GLI ALTRI SIAMO NOI: GIANNA FALCHETTO, INFERMIERA IN KURDISTAN, SIERRA LEONE, CAMERUN E AFGHANISTAN

di ANGELO SIRCA

Quando succede qualche tragedia o scoppia qualche guerra spesso ci si indugia a parlare di banalità del male. La storia giovane di Gianna Falchetto, infermiera orotellese poco più che trentenne, dimostra che se il male può essere anche banale non lo è mai il bene. Nel racconto di Gianna, l’abbiamo ascoltata durante un incontro organizzato nel suo paese dall’associazione Festina lente, emerge che siamo tutti precari e indispensabili a un tempo, perché “Nel semplice incontro di un uomo con un altro uomo – come scrive E. Levinas – si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’epifania del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro”.

Cosa ti ha spinto a un certo punto a lasciare il tuo lavoro in Sardegna e partire? «Sin da quando mi sono laureata ho sempre desiderato lavorare in paesi bisognosi. Leggevo i libri scritti da Gino Strada, seguivo le notizie online o in tv sul lavoro che veniva svolto dalle ONG, mi emozionavo e non desideravo altro. Quindi, una volta capito quali erano i requisiti necessari per poter lavorare con le organizzazioni umanitarie, mi sono concentrata su questo, migliorando le mie competenze fino al raggiungimento del mio obbiettivo.  Finalmente, nel 2016 ho potuto fare la serie di colloqui necessari e ho iniziato la mia nuova avventura». 

La tua prima esperienza quand’è stata? «Nel Kurdistan iracheno, tra Sulaymaniyya e Kalar, e ci sono rimasta per un anno e mezzo, dal 2016 al 2018. Il Kurdistan era un paese in guerra. Noi gestivamo 6 cliniche nei campi dove vivevano rifugiati siriani, iracheni, e gli Yazidi. Nelle nostre cliniche offrivamo assistenza primaria alle persone che vivevano nei campi, garantendo alte qualità di cure gratuite a chi ne aveva bisogno. I pazienti venivano curati nelle cliniche, ma avevamo anche un sistema di ambulanze che ci permetteva di trasportare i pazienti più gravi negli ospedali più vicini».

Come ti sei trovata? «Lavorare in paesi estremamente poveri, devastati dalla guerra o dalle malattie è completamente diverso da lavorare in un ospedale in Italia. Soprattutto i primi mesi della mia prima missione è stato un po’ complicato. Per esempio, avevo sempre lavorato con pazienti adulti e li invece curavamo tutti, quindi anche bambini e neonati. In più ci sono tante malattie che da noi non esistono, quindi bisogna studiare continuamente. In più occorre anche capire le regole dell’organizzazione, studiare le linee guida, etc. Con l’impegno, lo studio e l’aiuto dei nazionali, sono sempre riuscita ad andare avanti senza troppi problemi. Si impara a gestire determinate situazioni solo quando le si vive. Ma è sempre fondamentale avere un bel rapporto con lo staff, perché si lavora in gruppo e mai da soli».

Quando dicevi che eri sarda o italiana che reazioni avevi? «Molto spesso essere italiana era ben visto dai nazionali. Ci sono dei personaggi, come Gino Strada, Alberto Cairo e altri, che hanno fatto cose immense in giro per il mondo, e grazie a loro e al loro impegno che noi italiani veniamo visti come un popolo di gente coraggiosa e determinata». 

Hai trovato dei tratti comuni fra il Kurdistan e la Sardegna? «Per me stare in Kurdistan è stato un po’ come stare a casa. Sono testardi, orgogliosi e determinati. Diffidenti all’inizio, ma quando decidono di fidarsi sono capaci di darti l’anima. Ovviamente se tradisci la loro fiducia, è finita. Insomma, un po’ come noi!».
A quali progetti hai partecipato in Sierra Leone e Camerun? «Dopo il Kurdistan, nel 2019, ho iniziato a lavorare con Medici Senza Frontiere. La mia prima missione è stata in Sierra Leone, uno dei paesi più poveri del pianeta con il tasso più alto di mortalità infantile al mondo. Il colonialismo, il colera, la guerra civile, l’Ebola, le malattie tropicali, non hanno mai dato un attimo di pace al paese e alla gente che ci vive. Inoltre la presenza dei diamanti e risorse minerarie attirano ancora tanta gente con pochi scrupoli. In Sierra Leone ero l’infermiera internazionale di un progetto a Kenema, un paese in mezzo alla giungla. Facevamo supporto a 3 cliniche dove facevamo assistenza primaria (inclusa la parte vaccinazione e assistenza pre e post partum alle donne incinte), malnutrizione e assistenza nei villaggi. Durante la settimana, sempre con il team delle cliniche, partivamo con le nostre macchine cariche di farmaci e attrezzatura medica, e andavamo a fare assistenza nei villaggi in mezzo alla foresta. Poi a gennaio del 2020 sono partita per il Camerun, destinazione Kumba. Mi trovavo nella parte anglofona, dove da qualche anno è in corso una guerra civile. Questa guerra ha portato all’impoverimento dell’area, insicurezza, la chiusura delle scuole. A Kumba supportavamo 3 ospedali, uno presbiteriano, uno privato e uno pubblico, in più avevamo un sistema di decentralizzazione delle cure. Questo significa che il nostro personale veniva istruito nella gestione di malattie come per esempio la malaria, e potevano curare la gente nelle aeree dove vivevano, aree inaccessibili per noi. Oppure con l’inizio della pandemia, abbiamo supportato il governo nell’apertura di un ospedale CoVid.  Mi sono occupata di fare lezioni su lezioni al nuovo personale che doveva lavorare nell’ospedale, insegnandogli ad utilizzare le apparecchiature biomedicali, le linee guida sul covid e igiene, vestizione e svestizione, gestione del paziente critico, ect».

