QUANDO GIGI RIVA TORNERA’: SULLE TRACCE DELLE ORIGINI DEL CALCIATORE PIU’ RAPPRESENTATIVO DELLA STORIA DEL CAGLIARI

di SERGIO PORTAS

Venendo su da Busto Arsizio, che poi vuol dire Legnano ( sono a poco più che cinque chilometri l’uno dall’altro), se prendi per la Svizzera di Luino, che è ancora Italia ma Lugano (quella bella degli anarchici che van via) è lì a due passi, devi lasciarti il lago Maggiore alla tua sinistra, passare per Brebbia (ci fanno ancore le pipe per mezzo mondo) e Leggiuno, e ancora su per Laveno Mombello, qui era il manicomio più grande d’Italia, nel ’42 ci morì anche il figlio illegittimo di Mussolini, Benito Albino. Da Leggiuno, dall’altra parte del lago vedi Stresa. E da Leggiuno, per ben trentacinquemila lire al mese e un provvidenziale abbonamento al treno, se ne veniva intorno agli anni sessanta un sedicenne ragazzino magro come un’acciuga per giocare (al calcio) nelle giovanili del Legnano allora in serie C. Tale Riva Luigi. Nella città del Carroccio  di Alberto da Giussano, noi Portas avevamo seguito il battaglione carrista di babbo (lui era allora maresciallo semplice), la Sardegna natia di tutta la famiglia  (tutti nati a Guspini) un’isola sempre più lontana, frequentavo la terza elementare con un grembiule nero lungo a metà gamba e mi toccava, ai tempi del palio cittadino, fare a botte con quelli di Legnarello (bandiera giallo-rossa) dove era sita la scuola, noi che abitavamo all’interno della caserma militare si era di sant’Erasmo, colori a strisce bianco-blu. Tutto questo per dire che quel tale Luigi che sarebbe presto passato al più confidenziale Gigi fa parte integrante della mia infanzia. Anche quando due anni dopo ci saremo trasferiti a Busto e, da vero tifoso della Pro Patria avrei fatto a botte con quelli di Legnano, noi ancora la maglia a strisce bianco celesti ma orizzontali un po’ da rugby, loro da sempre color lilla. Gigi Riva l’avrei visto di persona in seguito, quando già il Cagliari aveva vinto lo scudetto del settanta, era nella sua fase calante, in ritiro con la Nazionale ad Appiano Gentile, ospiti e padroni di casa quelli dell’Inter di Angelo Moratti, che Gigi Riva da sempre se lo voleva portare a Milano in nerazzurro, lui che aveva nel ’62 messo su quel mostro della Saras , che sta per Società Anonima Raffinerie Sarde, le cui alte ciminiere sempre accese avrebbero turbato Frantziscu, Cicitu Masala, tanto che ne avrebbe scritto un libro carico di preveggenza poetica: “Il dio Petrolio”, in cui riversa tutta la sua angoscia nel constatare quanto avrebbe dovuto pagare a questo tipo di industrializzazione la terra sarda, e quale sconvolgimento antropologico sarebbe stato pagato dalle popolazioni isolane.

