“NON C’E’ BISOGNO DI VOI”: INTERVISTA A MATTEO SECCHI CHE RACCONTA LA SUA SECONDA FATICA LETTERARIA

Matteo Secchi

di MARIAZZURRA LAI

L’infelicità è assenza di opportunità, funzionalità, adattabilità. Spesso una conseguenza ad altri sentimenti, come la tristezza e la depressione. Gli esseri umani sono caratterizzati da svariate sfumature e spesso, si riesce a far trapelare serenità anche quando l’emozione che in realtà appartiene è l’esatto contrario. Dimensioni, equilibri, squilibri terreni. Una sorta di contrario di tutto. Cosa accadrebbe se in una realtà parallela, l’infelicità non fosse ammessa? Matteo Secchi, classe ’86 e Cagliaritano Doc, con il suo secondo romanzo dal titolo “Non c’è bisogno di VOI”, desia criticare fra le righe il sistema della società contemporanea. Una comunità che incentiva e promuove l’omologazione emarginando la diversità. Il protagonista del libro, si chiama Carlo. Carlo abita a Vremina, una città moderna che insegue la felicità standardizzata. La vita si sa, spesso colpisce con pugno ben assestato la bocca dello stomaco, lasciando un vuoto a perdere. Privato di due amici inaspettatamente, il sipario della sua esistenza cala, schiudendo l’incipit di un lugubre presente e di una totale apatia, verso il futuro. Le sue giornate si scandiscono di quesiti senza risposte e di perdizioni d’anima. Carlo, si sente come la mosca che sbatte contro il vetro nonostante la finestra sia aperta. Non riuscendo più ad onorare lo standard di felicità del suo paese, viene trasferito nel ghetto delle Bili Bianche. Un quartiere ove può esprimere il suo turbamento e scegliere se uscirne ponendo deliberatamente termine alla sua vita. Come lui, gli abitanti di questo luogo, sono stati tutti giudicati da esperti, incapaci di poter vivere accanto alle persone felici e considerate di fatto normali. Un incontro, in questo scenario contraddittorio, cambierà completamente l’ordinario del protagonista. La consapevolezza e la presa di coscienza è un faro che sovrasta la tempesta. Il concetto di felicità è sempre delimitato da una, più parentesi ma la cognizione, specie di se stessi e degli altri, va oltre l’altrove dei pensieri circoscritti e dei limiti mentali, emozionali. Un libro che consente di far riflettere il lettore sui paradossi che spesso, fomentiamo noi stessi, con l’esclusione a prescindere, di cio’ che non ci somiglia. Il risultato è l’impoverimento generale della popolazione e dei sentimenti, quali la solidarietà sul prossimo e la possibilità del contatto, come supporto e conforto a certe dinamiche umane. Dal romanzo di Matteo Secchi nasce un progetto musicale  in collaborazione con Marco Cotza.

L’idea è quella di un prodotto unico nel suo genere, una canzone nata esclusivamente per un libro ma ascoltabile da chiunque. 

Il testo, infatti, non ha come fine la didascalia ma mescola emozioni e soggettive dei personaggi del romanzo in un flusso continuo che miscela corpi, sentimenti ed elementi. 

Tutto ciò contorna l’argomento trattato: la tristezza, quella più intensa e dolorosa. Alla fine di ogni strofa è però inserito un messaggio di speranza sospinto dalla consapevolezza della ciclicità fra infelicità/felicità. 

Così come nel videoclip, il cui protagonista è un orsetto pupazzo, notoriamente coloratissimo e col sorriso cucito sul volto, che viene privato di colore e posto in contesti malinconici, per mostrare che nulla è intrinsecamente felice. 

Arrangiamento e produzione musicale curata da Mauro Laconi (chitarrista di Rkomi), mix Alessandro Favero e master da Matteo Calvagno. Il brano è stato pubblicato il 14/10/22 e distribuito dalla RKH di Torino.

