LA STORIA DI UNA BIMBA CHE SIN DALLA NASCITA CREA SCOMPIGLIO: PAOLA SORIGA E IL SUO ULTIMO LIBRO “MAICOLGECSON”

Paola Soriga

di SERGIO PORTAS

Paola Soriga nel suo ultimo libro uscito per Mondadori (“Maicolgècson”, 2021) scrive a pag.13 che il nome del paese dove fa muovere i personaggi che lo animano non ha importanza, potrebbero essere Assemini o Siliqua, Dosmunovas o Villamassargia, o Nulvi o Berchidda; non credeteci: né a Nulvi né a Berchidda si intercala la lingua con cui è scritto questo libro: è roba del Campidano di Cagliari: Pula o Uta (paese di nascita dell’autrice) “all’estremità del golfo di stagni e saline. La campagna piatta, il monte lontano, i letti dei due fiumi che certi anni si seccano e in altri brillano l’acqua e i canneti. Gli orti di carciofi e fagiolini, ravanelli e sedani, ulivi e melograni”. (pag.14) Per chi abbia letto il suo primo “Dove finisce Roma” del 2012 e “La stagione che verrà” tre anni più tardi, presenta la sorpresa di un periodare diverso, attinente certo alla storia che narra ma che contiene intonazioni autoironiche e scherzose quasi in ogni pagina che si gira. La storia di una bimba che sin dalla sua nascita crea scompiglio, scura com’è, e con quei capelli crespi poi, tipo lana d’acciaio, e da dove erano usciti? “Babbo non aveva detto niente, ma lei lo sapeva che se lo stava chiedendo anche lui: de innoi ndi funti bessius?” (l’autrice sceglie di non tradurre il sardo e io con lei) “Ceee! I capelli come Michael Jackson” disse mio zio Stefano quando arrivò in ospedale anche lui e mi vide per la prima volta. “E chi è?”, chiese mio padre. “Come, chi è? Il cantante, quando mai non lo conosci”. “Non lo conosco, disse mio padre, poi guardò mio zio, poi guardò me, poi di nuovo mio zio e gli chiese: “E ita est, nieddu?” “Eh, nero già è nero”: “E tocca, smettimela”. Tocca è un esortativo, dice mia cugina Eleonora (una che sa sempre tutto, ndr.), tipo su, dài, lascia stare… “I sardi sono così, siamo gente tutta mischiata”, dirà zio Stefano anni dopo” (pag. 10). Siamo agli inizi degli anni 80 (del resto l’autrice è del’79) e questa bimba, battezzata Remigia (come la buonanima di babbo): “Babbo era maschio, già è brutto per un maschio, labài che le mettono nomìngiu” (pag 11), viene tirata su alla “moderna”: “…dicevano: parlagli (sic) in italiano, alla bambina; dicevano: parlate in italiano, così lo imparate alla bambina; dicevano: chiama a tua cugina per aiutarti a fare i compiti. Un disastro di portata storica dei cui effetti sulla nostra società e sulla nostra cultura ancora non siamo consapevoli, secondo mia cugina Eleonora” (pag.18). Le piace molto cantare, a Remigia, guai a spostarla dal televisore quando al pomeriggio c’è “Superclassifica Show”, tanto che a cinque anni la mandano a “scuola di canto” da quella signora di Villaspeciosa, Antonietta Cubeddu. Ed è così brava a imparare i testi delle canzoni e a rifarle al modo dei cantanti più in voga che alla sua insegnante viene in mente che si possa proporre per lo “Zecchino d’oro”, da Sandra Milo, alla Rai; risposta di mamma: “Eh tocca, lasciami la testa in pace”. E babbo invece: “Ascò, se ci vuole andare falla andare, tanto vedrai che non la prendono, che sono tutti raccomandati”. Purtroppo non finisce bene (sarà per sempre “Il Grande Insuccesso” per la nostra eroina): “Al tabacchino stamattina stavano tutti dicendo: mischina la figlia di Nando Porcu. Che brutta figura, dicevano. Bisogno, c’era, di mandarla in televisione. Quella è la mamma, già lo sai com’è…Sa pipia c’è rimasta male perché si sono messi a ridere. Ma poi perché hanno riso? Boh. Certo con quel nome, mischinetta, hanno detto. E ma dopo, hanno riso di nuovo. Baxicca. Chi lo sa. Boh.” (pag.50). Meglio, infinitamente meglio, essere chiamata “Maicolgècson, che Remigia Porcu. E anche a scuola è un vero tormento, persino Claudia Loche aveva urlato davanti a tutti “che mia mamma era bagassa e io in realtà ero figlia del marocchino che vendeva le bombole” (pag.63). Eppure quando, per onesta vendetta, le aveva fatto fare un volo dallo scivolo (non si era fatta poi molto male) “tutti a darle contro: Zia Giusta che mi dava uno schiaffo dicendo: “Cosa ti è venuto in mente a farle male? Dove l’hai visto? T’emu a donai una bella passada ‘e corpus…” Ti darei una bella passata di colpi, così disse. Così dicevano, i grandi: ti do una sussa, ti ndi segu su tzugu, t’ongiu una bussinada, ti spistiddu is murrus, t’ongiu una sprutzigada, t’arrogu a corpus, t’ongiu unu bungiu, ti strecu. Che sono molti modi per dire ti picchio, o ti spacco le labbra, o ti schiaccio” (pag.64). Tutte esagerazioni naturalmente, che si possono dire solo in sardo, in tacito accordo che nessuno vuole davvero “tagliare il collo” a una bimba, per quanto monella possa essere. Cugina