ODISSEA A TINDARI, UN CLASSICO CHE SEMPRE INTERROGA: SOPRATTUTTO L’ISOLITUDINE

Mario Perrotta

di GIANRAIMONDO FARINA

Nell’interpretazione magistrale di Mario Perrotta, attore, registra, sceneggiatore, la sera del 2 agosto si è potuto assistere ad uno spettacolo veramente unico, fresco ed eccezionale: l’Odissea. Il tutto si è realizzato nello splendido scenario del teatro greco di Tindari, nell’ambito dell’omonimo festival teatrale, organizzato e promosso dal comune di Patti (Me) di cui Tindari è frazione storica. In un monologo intenso, per niente monotono,l’autore è riuscito a trasmettere messaggi e sentimenti profondi che vanno diritti al cuore: l’amarezza per una vita vissuta tra il mare e l’atteggiamento di un paese in attesa di un padre che, a differenza di Ulisse, non ritornerà mai. Antonio, lavoratore di cozze, questo è il nome del protagonista, s’identifica nella figura di Telemaco, anche lui per venti lunghi anni in attesa del ritorno del padre Ulisse, partito per la guerra di Troia. La madre di Antonio, che tutti chiamavano “Speranza”, viene accostata a Penelope, moglie fedele di Ulisse. Entrambe rimangono chiuse nel loro dolore, nell’ambito delle loro dimore: una nella reggia, l’altra nella sua casa umile, tenendo sempre le finestre chiuse, come ancora si usa in alcuni paesi degli entroterra siciliani e sardi, sia per mantenere una certa riservatezza e dignità, sia per paura dei giudizi e dei pregiudizi della gente. Uno degli aspetti innovativi della magistrale rilettura di questo  classico consiste, appunto, nella denuncia di una mentalità retrograda che ancora oggi, purtroppo, alligna nei piccoli centri, impedendo alla gente di vivere e realizzarsi. Sullo sfondo, poi, vi è il grande tema del mare che per chi è isolano, siciliano o sardo, assume delle sfumature del tutto particolari. “Il mare color del vino” , una significativa raccolta di Leonardo Sciascia, in cui egli, dà senso alla sua isolitudine siciliana, definendo quel mare “color del vino” come “limes” fisico e metafisico da superare e da osare. È per questo che in ogni racconto di questa raccolta c’è un frammento delle sue migliori idee, sensazioni ed analisi, quelle rintracciabili nei suoi scritti più corposi e famosi.C’è la sua immancabile ironia, ci sono le cronache di quella storia minima e dimenticata che lo scrittore di Racalmuto ha spesso recuperato e ricostruito con dovizia, c’è il phatos elegante e sofisticato dell’autore di polizieschi, c’è la critica aspra e malinconica di un siciliano che osserva la sua terra imbevuta di mafia e maschilismo, c’è l’attento osservatore dei vizi e delle virtù di un Paese e di un’epoca. Per andare, poi , in Sardegna, dove,nella “Cosima” autobiografica di Grazia Deledda, si erge chiaro il contrasto fra l’isola ed il mare, inteso come suo confine naturale, prima da conoscere e, poi, come la Deledda farà, da superare. È molto intenso, in tal senso, il “primo incontro” di Cosima con il mare: “Quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera, come in segno che l’isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l’eternità. Era il mare che Cosima vedeva per la prima volta”. Per concludere, nell’Odissea reinterpretata da Perrotta non sono mancati i riferimenti ad alcune delle tappe del lungo viaggio di Ulisse: la terra dei Ciclopi, Scilla e Cariddi, le Sirene. Il finale dell’Odissea si conclude con il ritorno dell’eroe ed il riconoscimento amorevole da parte di Penelope. Cosa che, purtroppo, non succederà con mamma “Speranza”, che rimarrà chiusa nella sua casa nell’ attesa in ana del ritorno dell’amato.

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