi preoccupa la mente. Oggi stringerò la corda e la vorrò finita: finalmente non domando l’elemosina: vogliono disordini, e li abbiano.
Monsignore ha fatte le sue proposizioni, ignoro a favore di chi; io certamente non sono contemplato. Non si creda che mi bruci il cuore per divenire Can.co di Cagliari. Io vorrei essere occupato in Genova, e lo sarei stato a quest’ora se Gioja rimaneva al Ministero.
Nel n° 200 della Concordia avrà letto un mio articoletto risponsivo a certe osservazioni del dotto Michelini. Mai io dimentico la patria, e a lei avrei consacrate le ore disponibili se la mala sorte non m’avesse balestrato in Nuoro in mezzo a quattro bestie nate per far letame e calcitrare come bestie.
Ieri tornò il Re. La Causa Italiana è divenuta un mistero in mani della Diplomazia. Il Ministero è flagellato, eppure spudorato sta in sella contro la pubblica opinione. Abbiamo gl’Intendenti G[enera]li come saprà. Fra breve vedremo che fusione e aumento di dolore saranno completamente sinonimi. Tanto che "A s’ainu bastone, bastone, bastone, e poi bastone e puntorzu".
Messina distrutta dai satelliti del Re bombardatore: la Francia s’arma; l’Austria s’arma; il popolo qui vuol armi e guerra, il Governo vuol pace. Dio ci ajuti: Genova freme come il mare che le lambisce il piede; manda un milione a Venezia; e non so che altro si mediti. Vale
L’Amico Suo vero
G. Asproni
Torino 15 settembre 1848
P.S. Se vuol leggere tutte le notizie senza molto fastidio disuggelli il pacco indiritto "al Gabinetto di Lettura di Bitti", poi rifaccia il piego e lo mandi al suo destino.
Giovanni Spano a Giorgio Asproni , 19 agosto 1851
[prima pagina]
Cagl. 19. ago. 1851.
Mio caro Amico
Ho ricevuto la Sua lettera del 15 del corrente colla quale finalmente ho saputo che Ella trovasi in Patria. Io posso immaginarmi il dolore di cui sarà stata compresa nell’essersi trovata al vuoto di colui che sarà stato l’oggetto di Sua mente lungo il viaggio. Egli nella lettera che mi chiese in tutto Luglio fino all’11 agosto mi ripeteva sempre che Ella doveva ritornare da un vapore all’altro. E forse il maggior suo dolore sarà stato quello di non trovarsi Ella presente per dargli gli ultimi conforti. Anche io desiderava di averlo riabbracciato per un’altra volta prima di separarci da questa vita mortale. Pazienza, né io lo dimenticherò in vita fino a congiungerci nell’Eternità. Godo sommamente che Ella trovisi in mezzo ai parenti i quali per l’ordinario sogliono scindersi in fractione panis del pov. prete. Tale è stata sempre la nostra condizione. Ella coi Suoi lumi e colla giustizia porterà a termine l’assesto dell’eredità, mi dispiacerebbe assai che vedessi né manco nominata l’ombra di quel Grand’Uomo in contrasti d’interesse per i parenti cui avvocò somma gloria.
[seconda pagina]
Lodo la sua pietosa intenzione di non lasciar illagrimato lo zio che fino agli ultimi
sospiri aveva deferenza speciale per Lei. Io intanto mi mossi ad annunziarne la morte, perché vivendo Lei a Torino le sarebbe pervenuta tardi la notizia, e fino ad esser di animo tranquillo per sparger i fiori che si meritò, sarebbe corso del tempo. Adunque faccia Ella questo laudabile uffizio che può disimpegnare meglio di tutti altri che l’hanno conosciuto: la sua fluida penna ha un vasto campo di spaziarsi. Dia ragione dell’opera storica, e come invece di sentirsi nella campagna e né contadi canzoni laide si sentono risuonare le opere di Dio. Faccia conto di altre opere inedite come il commento del Figlio Prodigo che io conservo, e che a Dio piacendo darò alla luce, perché è pieno di esimj riflessi. Non si restringa ad articolo di giornale, ma bisognerebbe di far la biografia in opuscolo, e sarebbe desiderabile di porvi in fronte il suo ritratto di cui io tengo uno schizzo che facendolo accomodare dal ritrattista Mereu, ma nel farlo litografare in Genova o Torino, potrà suggerire il vivo dei lineamenti, atteso che l’avrà più presente di ognuno. Si procuri adunque in mezzo alle altre occupazioni i materiali e faccia presto, chè ognuno le darà lode e gli amici le sapranno buon grado.