Ad Appiano Gentile la nazionale italiana faceva una partitella attaccanti contro difensori e a Burnich toccava far si che Gigi non facesse gol, ma quel pomeriggio Riva era in gran forma, una furia, di piede e di testa, l’ho visto incornare (termine breriano) una palla da calcio d’angolo che è passata fra le mani di Albertosi protese più a difendersi il viso che a tentare la parata. Un rombo di tuono. Così l’aveva battezzato Gianni Brera che in quegli anni era il più pagato e apprezzato giornalista d’Italia, ancora oggi a dire di tutti il più grande giornalista sportivo che abbia avuto la repubblica. E come Achille non sarebbe l’eroe che sappiamo se non l’avesse cantato Omero, così si può dire per Riva e il suo cantore contemporaneo, quel Brera da San Zenone al Po, provincia di Pavia, natovi l’8 settembre 1919: “sono cresciuto come un uomo selvaggio tra i boschi, sponde di fiumi e acque ferme”. Giovanni Luigi Brera, per tutti Gianni, in realtà fece il liceo scientifico a Pavia e sempre nell’università di questa città si laureò in scienze politiche nel ’43, in piena guerra, tanto che si arruolò volontario nel corpo dei paracadutisti ma la sua naia durò poco, visto che nel giorno del suo 25°compleanno i Savoia regnanti si sfilarono dal patto, che pure avrebbe dovuto essere “d’acciaio”, con l’alleato nazista tedesco, firmando un armistizio redatto in modo talmente ambiguo che avrebbe portato al dissolvimento dell’esercito italiano, i milioni di baionette di mussoliniana memoria si sfaldarono come neve al sole. Brera finì prima in un campo di concentramento in Svizzera, poi “ su in montagna a ciapà i ratt”, come dice quella canzone famosa, in montagna coi partigiani. Anche se lui si è sempre fatto gloria di non aver mai sparato, né da paracadutista né da partigiano, a un altro essere umano. A trenta anni è stato il più giovane direttore di un quotidiano, “La Gazzetta dello sport”, “La rosa”, del giornalismo italiano. Diresse anche il “Guerin sportivo” , un periodico di critica sportiva, titolo in prima pagina dell’11/7/70 a formato da urlo: “Dio benedica il Cagliari e Gigi Riva. Non è mai nato al mondo un campione più grande di lui”. Qui aveva una rubrica fissa di risposta alle lettere dei lettori: “L’Arcimatto”, dove Gioannbrerafucarlo- così amava farsi chiamare- ha espresso il meglio della sua fantasia scrittoria, creando neologismi numerosissimi, che sono rimasti nelle cronache calcistiche, e non solo, perché scrisse anche di pugilato, ciclismo, atletica leggera, ad arricchire un vocabolario sterminato, che gli veniva anche dai suoi trascorsi studi liceali. Parole come “libero”, “cursore”, “contropiede”, “melina”, tutta farina del suo sacco e ancora “maldinata” ( da una giocata poco felice in area di rigore di Cesare Maldini, libero milanista), “abatino”, cucito addosso per Gianni Rivera, e soprannomi: “Bonimba” per Roberto Boninsegna, “Conileone” per Josè Altafini, “Rombo di tuono” per Gigi Riva. Era un vero “Bastian contrario” Brera, polemico e “tifoso” dichiarato, specie di sue concezioni calcistiche per cui l’Italia pedatoria era condannata dalla sua “eterna fame”che le derivava dall’aver sempre mangiato poca carne a essere “squadra femmina”, costretta a subire il gioco dell’avversaria, per poi scattare in contropiede e tentare di fare gol con i suoi attaccanti più coraggiosi: ad avallare questo modulo detto “all’italiana” Gigi Riva è stato l’interprete perfetto: “ed è per questo che io (Brera) posso ancora affermare che uno come lui non sia mai nato nel calcio italiano. Egli ha esasperato le qualità di Piola che aveva due piedi ma non valeva per lo scatto e neanche per le doti acrobatiche…Senza Piola, Pozzo non avrebbe rivinto a Parigi. Del pari senza “rombo di tuono” Valcareggi non sarebbe andato ai Mondiali 1970 e forse neanche ai Mondiali 74” (da “Arcimatto”, sulla rete). Dove anche la squadra del Cagliari viene definita essere stata per tre-quattro anni “la più splendida