GINO FROGHERI, L’INQUIETUDINE DELL’ARTISTA: A SETTANT’ANNI DALLA SUA PRIMA MOSTRA, L’EVOLUZIONE DELLA SUA PRODUZIONE TRA FIGURATIVO ED ASTRATTO

Gino Frogheri

di LUCIA BECCHERE

A sei anni dipingeva le macchine dell’officina dove il padre lavorava come artigiano meccanico, alle elementari ritraeva la maestra e alle medie le fidanzatine dei compagni in cambio di un pacchetto di sigarette. Gino Frogheri, nato a Nuoro nel 1937, geometra presso l’Amministrazione Provinciale per vent’anni, ha dedicato interamente la sua vita alla pittura.

Prima mostra a Nuoro nel 1953, a seguire tante altre che lo avrebbero reso famoso in Italia e all’estero.

Nel 1967, con un quadro che rappresentava i cavalli, vinse il primo premio al concorso indetto da Sandra Piras nella Galleria Chironi 88 aggiudicandosi il diritto ad una personale. Realizzò una figurativa di minatori, operai, paesaggi e cavalli. Fu un successo. Tuttavia, per non aver condiviso appieno alcune dichiarazioni della Piras, distrusse la maggior parte delle opere con le proprie mani.

Frogheri possedeva un’innata complicità fra l’occhio e la mano che escludevano la sua interiorità dal percorso creativo confinato nel troppo semplicistico, finché la mente, interrompendo quella complicità si univa a loro nel dare vita ad un’arte rinnovata dalla sua essenza emozionale.

Il merito di questa maturazione artistica va attribuito proprio alla Piras che, evidenziando il limite del figurativo, per prima aveva colto in lui grandi doti astrattistiche. Da quel momento, Frogheri, grazie al suo talento, farà sopravvivere la forma al di là della rappresentazione reale e Sandra Piras divulgò le sue opere nel mondo dell’arte fino al 1999.

Come è avvenuta questa evoluzione?

“Nel 1971 il Comune mi aveva dato l’incarico di realizzare un’opera per il centenario della nascita di Grazia Deledda. Ho voluto illustrare, non il ritratto, ma la sacralità delle rocce e del monte in un totem di pietra di colei che ha avuto il coraggio di partire e ha vinto il Nobel. Quello è stato il prototipo della mia arte astratta. Così ho maturato la consapevolezza che la globalizzazione sulla terra nasce dallo stato primario dell’uomo”.

Oggi, come vede l’arte?

“L’arte ha avuto prima un approccio consumistico e poi concettuale. Oggi noi viviamo gli effetti negativi della unificazione, dell’immagine, del digitale e dal filmato. Quindi alcune immagini sono corroborate proprio da questi elementi a detrimento della vera arte.

Qual è l’opera a cui è particolarmente legato?

La bivalenza ricettiva che si trova al MacLula. E’ la comunicazione fra due elementi vitali in uno stato disumanizzato. Aggiungo anche Il destino ignoto di quattro linee, l’ultima sperimentazione che racchiude tutto il mio percorso e mi indica la strada da seguire”.

Un bilancio della sua vita artistica.

“L’arte mi ha dato tanto, tuttavia mi ha reso un artista irrequieto, direi tormentato da quello che ancora non ho potuto fare. Sono amareggiato perché mi sono sempre sentito un po’ messo da parte. Nonostante ciò, pur avendo avuto altre opportunità, sono rimasto a Nuoro perché amo la mia città e la mia gente.

Degli artisti sardi si dice: “Vive fra Nuoro e Parigi, Roma, Londra, New York. No, io sono felice di vivere fra Nuoro e Baddemanna”.

Fra la sua ricca produzione vogliamo ricordare l’enorme mosaico d’arte sacra della Parrocchia del Sacro Cuore datato 1968 e il trittico, Crocifissione-Deposizione-Resurrezione, custodito nel cimitero di Nuoro.

Di recente ha preso parte ad un’antologica al MacLula con Roberto Putzu, dirigente liceo artistico di Sassari, per la seconda volta insieme dopo la mostra nuorese del 1984 curata da Salvatore Naitza e Sandra Piras.

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