[terza pagina]
Riguardo ai nostri conti La prego di non parlarne più, né voglio riandare la lettera ed il registro di spesa perché mi si stringe il cuore. Più presto mi farà la finezza di mandarmi, quando Le capiterà qualche occasione, due o tre esemplari del 2° e 4° Canto della Gerusalem, perché varj amici che hanno il 1° e 3° non possono aver compita l’opera. Un canonico di Iglesias mi ha scritto più volte ed egli nel suo vivente mi [av]eva promesso di mandarmeli. Se poi non se ne trovassero, facciano gli altri, una 3° edizione che in Sardegna è caso singolare d’essersi fatta né manco la 2° di nessuna opera. Questo pare a me d’essere il miglior elogio di quell’operetta. Nel mio vocabolario è nominata con frequenza come testo di lingua del nostro dialetto. Qui nulla di nuovo salvo la scoperta del carbon fossile che avrebbe fatto più eco se fosse stata gastronomica… Avv. Marongiu è a Loreto per passar l’estate. Egli è vittima dirò sempre, della sua testardaggine e di due depravati consiglieri: oh! Se potessimo parlare per mezz’ora! Io perché gli diceva la verità fui il più maltrattato, e lo compatii….. Stia bene e saluti Graziedda. Mi creda colla solita cordiale stima aff[ezionatissimo] Avv. Spano
Trascrizione a cura della dott.ssa Silvia Caredda, archivista della Biblioteca (direttore: prof. Antonio Piras) della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, Cagliari
Lettera n. 2
Torino 30 marzo 1852
Carissimo Amico
Ho ricevuto la grata Sua e la copia della illustrazione Sigillae. Ne riceva i miei sentiti e vivi ringraziamenti. Ella poi felice che colle lucubrazioni archeologiche distrae la mente rivolgendo il pensiero a tempi beati! Io invece debbo nutrirmi di continua amaritudine nel consorzio di spietati mercanti che col sangue della patria pagano le grazie che ricevono per sé e pei loro favoriti. Magna è la lezione che riceve la Sardegna, ed a prezzo carissimo pagata. Almeno imparasse per l’avvenire: benefizio che io non mi auguro se non dopo cinque o sei nuove generazioni.
Le sono poi distintamente obbligato del richiamo che mi ha fatto ad un Sacro uffizio di riconoscenza verso una memoria diletta e riverita: prova l’affetto che resta perenne pel fu mio zio suo amico. Il ritardo non è colpa mia: aspetto provvidenze del governo sulle piazze ordinate nel testamento, che sono la vera corona delle sue opere. Anche tardi, spero di rendere interessante la biografia che stamperò. Avrà l’impronta cristiana, l’impronta del Sacerdote, l’impronta del Cittadino; sarà dettata da un’amore [sic] sviscerato, e da una gratitudine senza limiti.
Finisco queste linee con lo sconforto della persuasione che dopo ben battuti e spogliati, il Piemonte ci baratterà all’Inghilterra. E siccome io voglio vivere e morire italiano, vero catolico [sic], vero repubblicano, perciò consumato tale mercato, io non ritornerò più in Patria. Stia bene e mi creda al solito
Suo Aff.mo Amico
Giorgio Asproni
Lettera n. 3
Torino 13 febb. 1863
Carissimo Amico
Io prevedeva le cortesie che Ella userebbe al Marchese Antonini mio amico. Le Scienze e le Lettere si onorano, e l’Antonini è una delle più splendide illustrazioni viventi in questa nostra divina Italia. Melo [sic] saluti cordialmente, e se intraprendono insieme la peregrinazione nell’interno dell’Isola, salute e buon viaggio. La compagnia di V. S. il[lustrissi]ma vale più di qualunque altra commendatizia.
I popoli hanno come le persone i loro periodi di gloria, di consolazione, di prosperità, e quelli di desolazione, di dolore, di dispersione e di avvilimento. Noi toccammo l’imo fondo delle umane miserie. Prima le barbare invasioni, poi la conquista straniera che spense sin la memoria degli antenati e ci sottopose al giogo feudale; e finalmente la Signoria dei Piemontesi che fu il suggello di ogni calamità immaginabile. Appena ci fu concesso di gemere e di proferire un lamento, io insinuava ai miei amici: pensiamo, scriviamo, operiamo per riabilitare la patria nostra, rivendicarla dall’oblio e dal discredito, e farla diventare un’oggetto [sic] di moda. Eccoci dunque all’apertura di questa ora bramata.
