IL “DONO” DI FAR RIDERE: MASSIMILIANO MEDDA RACCOGLIE IN UN LIBRO LE PRIME COMMEDIE DEI LAPOLA

di NICOLA MUSCAS

Basta accendere un microfono o una telecamera o mettergli un pubblico di fronte, e Massimiliano Medda ti dà la sensazione che qualcosa stia per accadere. Braccia conserte, ti guarda sornione, con la prontezza di chi, quando prende la parola, è capace di preparare in tempo reale una situazione scenica che in breve tempo porterà a una risata.

Quell’energia tipica del bravo capocomico cha da sola riempie la scena, quel suo modo di essere mattatore generoso, pronto a cavare il meglio da chi gli sta accanto sul palco. Lui – ex timido – si schermisce e lo chiama «un dono». Ma è più corretto dire, semmai, che è un dono affinato in 35 anni di piazze, cabaret, teatro, televisione. Perché il talento è un muscolo che va allenato, sempre.

Leader e autore del gruppo teatrale Lapola, Medda arriva in libreria con Speriamo che lo compri qualcuno, un libro edito da Janus che raccoglie le prime commedie in cagliaritano della compagnia più amata della Sardegna. Insieme ai vecchi testi, il volume contiene le prefazioni dei Lapola, di Francesco Abate, don Mario Cugusi, Rossana Copez e Giovanni Follesa.

Ma non è un libro di aneddoti, non c’è dentro la storia del gruppo, è piuttosto la traccia di un pezzo importante del teatro sardo contemporaneo, una ventata di aria fresca figlia di una contaminazione tra la commedia dialettale e il cabaret, tra Massimo Troisi e i fratelli Medas.

Massimiliano, partiamo dal titolo: Speriamo che lo compri qualcuno.  È legato al nostro primo spettacolo: Speriamo che venga qualcuno. Era il 1991, non più varietà ma tre atti unici. Era il primo tentativo di allargare la platea dei soliti amici e parenti.

E come andò? Tre mesi di repliche al vecchio teatro di Sant’Eulalia, Cagliari, quartiere Marina, 180 posti sempre pieni il venerdì, sabato e domenica.

Che effetto fa rileggersi dopo oltre trent’anni? Mi riporta a un periodo molto bello, i nostri vent’anni. Ma mi fa anche rendere conto che quei testi sono ancora attuali.

In che modo? Sarà che in Sardegna non è cambiato niente, abbiamo sempre gli stessi problemi: le strade incasinate, la continuità territoriale che non funziona. Cambiano solo i nomi dei presidenti della Regione.

Eppure non è solo una questione di contesto. Nell’ultima tournée prima del covid abbiamo riproposto, tra gli sketch di cabaret, qualche vecchio pezzo teatrale, ad esempio il dialogo tra la statua di Carlo Felice e la Statua della Libertà. La gente ha riso come trent’anni fa. È anche per questo che è arrivata l’idea di raccogliere i testi in un libro.

Ovvero? È un modo per lasciare un segno, mi piacerebbe che altre compagnie avessero la possibilità di portare in scena quegli spettacoli, farne una loro versione. Nel 2016 lo ha fatto una compagnia di Gonnostramatza, con la nostra parodia di Otello, hanno avuto un ottimo riscontro, vincendo anche dei premi.

La risata è una reazione chimica, eppure resta ancora una sorta di mistero. Cos’è che ti faceva ridere? Da ragazzino mi ricordo le battute fulminanti dei personaggi del quartiere. Mi sembravano meccanismi che potevano funzionare. La scommessa è stata quella, introdurre negli spettacoli quella parlata che a me divertiva.

immagine del 1983

Parliamo appunto della lingua: il cagliaritano, considerata la meno nobile tra le parlate sarde. Voi la utilizzate in un periodo, gli anni ’90, in cui i genitori quasi ne proibivano l’utilizzo in casa.
Il cagliaritano era stato un po’ messo da parte, non c’era una compagnia in città che lo utilizzasse. Noi avevamo provato a cimentarci con i testi di Antonio Garau, che erano molto belli ma che non sentivamo nostri. Poi in quegli anni uscì Phraseologia karalitana, un libro umoristico che ebbe molto successo. Noi intercettammo quel bisogno, riempimmo un vuoto.

Eppure il successo arriva in tutta la Sardegna.  Il nostro cagliaritano alla fine si capiva dappertutto, piaceva il suo essere scanzonato, divertiva il suo essere molto diretto, ironico, a volte brutale. E le caratteristiche della lingua riflettevano i nostri punti di forza, che erano la spontaneità, l’ingenuità, la freschezza. Io ho sempre scritto per gli attori del gruppo, pensando a Daniele, Massimo, Stefano, Marco e tutti gli altri. Al loro modo di essere e di stare in scena. È quello che ci consente di stare ancora insieme. 

Trentacinque anni, come si fa? Abbiamo trovato degli equilibri interni che ci hanno permesso di andare avanti. Non ci siamo mai montati la testa, nessuno ha mai avuto velleità di fare le cose da solo. Ci divertivamo e ancora ci divertiamo a farle insieme. E non era scontato, tieni presente che negli anni ’90 quasi ogni estate c’era uno spettacolo nuovo.

E non vi è mai venuta voglia di tornare al teatro, a quel tipo di scrittura? A un certo punto abbiamo avuto la sensazione di aver detto tanto, forse tutto, con le commedie in cagliaritano. Era arrivato il momento di sperimentare e in questo la televisione e il cabaret, dal 2004, sono stati un bel laboratorio che ci ha anche dato modo di lanciare nuovi talenti.

Dopo decenni di successi il ritorno a casa, il teatrino del quartiere, alla Marina. Esatto, siamo tornati sul luogo del delitto per la prima presentazione di questo libro, sul palco del Sant’Eulalia, insieme a don Mario che in quegli anni ha fatto tanto per la ripresa delle attività culturali in quartiere, Francesco Abate che scrisse il primo articolo sul nostro gruppo per L’Unione Sarda, e con tutti i Lapola al gran completo. 

Una platea oggi di novanta posti che non si fa fatica a immaginare andranno presto occupati. L’ultimo chiuda la porta, anzi: «Sa porta!». 

#tiscali.it

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