Hai scritto due libri, il primo dal titolo “Il paradosso della normalità” proponeva come trama, un nuovo partito politico che lavorava con onestà per aumentare la felicità dei suoi cittadini. Uno scopo che, all’interno del libro si evince nel leggerlo, metterà in dubbio alcune certezze etiche. Nel tuo ultimo libro, non c’è bisogno di voi, in un certo qual modo riprendi quel comune denominatore e lo rielabori in una sorta di dicotomia e paradosso. Racconta la storia del libro e svelaci se, in qualche modo, ci sono anelli di congiunzione con la tua prima creatura letteraria. “Non c’è bisogno di VOI” è legato a doppio filo col mio primo romanzo ma ho voluto provare a tagliare quella congiunzione per fare in modo che quest’ultimo libro diventasse una produzione a sé. È presente lo stesso contesto in entrambi i romanzi (una popolazione che insegue la felicità di massa) ma ora ho creato un ambiente più piccolo e circoscritto: quello di chi invece quella felicità non riesce a raggiungerla. C’è poi un personaggio che trasla il suo arco narrativo dal primo al secondo libro ma, anche qui, è possibile vivere la sua storia senza l’ausilio del romanzo precedente.“Non c’è bisogno di VOI” nasce e cresce in un mio momento non facile, e ne segue il suo percorso di metabolizzazione, proprio per questo lo considero un romanzo di formazione. La sua genesi inizia quando mi sono ritrovato a postare una foto su un social network. Una foto satura di colori, luminosa, bella come altre centinaia di migliaia. Ma quella foto era completamente slegata da ciò che era il mio momento emotivo, quindi stavo mascherando quello che provavo per mostrare altro, per mostrare ciò che “deve essere visto”. Ed è quello che, spesso, si fa fuori dagli smartphone, nella vita reale. Quasi nello stesso momento in tv un noto politico raccontava di quanto è necessario dividere le persone, ed è lì che mi sono chiesto “e se quello di cui parla è esattamente ciò che sto facendo io relegando la mia parte sofferente in un ambiente chiuso e invisibile? È possibile che l’emarginazione prima o poi raggiunga le persone che non seguono lo standard di felicità che andiamo a inseguire ossessivamente?” Così ho ripreso le tematiche del mio primo romanzo e le ho portate avanti costruendo la storia di un quartiere coloratissimo in cui vengono relegati i cittadini tristi, ma il tutto con un’aria di santità, con il concetto di eroi incollato su quelle persone. Eroi in quanto aiutano il resto dei cittadini ad eliminare l’infelicità, e quindi se stessi.

Quali sono state le tue sensazioni, emozioni nello scrivere “non c’è bisogno di voi”? Il romanzo ha avuto un iter lungo tre anni in cui si sono alternate diverse emozioni, ho vissuto la tristezza, ho vissuto la malinconia, poi la speranza e infine gli attimi di felicità. Tutte emozioni cicliche, giustamente cicliche, che ho utilizzato per dare voce ai personaggi. Ma queste emozioni non erano necessariamente quelle del momento in cui scrivevo, mi aiutavano a creare un pattern di sensazioni che poi utilizzavo nei giusti momenti. Uno scrittore deve essere in grado di separarsi dalla propria persona quando stende un romanzo, è fondamentale.

Il titolo e la scelta della copertina del libro, ha un forte impatto emotivo. Era ciò che volevi trasmettere? Il titolo è cangiante. Può essere “Non c’è bisogno di voi”, non abbiamo necessità delle persone infelici, quelle che nel romanzo vengono emarginate in un quartiere colorato. Ma può essere letto come “Non c’è bisogno di VOI”, ossia non occorre un VOI, un partito politico che porta avanti l’idea di una felicità assoluta e di massa.

La copertina invece è stata scelta direttamente dalla casa editrice, Morellini Editore. All’inizio sono rimasto perplesso, avevo immaginato che la copertina rappresentasse il quartiere descritto nel romanzo ma ora mi ci sono affezionato e non la cambierei.

Quanto Matteo esiste nel protagonista Carlo e quanto Carlo esiste in Matteo? La scrittura denuda, lo si dice spesso, e come ho detto prima il romanzo attraversa l’arco di metabolizzazione di un momento personale non facile. Ma sono certo che uno scrittore deve essere in grado di dimenticare la propria condizione per indossare i panni dei personaggi, solo così una narrazione può essere efficace. Altrimenti, come esempio, solo i serial killer potrebbero scrivere la storia di un serial killer. Allo stesso modo io non sono mai stato Carlo ma sono entrato sempre nei suoi panni mentre scrivevo.

Scrivere è per te più un bisogno o un desiderio? Penso sia un bisogno, penso ci sia scritto qualcosa nel mio DNA che si porta avanti da generazioni. Ho dei quaderni zeppi di racconti scritti da mio nonno, storie che non hanno mai ricercato la pubblicazione. Così come ho una poesia d’amore scritta dal mio bisnonno per la moglie defunta. D’altro canto è anche la maniera che ho per dare ordine a quei ragionamenti che spesso ci fluttuano nella mente per poi vaporizzare nel nulla, nella scrittura ho modo di afferrare e imprimerli su un foglio. 

Ti definisci uno scrittore per professione o per piacere? Scrivo per piacere, ma penso sia necessario offrire le proprie storie al pubblico, perché scrivere è lasciare un segno e l’uomo utilizza i segni per comunicare. Quindi questi testi non avrebbero la stessa importanza se relegati in un cassetto, se sulle pagine scritte non ci fossero degli occhi pronti a leggere e analizzarne il contenuto. Inoltre scrivere è la possibilità di comprendere il prossimo, perché quando devi calarti nei panni di un personaggio devi capire la sua psiche, capire il contesto in cui agisce, farli tuoi. Questo arricchisce, questo è un motivo per cui scrivere.