I Piemontesi hanno oggi i Vespri della Sicilia e delle altre province d’Italia che non danno loro tempo di dedicare interamente a noi l’antica e mai cambiata mala volontà. L’isola nostra è fatta oggetto di particolare predilezione in tutta Italia. Il Parlamento votò ogni bene proposto o domandato. E se la rappresentanza avesse avuta più avvedutezza, e coscienza dei nostri diritti, a ben altro prezzo avremmo avuto la strada ferrata! Nel 1860 io meglio di qualunque altro instai e persuasi Garibaldi in Napoli a decretare le ferrovie Calabro-Sicule. E facevo quelle premure con ragionamenti giustificati dal tempo e con la preveggenza che le strade ferrate della Sicilia traevano dietro inevitabilmente le strade ferrate della Sardegna.
Per noi è l’unica leva di rifiorimento. La ferrovia precipita l’ultimazione delle strade carreggiabili, la riparazione dei porti, la cessazione della pastorizia vagante, l’aumento di popolazione e dell’agricoltura, e la colonizzazione. E volesse Dio che la Sardegna divenisse un soggiorno di gusto per gl’Inglesi! Garibaldi eleggendo Caprera a sua dimora ci ha data fama mondiale e ci ha fatto tal bene imperituro, che i posteri meglio di noi comprenderanno ed apprezzeranno.
I preti ed i Canonici poi che si adombrano dell’eresia, sono da commiserare. Lasciamo Giudice il Creatore delle opinioni in materia di culto. Io so che Gesù Cristo disse più religioso del Sacerdote Giudeo il Samaritano che versò olio e balsamo nella ferita dell’infelice che giaceva sulla via.
E se penetrassero il vero spirito del cristianesimo vedrebbero che "vera religio haec est: visitare viduas et pupillos et immundum [sic! qui probabilmente Asproni intendeva scrivere "immaculatum", n.d.c.] se praeservare ab hoc saeculo". San Giovanni la compendiò meglio in due sole parole: diligite alterutrum. Non c’è Nazione più benemerita della Gran Brettagna in opere di carità e di umano progresso. La libertà li ha resi Giganti: aveva ragione San Paolo di dire: "ubi spiritus domini, ibi libertas". Il Can.co Filia e il Can.co Casulone non penseranno così.
Fo plauso al disegno di raccogliere il tesoro delle Sarde poesie. Ella rende inestimabili servizi al Paese. S’ingegni se può avere due canzoni del fu mio zio che tanto amava Lei. Una comincia colle strofe che le acchiudo: ho dimenticato il resto. È mirabile per il concetto, per la spontaneità. L’altra era una maravigliosa descrizione degli incomodi umani in ogni condizione sociale. Comincia: "Neunu de s’istadu si cuntentat. E a sortera neuna no inclinata".
Poi bisognerebbe trovare la poesia improvvisata in Orosei nel 1806, giorni dopo l’invasione dei Turchi che furono respinti a fucilate dal Popolo. Comincia
" Mai Orosei arvesadu a guerrare
cumbattit et destruit sa Turcaglia".
Io lasciai da 30 anni fa l’originale in Bitti e dubito se mio fratello l’abbia conservato. Era una gioconda e fedele narrazione della lotta con tutti i suoi accidenti. La paura e il valore vi son dipinti al vivo coi nomi.
Altra poesia di molti pregi naturali era la commedia intitolata Don Testa Manna, composta per stimolo di Monsignor Solinas che la fece rappresentare in casa sua ad Oliena, ed egli stesso Vescovo, faceva la parte di Vescovo. Io non potei mai averla. So che il Poeta Cubeddu dichiarava che egli non si sentiva capace di produrre un parto simile.
Io lavoro coll’intendimento di raccogliere oltre il puro necessario alla sustentazione, una somma che basti a fare un’edizione delle poesie del fu mio zio, alla quale preporrò una breve, chiara e interessante biografia, perché la sua vita fu abbondante di peripezie e di ottime opere. Se quell’ingegno avesse avuto cultura e un vasto campo da esercitarsi, avrebbe onorato il secolo. In Posada doveva avere la forza sua straordinaria per non imbestiare nella putredine della malaria, e nell’isolamento.
Sono qui: ma tornerò fra poco a Genova. Mio fermo proposito è di ritirarmi a Napoli per vivere in oscura quiete, ricreandomi sotto quel cielo beato, visitando quei d’intorni, e vivendo più coi morti che mai morranno, che coi vivi che sono morti prima di scendere nel sepolcro. Questa è la mia unica ambizione.
Saluti il Cav. Martini, e l’amico Caro e mi creda ora e sempre
Suo Aff.mo Amico
G. Asproni
Lettera n. 4
Napoli, 31 gennaio 1876
Carissimo Amico
Grazie dei fascicoli archeologici e della Sua desiderata e cara. Leggendola ho pianto ripensando ai tempi allegri della nostra gioventù, ed agli amati congiunti ed amici che ci precedettero nel viaggio all’eternità. Primi fra tutti il mio zio e Diego Mele, tipo di cristiano Amore. Ma la natura decretò le sue leggi, et unus post unum anderemo anche noi a dormire in Sinu Abrahae.
