INTERVISTA AD ALESSANDRO DE ROMA CHE PRESENTA IL SUO ULTIMO ROMANZO “GRANDE TERRA SOMMERSA”

Alessandro De Roma

di PIER BRUNO COSSO

Alessandro De Roma gira tra tutti noi col suo sorriso accennato e quello sguardo aperto che non scruta, ma abbraccia. Un saluto e scivola leggero verso un altro capannello di gente. Per uno scrittore non c’è posto più bello che stare in mezzo ai suoi lettori, ma anche tra loro, forse, deve celare il suo evanescente desiderio di essere trasparente.

Sembra che abbia ripiegato con cura la sua solitudine come una pesante giacca invernale, in attesa di un viaggio che sogna lontano. In un posto sperduto dove potrebbe iniziare un nuovo libro. Lo inquadro di sottecchi: no, mi sto sbagliando, sta pensando a tornare alla sua tastiera per raccontare le emozioni di questa sera in una prossima narrazione. E il luogo che vede ora è un luogo uscito da un libro, magari caduto per sbaglio come una vecchia foto tra le pagine, che lui con le sue parole e le sue metafore ci potrà far ritentare.

Siamo a Sassari in una fredda sera invernale accolti dal calore della Biblioteca Universitaria. E la serata è la sua, perché tra poco con la grande Francesca Arcadu parlerà del suo ultimo libro: Grande terra sommersa (Fandango Libri 2023)

Siamo in tanti, la sala è piena e stanno sempre aggiungendo sedie. Tanti, ma ci fanno sentire tutti in confidenza, quasi in famiglia. Ci sono anche due bambini che corrono nel salone, ma non creano disturbo, creano la magia dello stare insieme attorno ai libri.

Microfono acceso, saluti di rito e la presentatrice lo avvolge con le sue domande. Lo avvolge quasi a proteggerlo perché lui si mette in gioco, si espone senza schermi. Racconta anche dei momenti di buio, così, con sincerità come se fosse l’unica via che conosce. Racconta dello scrivere e dell’infinito, estenuante, tempo editoriale, dove temi sempre che tutto crolli.

E poi racconta del protagonista del suo libro, del ragazzino che la vita si è divertita a osteggiare, e che lui deve riprendere a darle vita, alla vita stessa. Forse c’è una simbologia, ma quella è in ognuno di noi in un’area personalissima, tumultuosa di sensazioni. Alessandro De Roma queste sensazioni le ha raccolte, scosse e amate, e ora ce le porge nel suo libro.

In questo ambiente fatato dalla magia dei libri, incontriamo Alessandro De Roma: «Sei disponibile per un’intervista per i lettori di TOTTUS IN PARI?». Non mi sorprende il sì che gli sorride, mi sorprende l’entusiasmo con cui me lo rilancia. Come se scrivere non sacrificasse brandelli di anima. E allora la prima domanda è proprio su questo.

Una volta un critico letterario senza livore (esistono, arrivano sulla terra direttamente dal piccolissimo pianeta B612, quello del Piccolo Principe) mi ha detto che la scrittura è un dono. Ma chi è colpito da questo “dono” lo paga caro con il suo vivere in profondità.

In una intervista Dacia Maraini aveva detto che ciò che per un altro è un graffio, per uno scrittore è come essere scorticato vivo. Ha usato queste esatte parole per descrivere quel tormento, quel nervo sempre scoperto di chi scrive e si ritrova a vivere in balia delle sue emozioni. E le sue emozioni possono essere solo fortissime da trascinarti via; oppure niente, ma allora fa più male. Quindi tu come convivi con i tuoi tormenti da scrivere?

Avrei voluto fare questa domanda a tantissimi scrittori e scrittrici che ho intervistato, ma non l’ho mai fatta perché mi è mancato il coraggio, e perché c’era il rischio di una risposta troppo ossequiosa della grammatica della vita. Con te azzardo perché dai tuoi libri vedo come tu vedi il mondo.

“Io lo vivo come una lotta continua con me stesso e con l’autenticità. Lasciarsi scorticare implica darsi in pasto a chiunque ti legga con attenzione, e quindi sapere di mettersi in pericolo e, talvolta, per evitare le situazioni più dolorose, si architettano mille trucchi per dire e non dire. È in quei trucchi che stanno le fragilità dei romanzi che scrivo, ma anche gli slanci creativi, perché sono armi di difesa, costruzioni del pudore, a volte riuscite a volte fallimentari. La letteratura richiede comunque artificio e costruzione, ma sotto la tecnica si deve sentire un cuore che pulsa. Ho provato a scrivere per scrivere, senza correre incontro a questa autenticità e mi sono annoiato sempre subito. Lì c’erano solo trucchetti facili: quando decidi di dire il meno possibile non ti resta che l’esercizio, nessun fallimento possibile, nessuna goffaggine, ma neppure slanci e ancor meno grandi imprese da tentare: spero di non diventare mai uno scrittore di quel tipo. Per quanto possa rischiare di cadere, e sicuramente sono caduto tante volte, voglio sapere che sto cercando di arrampicarmi, sempre un po’ più in alto e di vedere ancora un po’ più lontano.”

