CHIACCHIERATA SULLA LINGUA SARDA: CON SIMONE PISANO AL CENTRO SOCIALE CULTURALE SARDO DI MILANO

di SERGIO PORTAS

La scienza, si sa, avanza a piccoli passi per raggiungere verità che sono per definizione impossibili, mai ultimative, usa a tale scopo dei “fondamenti” che sono il presupposto su cui si articola la disciplina a cui si attengono i vari adepti che, scambiandosi informazioni e risultati dei loro esperimenti, contribuiscono a questa crescita costante. E la linguistica non fa eccezione. Anzi, a sentire Simone Pisano presente al circolo sardo di Milano per una chiacchierata sulle parlati sarde contemporanee, proprio la linguistica ci tiene a far quadrato dei presupposti su cui si basa, sino ad avocare a sé un surplus di “scientificità”, quasi a mettere avanti una sorta di altolà a fantasiose teorie linguistiche che sono basate sul nulla, per lui persino i terrapiattisti hanno diritto di riunirsi  in setta a predicare teorie assurde sulla non sfericità del pianeta, quello che però non accetta è che pretendano di porre le loro fantasie su di un piatto di  bilancia che ha a contrappeso una scienza conclamata, che vive di prove e ha alle spalle migliaia di pubblicazioni universalmente riconosciute. Insomma Simone non lo dice proprio in maniera esplicita, ma il fatto che lui possa vantare una laurea in Glottologia, un dottorato in Linguistica Generale e Storica, presso l’Università di Pisa, nonché un’abilitazione che gli dà credenziali a insegnare Glottologia e Linguistica all’Università per Stranieri di Siena, gli concede il diritto di fare affermazioni “definitive” sullo stato della lingua sarda, in tutte le sue varianti, sulle sue origini e storia, senza contraddittorio di sorta. Ciò a evitare presunte patenti di superiorità sul “sardo che si parla ad Oliena”, piuttosto che “quello che si parla a Escalaplano”, essendo la lingua un organismo che muta, per statuto ontologico, nutrendosi degli apporti linguistici che i “parlanti” acquisiscono dai contatti con i “non parlanti”, stranieri o italiani che siano. Del resto oggi lui è qui anche per rendere omaggio, nel sessantesimo anno della morte, al più grande studioso che abbia avuto la lingua sarda: Max Leopold Wagner, un tedesco nato a Monaco di Baviera il 17 settembre del 1880. I filologhi tedeschi, dice Pisano, hanno da sempre una forte tradizione e tutte le università germanofone hanno sempre mostrato molto interesse per lo studio del sardo, lingua per distanziamento in grazia del mare che la circonda, e che ha perciò caratteristiche tutte sue che la differenziano dalle altre sorelle lingue neo-latine. Francese, spagnolo, portoghese, rumeno. Italiano persino. Wagner del sardo s’innamorò fin da giovane, ne fece testo della sua tesi di laurea, nel 1907 addirittura conseguì un dottorato a Wurzburg sulla fonetica dei dialetti sardi meridionali: questi tedeschi, nell’università della bassa Baviera non solo si studia il sardo ma addirittura se ne fa indagine specifica sulla produzione dei suoni campidanesi. All’inizio del ‘900. Il Wagner c’era stato per un anno in Sardegna, nel 1905, e grazie ad una meravigliosa attitudine nell’apprendere le lingue, da quell’anno fu in grado di girare per tutta l’isola, per di più a dorso di asino o in bicicletta ( non voglio neanche cercare di immaginare cosa fosse lo stato delle strade sarde dell’epoca) da solo, svolgendo un’attività di ricerca incredibile, che sfociò poi in diverse pubblicazioni, e la più importante i tre volumi del Dizionario Etimologico Sardo, un’opera su cui, dice Pisano, ancora siamo seduti come nani sulle spalle di un gigante. Qui presente naturalmente nella biblioteca del circolo sardo milanese. Libro, debbo dire, di non facilissima consultazione per i non addetti ai lavori. Comunque quando venne pubblicato valse al suo autore la contemporanea cittadinanza onoraria a Cagliari, Nuoro e Sassari. E pensare che avrebbe voluto insegnare a Cagliari, all’università, ma non lo vollero, non era sufficientemente raccomandato. Del resto erano anni un po’ particolari per il nostro paese, quando Wagner si aggirava per la Sardegna in cerca di non si sa bene cosa, con quella sua bombetta in testa, i baffetti a scolpire una faccia simpatica da tedesco del sud, mentre i “nostri ragazzi” sparavano ai suoi connazionali sulle trincee del Carso, essere sospettati da spia del nemico era il minimo che poteva capitarti. Cosa potesse spiare e riportare da Bitti o Orune lo studioso tedesco è rimasto nella testa della polizia del tempo, che pure ebbe nel volgere di pochi anni un’impennata di produttività sorprendente, che il fascismo dominante sognava un “dossier” per ogni italiano sospetto di frequentazioni socio-comuniste, ben più di un terzo dei votanti prima del ’22. Giustamente per cancellare quella vergogna il Duce pensò bene di non far votare più nessuno e il problema si pose solo a guerra finita, la seconda mondiale, ma allora i tedeschi erano “con noi”, fin quasi alla fine, che poi presero a spararci addosso, civili compresi, sospetti di dar da mangiare ai “partigiani”, per lo più soldati renitenti alla leva di Salò, che il Duce, sempre lui, non ne voleva sapere di armistizi o paci separate. Nel 1920 Wagner arriva a Baunei, a dorso d’asino, accolto dal sindaco del paese, per lui la sera uccisero “un caprone” (speriamo fosse un capretto) e fecero festa. Da calcoli