Io mi spiego la Sua esitazione ad accettare la nomina per gli scavi. Io combattei la legge che istituì la direzione Generale che passò per 5 voti! Il Bonghi si mostrò sorpreso della mia opposizione e sen’esternò meco privatamente. Gli risposi che io non sapeva concepire una mente universale e sufficiente a tutte le antichità italiane; stimare lui cattivo giudice in tal materia; il Fiorelli superiore a Pompei inferiore e nullo a Roma dove non basterebbe neppure la mente di Varrone: e poi il Governo guastare tutto quello in cui mette le mani per la superbia e ignoranza della burocrazia.
Difatti veda quello che è succeduto. Il Fiorelli vuol fare il Papa Archeologico, e nulla sa di Roma. Il Rosa – uomo modesto quanto unico nella conoscenza delle cose romane – è paralizzato e scontento. Il Gamurrini – Toscano – ruppe il morso e al Fiorelli cantò le glorie in tono che nol dimenticherà mai. Nel Ministero c’è un covo di buffoni e d’intriganti che capovolgono il senso comune, adulando Fiorelli e Bonghi.
Al Fiorelli nelle mie corrispondenze al Pungolo, diedi forti stirate di orecchi, e se ne risentì, ma in contegno urbano. Vorrebbe che io ven
issi in Sardegna quando egli la visiterà. Del mondo ufficiale io non so che farmene. Però mi rallegrai che egli avesse stimato Lei indispensabile, come mi consolai che Ella avesse accettato, perché altrimenti la nomina cadeva in qualche Servitore che avrebbe impedito i buoni e favorito i traffici che sono di moda. Ed ecco perché io Le scrissi. Ed ecco perché ora Le fo questa confidenza per sua norma, e per procedere contro al Fiorelli che vuol fare il Dittatore, e che finirà non bene, appena il Ministero sarà cambiato.
Ho letto Le Scoperte Archeologiche, e l’Appendice con vero diletto. È un gran servizio alla verità della Storia. È una illustrazione delle cose vetustissime di cui è ricca l’Isola nostra che fu molto prospera e civile in tempi remoti. Il Suo nome anderà benedetto alla posterità per averla rimessa in riputazione ed onore.
Accetti in cambio le lettere che scrissi per l’Accademia di San Luca, senza che conoscessi veruno degl’illustri Socj che ne fanno parte. Le riunirono e ristamparono a loro spese, e poi mi coniarono una grande medaglia d’oro presentatami dal presidente Wolf, dal vecchio Autore dell’ Italia Illustre, Sig. Betti Segretario, e dall’economo, con una splendida lettera di ringraziamento. Io né mi aspettava, né mi sapeva che dire di tutte queste cortesie che mi usavano. Non diedi la notizia, né pubblicai la lettera colla mia risposta, perché non c’è cosa che più mi ripugni quanto la vanità. Però le mie lettere salvarono l’Accademia, e buttarono giù lo Scialoja che fu demolito, e meriterebbe di essere nell’inferno.
Le mando ancora altri fascicoletti di lettere sul corpo pestilenziale della ingegneria del Governo. Gli Architetti di Roma le riunirono e ristamparono a spese loro.
Pubblicherò tra breve una serie di lettere sul Tevere. Su cui fecero tanti progetti di sistemazione senza esaminare prima tutto quello che fu discusso, e operato sotto la Repubblica, sotto l’Impero Romano, e sotto i Papi. Siamo al Regno delle Consorterie, e della corruzione più svergognata.
M’immagino quanto i Gesuiti e Gesuitanti avranno fatto per impedire ch’Ella comparisse al Senato. I fanatici hanno paganizzato il Vaticano, e a chi serba in cuore il sentimento della vera religione, non rimane che addolorarsi, e aspettare che le infallibilità tornino a Dio.
Provai anch’io le punte avvelenate dei Settari; ma ebbi la fortuna e la costanza di vivere a modo mio. Il Clero è un vespajo che strazia i suoi membri più illustri per scienza, lettere e vita intemerata e virtuosa. Meno male che anch’Ella ha una posizione libera da ogni vessazione, ed ha l’indole egregia e il sapere che ne impongono a tutti.
Sono sempre nel proposito di rivedere la Sardegna per dare alla cara terra natia l’ultimo Saluto. Ella sarà una delle prime e più care persone che abbraccerò, se potrò fare questa gita. Addio mio Caro antico Amico. Si conservi sano
Tutto Suo
Giorgio Asproni