E sempre dello scrivere è anche il tempo di ricarica. Cioè tu sei di quelli che appena finisce un libro ne scrive subito un altro? Oppure quando finalmente il tuo libro arriva nelle vetrine delle librerie cerchi per un po’ di assorbire il mondo che ti gira intorno? Hai bisogno di curiosare, scrutare, spiare, sentire sulla tua pelle le mille sensazioni che volano libere? Tenerle strette per poi farle cadere dentro la prossima storia? Oppure azzeri i tempi e riprendi subito vita sulla tastiera?

“Ho sempre un progetto in corso, ma mi capita di lasciarlo per lungo tempo, soprattutto se mi rendo conto che non sta andando come vorrei. L’ideale sarebbe fare un viaggio in solitaria, lungo se possibile, prima di cominciare un nuovo libro. Ma purtroppo non è quasi mai possibile”.

Per cosa ti fermi a guardare e sognare? L’ultima volta che hai fermato la tua auto e sei sceso solo per vedere, per gustare una visione che non era possibile andare avanti, dove eri? E quella visione che avevi davanti agli occhi dove ti ha portato, dentro di te?

“Beh mi capita abbastanza spesso. Solo pochi giorni fa per un arcobaleno strepitoso. Ma quando si va di fretta ci si perde così tanto della vita. A volte ci si accontenta degli sguardi rubati, un po’ di avventura appena intravista. Per questo viaggiare mi piace tanto e ne sento moltissimo la mancanza: perché la disposizione d’animo è quella dello sguardo rivolto al mondo. È in quelle occasioni che nascono le idee più belle per nuovi romanzi. Anche se poi, a volte, un’idea viene in mente anche semplicemente mentre stai affettando le cipolle per il pranzo”.

Lo sai dove in genere mi fermo io? Hai presente la strada che da Macomer va a Santu Lussurgiu? A un certo punto si attraversa un bosco, un parco e poche case: San Leonardo de Siete Fuentes. Google dice che è a 680 metri sul livello del mare, incastonato tra alberi secolari, con 34 abitanti (nell’ultimo rilevamento del 2001). No, non per i numeri, io mi ci fermo per quell’aria profumata di terra e di vento, perché sa di intimo profondo, perché per arrivarci hai viaggiato indietro nel tempo, perché sembra che sia dentro di te in una zona ancestrale della tua anima. In una parola, perché è un luogo magico. E tu adesso mi dici perché è magico.

“Per me è magico perché ci ho trascorso tutte le estati della mia infanzia e ci ho passato molti mesi in solitaria da adolescente e da ragazzo. Ho portato avanti proprio lì molti dei miei esperimenti di scrittura ancora acerbi. Rimarrà sempre un luogo speciale per queste ragioni. Ma credo lo possa essere per chiunque ci capiti, forse perché la natura è così rigogliosa, il terreno sembra trasudare vita da ogni zolla e quando sei lì sei travolto dalla potenza della vita. E poi la sua condizione di luogo sospeso nel tempo: non un vero paese, non solo bosco, le rovine di edifici che sono stati popolati e animati tanti decenni fa e che ora sono invasi da alberi e cespugli, il suono costante dell’acqua che scorre. Fermarsi lì è come entrare in un romanzo, in uno spazio letterario, in cui il tempo scorre su un binario alternativo dell’esistenza. Il luogo ideale per immaginare che là fuori non ci sia più niente e, un attimo dopo, che ci sia di nuovo tutto. Ciò che fa uno scrittore quando inizia a creare il suo nuovo mondo.”

Il tuo ultimo Grande terra sommersa (Fandango Libri 2023) ha un incipit fulminante. Così denso che potrebbe essere un racconto a sé.

Se pure tutto il resto del romanzo non piacesse (impossibile!), quelle primissime pagine sono struggenti, terribilmente belle, che riempiono di soddisfazione lo spirito. Come è nato? Lo hai scritto pensando di essere un po’ temerario, o non lo hai neppure costruito e ti è arrivato così?

A me l’incipit mi attraversa la strada molto prima che nasca la storia. Lo incontro, mi travolge con una forte sensazione vibrante, e rimane lì. Poi lo incanalo in una avventura che ancora non sapevo. Anche per te, oppure, come tanti, lo ceselli dopo, per essere più funzionale?