ottimistici, in quel tempo in Sardegna l’89% era totalmente analfabeta, tanto che sempre nel ’20 una signora di Pozzomaggiore che aveva avuto la ventura di avere una mamma piemontese veniva contesa dai “prinzipales” perché l’unica che parlava italiano nel paese. La normalità, dice Pisano, è parlare tante lingue, l’unità linguistica è funzionale alla costruzione della “nazione”, non a caso Pasolini ha sempre bollato di genocidio culturale la scomparsa dei dialetti in Italia. Si può considerare il Wagner anche un etnologo? La linguistica ha una necessità di dotarsi di un apparato tecnico-scientifico il più esteso possibile, quindi il modo di vivere di una cultura è altrettanto fondamentale dal capirne il linguaggio. Da che l’impero romano collassò sotto il premere dei barbari, il latino seppure in forme sempre più volgarizzate fu la lingua “ufficiale” delle cancellerie, della Chiesa, saper leggere e scrivere per centinaia d’anni, voleva dire sapere il latino. E per centinaia d’anni furono i chierici che scrissero le leggi e i trattati dei “grandi”. Scrive Marc Bloch nel suo mai più superato: “La società feudale” (Reprints Einaudi 1974): “Dalla metà del secolo VIII al 1300 trascorsero più di cinque secoli, durante i quali le cancellerie dei sovrani che regnarono in Francia ebbero alla loro testa solo uomini di Chiesa” (pag.99). E due pagine indietro a proposito della nostra isola: “Poiché la Sardegna era un paese povero, le cui popolazioni, fuggendo le coste infestate dai pirati, vivevano in un isolamento quasi assoluto, i primi documenti scritti in sardo superano di molto per anzianità i più antichi testi italiani della penisola” (pag.96 op.cit.). I documenti sardi che attestano tale affermazione, dice sempre Pisano, spesso sono al di fuori dell’isola, la più importante scoperta degli ultimi periodi è quella di una serie di commedie tipo “sacre rappresentazioni” in lingua di un’area meridionale del cosiddetto campidanese, ritrovate a Pisa. Il manoscritto in caratteri greci per scrivere in sardo della cosiddetta “carta di Marsiglia”, datata 1089/ 1103 (emanata dal “juighe” Costantino Salusio de Lacon) è conservata negli “Archives Départementales   des Bouches du Rhone” della città francese. Le varietà sarde sono frammentate al loro interno, con differenze sensibili anche in paesi confinanti, dire: ”Su sardu fidi unu” è una grossa scemenza, i giudici di Cagliari, di Arborea e di Torres scrivono in modi diversi l’uno dall’altro. Le lingue naturali funzionano più o meno tutte allo stesso modo. Il sardo ha una morfologia molto particolare, usa ad esempio molte parole per il futuro: dice “appo andare”, per andrò. Tra le varietà sarde, quelle di Gallura e Sassari, Sorso e Porto Torres hanno una tipologia che rimanda all’italiano. In Gallura le novità sono arrivate dalla Corsica meridionale (dicono: li muntagni, per le montagne) dove, dopo il toscano, possiamo trovare la varietà italiana più pura. La varietà del catalano di Alghero si parla solo nel centro della città. Il tabarchino (da Tabarca città della Tunisia) di Carloforte e Calasetta è un caso da manuale di lealtà linguistica dei parlanti: lo parla l’87% dei residenti e per il 72% dei bimbi è la prima lingua. Non è intenzionato a scomparire. Il gaelico che solo due generazioni fa in Irlanda parlavano quasi tutti si è ridotto all’1% della popolazione. Il destino del sardo è legato al numero dei sardi che continueranno a parlarlo. Diversamente subirà il destino del gaelico e diventerà una sorta di leggenda per le generazioni future che avranno la fortuna di calcare il suolo dell’isola dei nuraghi, che quelli sì tarderanno a scomparire nell’oblio delle genti. Magari resteranno le canzoni i cui testi rimandano a un periodo “diverso” in cui i sardi descrivevano il mondo con il loro parlato e, meraviglia, era tutt’altra cosa che codesta che conosciamo. Cantava, anzi canta ancora e per sempre Marisa Sannia nel suo “Bellitta, bellitta”:  “Dammi sa manu, bellitta bellitta/ Dammi sa manu e torrimila a dare//…Dami sa manu che su dolore/ Fuet (fugge) che i ‘su ‘entu// no at a torrare/ dami sa manu pro su ballu tundu/ sa limba nostra esti su mundu// Cantos e contos de su connottu (tradizione)/ Cantos e contos, (racconti) sa limba est totu…la lingua nostra è il mondo”. E’ quel mondo “diverso” che tanto affascinò Leopold Wagner, dove l’atto di legarsi per sempre a un “signore” per averne protezione in cambio di una lealtà che durava per la vita, mai era stato visto di buon occhio. Scrive ancora Marc Bloch: “Il Medioevo conobbe, a dire il vero, una società largamente signorile, ma non feudalizzata (come era l’Europa tutta, n.d.r.): la Sardegna. Come stupirsi se, su questa terra, a lungo sottratta alle grandi correnti del continente, potè conservarsi un antico sistema di capi rurali, regolarizzatisi durante il periodo romano, senza che la potenza delle aristocrazie locali abbia mai assunto la forma della “commendatio” (leggi: atto di fedeltà, n.d.r.) franca?” (pag.279,op.cit.). Dammi sa manu e torrimila a dare  //sa limba nostra pro no la olvidare. La lingua nostra da non dimenticare.

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2 commenti

  1. virgilio mazzei

    Complimenti.
    Splendida “pagina culturale”.

  2. Complimenti molto interessante 👍👍👏🏻👏🏻

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