dell’Italia”. E così che lunedì 21 di novembre scorso sono andato all’Anteo spazio cinema di Milano a vedere: ”Nel  nostro cielo un rombo di tuono”: “ il film omaggio dedicato a Gigi Riva, presente in sala il regista Riccardo Milani. Centravanti del Cagliari e della Nazionale (non è vero: Riva ha sempre giocato col numero 11 da ala sinistra ndr.) detiene tutt’ora il record del numero di reti in azzurro, ben 35” ( in 42 presenze totali ndr.). Sala del cinema strapiena, due fila dietro la mia Sandro Mazzola, nei posti davanti il figlio di Angelo, Massimo Moratti, alla fine del film applausi scroscianti. Riccardo Milani dirà delle difficoltà di convincere Riva a comparire nel film (ci ho messo dieci anni perché mi dicesse di si). Moratti di quanto suo padre avesse brigato per farlo arrivare a Milano, all’Inter, inutilmente. Gli è che Riva si era “innamorato della Sardegna” e non se ne voleva andare neanche per il miliardo che l’Avvocato per antonomasia, l’Agnelli della Fiat e di Torino bianconera, aveva messo sul piatto per averlo alla Juventus. Ma non ci fu verso, a Cagliari anche manifestazioni di tifosi d’ogni età e ceto sociale a scongiurare l’infausto evento. Non si poteva proprio sporcare la leggenda: Gigi arriva in Sardegna nel ’63 accompagnato dalla sorella, ha diciannove anni, ha perso il padre a nove anni (un “incidente sul lavoro” in una azienda metalmeccanica, non erano tempi di assicurazioni per i lavoratori), Leggiuno allora era un povero paese che non arrivava a duemila abitanti, e la madre non ce la fa da sola con tre figli da tirare su. Gigi finisce in “collegio”. Sono quei posti da cui vorresti sempre scappartene, e infatti lui in tre anni ne cambia tre, e a scapparsene via ci prova e ci pensa tutti i giorni. Torna a Leggiuno a quindici anni e subito va a lavorare in una azienda che faceva ascensori. Ogni minuto libero, come anche quando era ragazzino è per il gioco del calcio, lì è il più bravo di tutti a fare gol, da sempre. L’anno dopo perde anche la madre. Quando arriva a Cagliari che allora era in serie B, per 37 milioni di lire, mai avrebbe detto che ci sarebbe rimasto per tutta una vita. E che la gente di Sardegna sarebbe stata per lui una seconda famiglia, che lo avrebbe certo adottato e adorato, ma che sempre avrebbe rispettato quel suo lato oscuro del carattere che lo faceva essere schivo, ombroso, poco incline al sorriso. E alle confidenze gratuite. Finirà poi ad essere tanto famoso da fare da padrino a una schiera di marmocchi figli dei suoi tifosi più accesi. Attorniato sempre da torme di ragazzini scalzi che, pur con maglie rattoppate infinite volte, tutti volevano giocare a pallone e avere sulle spalle quel fatidico numero 11, quello di Giggirriva. Un volto da greco antico, fisico prorompente, quale ragazza sarda non era allora innamorata di lui?   Una stagione la sua che durerà fino al termine del campionato 75-76, a 32 anni con una carriera segnata anche da due gravi infortuni. La Sardegna per un po’ “uber alles”, al di sopra di tutti, a vivere quasi un periodo mitico, di quelli che si perdono nella memoria di una gioventù ormai alle spalle. Canta Piero Marras nella sua “Quando Gigi Riva tornerà”: “Non ci troveranno ancora qua/Con la vita in fallo laterale/E il sorriso fermo un po’ a metà/Tornerà la voglia di sognare/Quando Gigi Riva tornerà”. Nel film Riva, l’eterna sigaretta accesa, seduto in poltrona di spalle, sulla spiaggia deserta del Poetto a Cagliari, la sella del Diavolo a sfondo, regala ancora una volta pochi sorrisi. Anche se a tratti il viso pare gli si illumini. Faccio mie per Gigi Riva, il campionissimo anche della mia passata giovinezza, le parole che ha scritto Gianni Brera per un altro grandissimo del calcio italiano, Peppino Meazza, El Pèp (a Milano il sindaco “verde” Sala vuol buttar giù lo stadio a suo nome): “ Avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte”.

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