Eleonora se ne era accorta subito di queste stranezze del sardo: “…non abbiamo il superlativo assoluto, per questo ripetiamo gli aggettivi. “Non ho capito”. Voglio dire che non esiste, per esempio, mannissimu, si rafforza ripetendo mannu mannu” (pag.93). Un altro esempio: si parla di andare in gita scolastica a Oliena. “Ih! Acanta!” “Perchè, è lontano?” “Ih! Attesixeddu!” Acanta vuol dire vicino, atesu lontano. Dire così, acanta!, in realtà stai dicendo che è lontano, un’antifrasi, dice Eleonora. “Nella nostra famiglia tutto quello che non è Campidano era lontano. Il Sulcis andava bene, l’Oristanese andava bene, ma già se ti dovevi spostare nell’altra costa, tipo a Muravera, eri lontano (pag.99) Finiscono le elementari, è tempo di grandi rivincite, Mike Bongiorno fa un programma di bambini bravi a cantare, Remigia mette insieme e manda una cassetta con una canzone di Freddie Mercury”: “The Show Must Go On”, persino la sua insegnante di inglese l’aiuta a capire cosa lei va cantando a memoria. “Troppo toga” disse zio Stefano. “Un’esibizione che emana forza ma anche soavità” disse Eleonora, che quell’anno faceva la quarta elementare” (pag.105). Telefonano quelli di “Bravo Bravissimo”: “Castiàdda, prexiàda che puxi”: ero contenta come una pulce, una pulce che salta, non avevo compiuto ancora dodici anni e stavo per andare a Milano, con mia didina (leggi madrina) che era giovane e toga…quando c’erano bambini in paese che non erano andati nemmeno a Cagliari, che è a venti chilometri, nemmeno a comprarsi roba, a comprarsi roba andavano a Decimu o a Sestu” (pag110). Troppo buffa per non volerle bene, questa bimba che cresce in una famiglia tipica del sud Sardegna, circondata da un nugolo di zii e cugini, Paola Soriga ce la fa conoscere nelle sue paure e indecisioni, sembra accompagnarla per mano, scandendo il tempo del suo accostarsi alla maggiore età col ritmo dei suoi cantanti preferiti, persino Eros Ramazzotti le fa visita in sogno. Ne scrive anche Costantino Cossu sul “Manifesto” dell’11 agosto dell’anno scorso, titolo del “pezzo”: “Gli anni Ottanta e l’incanto innocente di Remigia”, da fine giornalista quale è coglie e mette in luce il contesto isolano che sottintende lo scandire della storia: “Remigia vive nel profondo di un’isola in cui la lontananza non è soltanto un dato geografico. E’ molto di più, un dato di cultura, carico di connotazioni antropologiche, e che però si contamina con lo spirito dell’epoca: il tempo in cui la mutazione del paesaggio antropologico italiano trova il suo definitivo compimento…”. La Sardegna cambia all’unisono con l’Italia, ma il suo cambiare è più doloroso, perché sono migliaia gli anni che si getta alle spalle, rinunciando alla sua lingua di sempre. Quando potrebbe benissimo crescere una popolazione bilingue con tutti i vantaggi cognitivi che questo comporta, anche in termini di salute mentale. Scrive Jared Diamond nel suo “Il mondo fino a ieri” (Einaudi, 2013). “ Lingue diverse comportano vantaggi diversi, per esempio il fatto che certi concetti ed emozioni sono più facili da esprimere in una lingua che in un’altra…la struttura di una lingua forgia il modo in cui il parlante di quell’idioma pensa, con il risultato che, passando da una lingua all’altra, si osserva il mondo e si pensa in maniera diversa… con la diversità dei loro suoni, delle loro strutture e delle loro modalità di pensiero, le lingue sono il prodotto più complesso della mente umana…con l’estinzione di una lingua, però, non si estingue solo la lingua stessa, perché in quella lingua sono codificate una letteratura e una cultura, nonché un’enorme conoscenza…(pag.408). Paola Soriga ha scritto questo bellissimo libro anche perché è bilingue ed esso sarà naturalmente più apprezzato da un lettore altrettanto bilingue, specie se nato nel Campidano. Che ne può cogliere sottigliezze preziose pressoché ad ogni pagina del testo. Una famiglia in cui la letteratura la fa da padrona quella dei fratelli Soriga, Paola e Flavio, ambedue molto attivi nel promuovere iniziative che la supportino, la facciano crescere: il festival di Gavoi, “Cabudanne de sos poetas” a Seneghe. Paola stessa ha esordito scrivendo poesia. E intriso di poesia è anche questo libro: in estrema sintesi: una bimba del sud della Sardegna, circondata da sardoparlanti, che (grazie alla sempiterna televisione) non può non essere afferrata anche dalla cultura pop italiana degli anni Ottanta e Novanta. Pur in questi marosi culturali riesce a nuotare con una leggerezza che ha dell’incanto, o almeno questo vuol farci credere Paola Soriga con una sua scrittura altrettanto leggera, condita da una malinconia che si confà all’età dell’infanzia, quando spesso ti trovi a piangere senza sapere perché.

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