Si dice che gli africani siano popoli allegri, è vera quest’affermazione o le loro manifestazioni esteriori sono solo un modo per dissimulare la tristezza? «Uno dei popoli più allegri che abbia mai conosciuto sono di sicuro i sierraleonesi. I quali amano ballare, cantare e scherzano sempre. Quando andavamo a fare assistenza nei villaggi o durante le sezioni di malnutrizione, i messaggi di prevenzione alla salute venivano trasmessi con il canto e il ballo, e tutti venivano coinvolti».

Quando ti è stato proposto di andare in Afghanistan? «Ad Agosto del 2020 , destinazione  Lashkar Gah. Era un po’ il mio sogno, era da tempo che volevo andarci. È stato un anno intenso per mille motivi, ma mi ha dato tantissimo».

I giorni del Covid? «In realtà il Covid non era uno dei problemi principali. Durante l’anno abbiamo affrontato altre due epidemie, una chiamata malattia di Gurlan e una di morbillo. La prima è una malattia mortale, dovuta all’intossicazione di un fungo che contamina il grano. Quando questo o i suoi derivati vengono ingeriti, provoca cirrosi epatica e ascite. È una malattia incurabile. L’insicurezza del paese non permetteva di poter fare campagne di vaccinazione e non permetteva ai civili di raggiungere gli ospedali per poter ricevere la vaccinazione. L’ennesima conseguenza della guerra. Un’altra malattia endemica in Afghanistan è la febbre emorragica Crimea-Congo. Una malattia simile all’ebola. Anche questa veniva gestita nel nostro ospedale.
Poi verso fine maggio anche il numero di casi CoVid iniziò ad aumentare, ma poi l’intensificarsi dei combattimenti, la fuga delle persone verso altre città, hanno eliminato tutte le altre problematiche incluso in Covid, e l’unico grosso problema era quello di sopravvivere ai combattimenti».

Un ricordo particolare di queste tue esperienze. «In Kurdistan nel 2017 a causa di alcuni combattimenti, avevamo ricevuto in uno dei campi dove si trovavano i rifugiati curdi, dei nuovi rifugiati iracheni. Le diverse organizzazioni che si occupavano della sicurezza e della gestione del campo avevano paura che ci potessero essere degli scontri tra i due popoli, in quanto “nemici”. Per evitare questo, volevano dividere il campo in due parti, una parte per i curdi e una per gli iracheni. Quando le persone del campo hanno saputo di questa decisione hanno protestato perché non volevano essere divisi: avevano subito gli stessi dolori e avevano affrontato gli stessi lutti».

Cosa ti manca, se ti manca qualcosa, quando sei in questi luoghi? «Beh ovviamente mi mancano la famiglia e gli amici. Lavorare in posti così lontani non mi permette di tornare a casa ogni volta che voglio. Sicuramente WhatsApp e le videochiamate aiutano».

Come riesci a gestire la paura senza venir meno al senso del dovere? «Ho la fortuna di non lasciarmi trascinare dalla paura. Per esempio, in Afghanistan, durante il periodo dei combattimenti più intensi, sapevo benissimo che non potevo cambiare la situazione attorno a me, ma sapevo che potevo fare del mio meglio per gestire l’ospedale. Quindi mi sono concentrata su quello che potevo fare per migliorare la situazione, dimenticando la paura. Ciò non significa che le emozioni non si ripresentino dopo l’orario di lavoro».
Sai già la prossima destinazione? «Non ancora. Attendo con ansia di saperlo, ma sicuramente avverrà l’anno prossimo».

A chi volesse intraprendere il tuo percorso cosa consiglieresti? «Fatelo. Non serve pensarci troppo. È un’esperienza che ti riempie la vita e la consiglierei a tutti. Ne vale davvero la pena».

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