“Sono partito da quell’incipit e poi però l’ho lavorato tantissimo. Le prime pagine del romanzo sono sempre quelle che leggo più volte. Cinquanta, cento, non so nemmeno più io quante. Ogni volta che lascio un romanzo per un po’ e poi torno a lavorarci, devo sempre ricominciare da capo, anche per rientrare nella magia che vorrei ricreare. Hai scelto bene la parola, temerario. Quando ho deciso di scrivere questo romanzo, ho voluto lanciarmi in una sfida, mi sono detto: lo sai che, se fallisci, rischi di renderti proprio ridicolo, ma fallo, ora o mai più, mettiti a scrivere una storia lunga intensa e intricata. La difficoltà più grande quando concepisci progetti ambiziosi è saper mantenere l’equilibrio, non strafare, non diventare noioso e troppo autoreferenziale, compiaciuto.  Bisogna fare il bagno nell’umiltà ogni volta che si rilegge il proprio lavoro ed essere implacabili con le proprie parole”.

Lo studio dei rapporti umani è motore nel tuo romanzo; lo so, uno scrittore del tuo livello sa mettere bene le mani in questa materia: ma era una rotta scelta, ricercata, per portare dentro queste sensazioni? Oppure i tuoi personaggi, come spesso capita, ci sono andati da soli, in autogestione, soffrendo, gioendo, amando e affrontando i loro demoni?

“E sempre difficile dire quanto i romanzi vadano per conto loro e quanto li conduca io. Per me vale il test della credibilità: quando scelgo di inserire nella mia storia quel tale personaggio mi aggrappo sempre a un’esperienza di vita vissuta e così ci sono cose che possono accadere e altre che non sarebbero credibili, accettabili e nemmeno giuste per quel personaggio. Direi che è una questione di rispetto della storia che stai cercando di mettere in piedi”.

Scrittura è cuore e cervello. Ma più….

“Direi che è cuore nel momento in cui prendi la decisine di raccontare una storia. Se manca questo inizio emotivo, non ci sarà mai un buon romanzo. Ma poi è tanto cervello. Anzi. Più che cervello direi tecnica: applicazione, ore a rimestare nel torbido e venirne fuori, parole da limare. È lavoro artigiano, molto simile a quello che fanno anche gli scultori. Equilibrio della figura, espressività da plasmare”.

Tu sei insegnante di storia filosofia, a contatto quotidiano con i ragazzi, e allora al momento di lasciarci ti chiedo come racconteresti a un giovane il fascino del tuo Grande terra sommersa. Cosa gli diresti, come affascinarlo? Perché, lo dico sempre alle scrittrici e scrittori che intervisto, avete il compito bellissimo di salvarne uno, almeno uno, dalla NON lettura.

“Per me è fondamentale che i libri ti possano portare via, che si bevano senza sforzo. Che ti portino in un mondo nuovo senza che nemmeno tu te ne accorga. Non darei un libro difficile da leggere a chi già non ama la lettura. Quindi gli direi: non farti spaventare da tutte queste pagine, è la storia di un ragazzino che lotta per tornare ad amare la vita che è stata crudele con lui. Lasciati portare via e se dopo cinquanta pagine non ti sta piacendo, lascialo andare. Da poco ho incontrato una mi alunna di una decina di anni fa, che non andava bene a scuola, non amava e non ama leggere e mi ha detto che l’ha letto in tre giorni perché non riusciva più a smettere. Per me è il complimento più grande. Sapere che qualcuno ha trovato vita pulsante nei miei personaggi. Non posso proprio chiedere di più”.

Bene. Anzi, prima di lasciarci ci diamo appuntamento per un caffè in un bar bellissimo. Hai capito dove? È un luogo magico che mi affascina, dove entro sempre in punta di piedi, rispettoso di una incantata bellezza antica. Per aiutarti ti dico che l’ho conosciuto dai tuoi libri, che è nel cuore di Nuoro, in corso Garibaldi, e che è lì dal 1875! Da un secolo e mezzo, sempre lì. Col suo classico arredamento in legno e le vetrine occhieggianti di bontà. Ti ricordi come sia chiama? E soprattutto perché è così affascinante da emozionare?

“Con i libri dappertutto ed edizioni in molte lingue del “Giorno del giudizio” di Satta. Al caffè Tettamanzi come ora lo si chiama di nuovo. A me mette anche un po’ di tristezza purtroppo, perché è una delle poche oasi rimaste della Nuoro di un tempo. A Nuoro, come in altre città e paesi della Sardegna, molti luoghi pieni di anima sono stati sacrificati al cemento e al gusto di una modernità senza grazia, quando ci si siede là dentro, si impara ogni volta la lezione più importante: guardati attorno e, come dicevi tu prima, scendi dalla macchina o arresta il passo per un po’, trova qualcosa di bello da guardare e ricordati che quello è il tuo tesoro. Posti come il caffè Tettamanzi ti ricordano che la vita ha senso solo quando ti puoi ancora permettere di mettere la bellezza al primo posto”.

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3 commenti

  1. Sabrina Sanna

    Complimenti, bellissimo pezzo!

  2. Franco Casula

    Che meraviglia di intervista!

  3. Alessandro De Roma

    Quando ti fanno tutte le domande giuste!

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