Quali sono i fattori che servono in una storia? Il messaggio è il fattore principale, si deve avere qualcosa da veicolare, qualcosa che deve arrivare al lettore. C’è poi la creazione dei personaggi e di un conflitto tangibile con la sua risoluzione. L’originalità è un fattore importante ma non è determinante alla causa di una buona storia.

Ci sono autori che hanno influenzato o fomentato il tuo modo di scrivere? Se si quali? Goethe. Quando lessi “I dolori del giovane Werther” provai per la prima volta l’esperienza di entrare nella mente del protagonista, di muovermi nelle ambientazioni create, di subire tutti i suoi turbamenti. Più tardi sono arrivati Kafka, col suo modo di rappresentare storie e punti di vista impensabili, e infine Borges con la sua logica e capacità fulminante di descrizione.

I concetti che fra le righe, ti districhi nell’imprimere nei tuoi romanzi, sono secondo il tuo parere, facilmente comprensibili a tutti? No, mi piace uno stile criptico, enigmatico, in cui c’è una costante ricerca di significato senza scadere nella sovrainterpretazione. Il tutto non deve però risultare asettico. È ciò che cerco in un romanzo, perciò un lettore indagatore ma con alta sensibilità è la persona che desidero per i miei libri.

Sai, Kahneman nel suo “Pensieri lenti pensieri veloci” descrive benissimo i due tipi di ragionamento che siamo in grado di utilizzare: uno più pigro e intuitivo, uno che richiede più energie per arrivare a concetti meno palesi. Vorrei che nelle pagine dei miei romanzi ci si sposti costantemente fra i due sistemi. 

Scrivi sulla carta o al pc? Scrivo su pc quando si tratta di romanzi, mentre scrivo su carta quando sono alle prese con testi brevi, quali poesie o testi di canzoni. Mi piace l’utilizzo della penna ma nella stesura di un romanzo sarebbe, per me, un dispendio eccessivo di tempo.

La felicità è caratterizzata da parentesi e momenti che spesso noi, non riusciamo a vedere mentre li viviamo, forse successivamente ci ricordiamo di quanto siamo stati felici in quel preciso istante, ma in quel caso il nostro attimo di felicità è già trascorso. Cosa significa la parola “felicità” per Matteo? Sono d’accordo con te, spesso non ci si rende conto del momento felice che si attraversa, quasi che questo debba sedimentarsi per essere metabolizzato. D’altro canto, con lo stesso processo di sedimentazione, riusciamo a ridurre la potenza dei momenti tristi distanti nel tempo. Sarebbe utile imparare a equilibrare le due cose.Mi piace pensare alla felicità come un’isoletta impermanente che affonda lenta sotto il nostro peso ogni qual volta riusciamo a salirci sopra. Una volta affondata ha la capacità di ritornare a galla e noi abbiamo la possibilità di salirci nuovamente su.

Quanto è correlata la nostra felicità intima a quella sociale? Tanto. “Nessun uomo è un’isola” affermava John Donne, e sono certo che sia così, che ognuno di noi non può essere ridotto a se stesso nella propria esistenza. Le persone intorno a noi hanno la possibilità di influire sulla nostra felicità e infelicità, ma non per osmosi (come vorrebbe fare intendere la società descritta nel romanzo), quanto per gesti, piccoli o grandi, che influiscono sulle nostre giornate, sul nostro vivere. Non ci resta che aprire gli occhi su queste azioni per poi accogliere o respingerle.

Cosa significa oggi essere felici? Essere felici significa produrre dopamina, oggi come prima. I fattori che innescano questo processo sono sempre gli stessi, ciò che è cambiato è il concetto di realizzazione personale, di affermazione nella società, di tendenza all’avere. Posso dirti quella che, secondo me, dovrebbe essere la felicità oggi: valutare la propria dimensione nel mondo, e quindi ingigantire le piccole cose.

Desiderare un’esperienza positiva è di per sé un’esperienza negativa. Paradossalmente, accettare la propria esperienza negativa di per sé è un’esperienza positiva. Si chiama legge d’inversione. Cosa pensi a riguardo? Quando ci interroghiamo sulle esperienze negative ci rispondiamo che sono state capaci di renderci più forti, una sorta di assuefazione a quella emozione. Viceversa quando pensiamo alla felicità non vediamo il rischio di questa assuefazione e ci ricamiamo sopra il concetto dell’essere sempre felici, senza pensare che un’esposizione continua a questo sentimento ci rende, appunto, assuefatti e richiede un’esperienza di felicità sempre maggiore per renderci appagati. Dobbiamo rivalutare la nostra tendenza a inseguire la felicità perpetua, perché è il primo passo per farci sfuggire i piccoli momenti che ci rendono davvero felici.

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3 commenti

  1. Bello!

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