REGINA NURAGICA, DIVA, DONNA: LE PAROLE DI ALBERTO MANCINI, COMPAGNO DI VITA DI MARIA CARTA

Maria Carta

Ho incontrato Maria nel ’78 a Roma, quando era già una diva, suo malgrado. Non amava la mondanità e viveva soprattutto nel suo mondo interiore. Aveva già inciso i dischi che raccoglievano tutto il repertorio di canto sardo, il disco di canti politici e Dies Irae, il suo monumento di canti religiosi; aveva recitato per Zeffirelli nel Gesù di Nazareth, per Coppola nel Padrino, per Rosi in Cadaveri eccellenti, con Franco Enriquez in Medea; aveva già scritto Canto rituale, il libro di poesie dal quale emergeva il suo mondo interiore legato profondamente alla cultura della sua terra di cui era – ed è – ambasciatrice prestigiosa.

Non racconterò della diva e dalla sua costruzione, racconterò la donna che ho incontrato e il pezzo delle nostre vite percorso insieme. Maria era soddisfatta di quello che aveva fatto in poco tempo; eppure un velo di tristezza colorava i suoi occhi profondi, anche quando appariva sorridente; erano le ombre della sua infanzia, dei retaggi della cultura sarda, del suo essere donna non compiuta nella sua interiorità.

Il nostro amore scoppiò in modo intenso, immediato e lei ne ebbe quasi paura; temeva che l’incontro con un uomo più giovane l’avrebbe esposta ad un rumore mediatico e disturbata nella sua intimità e riservatezza di donna sarda.

Eppure come donna sentiva quel salto obbligatorio. Uscimmo da quel mondo dello spettacolo che era stata la sua vita per costruire la nostra storia in modo intimo e semplice, senza i rumori del mondo esterno.
Nell’autunno del ’78 usci il suo album Umbras, nel quale incise Non poto reposare, bandiera del nostro amore e simbolicamente porta della sua nuova vita.

La costruzione della nostra storia, e forse i mutamenti sociali di quegli anni, segnarono un rallentamento della sua vita nel mondo dello spettacolo; il suo personaggio di donna radicata in una cultura antica che lei voleva far conoscere al mondo nella sua complessità, ma anche nella sua durezza, non ne fu comunque scalfito. Maria amava la sua terra, ma nel contempo non poteva accettarne alcuni aspetti e meccanismi radicati come quelli che regolavano la vita di una donna, specialmente come lei, nata povera e con un grande orgoglio, dignità e rigore morale. Il rapporto con la Sardegna era comunque molto complesso; pur sapendo di essere amata dalla gran parte del suo popolo, soffriva gli atteggiamenti velati di chi l’accusava di usare a proprio vantaggio il patrimonio culturale sardo.

Dal ‘78 all‘84 non fece concerti in Sardegna, almeno di una qualche importanza. Il rapporto con la sua terra passava attraverso quello con la sua famiglia. Lunghe telefonate nelle quali era come se vivesse all’interno di quel nucleo, rispettandone i singoli ruoli: quello di suo fratello maggiore, l’uomo della casa, l’autorità morale; quello di sua sorella maggiore, donna semplice, buona e generosa; lei rappresentava tutto quello che Maria avrebbe potuto essere se non avesse scelto una vita diversa; la sorella minore che voleva proteggere e alla quale intimamente chiedeva di emanciparsi ed essere la donna moderna che lei stessa avrebbe voluto essere in quella terra che anni prima non glielo aveva concesso. Infine il rapporto con sua madre: piccola grande donna, che con dolcezza, ma carattere granitico, aveva cresciuto i suoi figli amandoli tutti incondizionatamente ed essendone profondamente ricambiata.

A lei telefonò quando si rese conto di aspettare nostro figlio; gioia, stupore, paura attraversavano i suoi pensieri, ma intimamente era felice e bella. Nacque David, nome per noi simbolico; auspicavamo di aver messo al mondo un uomo giusto e forte, come lei avrebbe voluto fossero tutti gli uomini, specialmente i sardi. La sua nascita provocò scompiglio; ci si accorse che Maria non era solo un’icona culturale, ma anche una donna.

A Natale del 1980, Maria fece a ritroso, in nave, il viaggio che l’aveva vista partire con dolore per il continente tanti anni prima. Portava suo figlio e quando apparve il profilo della sua terra fu per lei, e ovviamente anche per me, un momento di nuova intensità ed emozione.

Abbracciò tutta la sua famiglia che aveva così accettato la gioia che si era concessa, uscendo per un attimo dal suo personaggio. Essendo a modo suo anche molto religiosa e legata alla sua piccola comunità, andammo alla Messa di Natale; nella chiesa, gremita ed in profondo silenzio, intonò a voce sola Adeste Fideles; i muri della chiesa vibrarono e lei volle forse annunciare così la nascita di suo figlio.

A volte, nei brevi soggiorni a Siligo, andavamo a trovare Gavino Ledda, dirimpettaio di sua madre; Maria mi diceva di non amare l’immagine che dava della donna sarda in Padre Padrone, a suo giudizio troppo sottomessa e succube di un uomo violento e duro.

Un rituale di sardità si celebrava ogni tanto a casa nostra a Roma con menù a base di favette col guanciale e finocchietto selvatico, a tavola con Nuccio Pirastu, Peppino Fiori, Gianni Agus e le loro consorti.

L’anno dopo insieme e con la collaborazione di Herbert Pagani, che viveva a Parigi, iniziò l’avventura francese; Maria non poteva credere che i suoi canti ed il suo personaggio potessero essere accolti e amati in quella terra. La prima prova fu un invito del regista Frederic Rossif, che stava preparando un film sulla vita di Jacques Brel, a cantare Ne me quitte pas: andammo nella sala di registrazione e alla fine del pezzo avevamo tutti gli occhi lucidi, compreso Frederic. Non ho mai saputo se il pezzo sia stato poi utilizzato nel film, ma per Maria cantare quel brano fu una enorme fatica emotiva, che però le diede un immenso coraggio e forza: era entrata nel circuito culturale francese. Arrivò poco dopo la grande occasione: una settimana al Teatre de la Ville, nel cuore di Parigi. Maria chiese al coro di Bitti di accompagnarla per cantare un pezzo durante il suo concerto di un’ora; Daniele, Salvatore, Tancredi, Pietro, proiettati da Bitti a Parigi come protagonisti resero quell’esperienza indimenticabile; la loro semplicità e purezza umana resero Maria felice di aver presentato ai francesi il monumento della sua cultura sarda.

I francesi, dopo i parigini, furono entusiasti; seguì la pubblicazione di un disco con Chante du Monde ed una tournee in molte Maison de la Culture, che la portò in giro per tutta la Francia, ed i concerti al Printemps de Bourges e all’Olympia di Parigi. Era arrivato il momento di tornare a cantare in Sardegna; organizzammo un concerto al Teatro Verdi di Sassari, ripreso da Rai 3, cui ne seguirono altri con altre opportunità artistiche.

Negli anni successivi alla nostra separazione non abbiamo smesso di stimarci e volerci bene, fino agli ultimi quindici giorni della sua vita, che ho trascorso con lei, ormai provata dalla malattia, e con nostro figlio.
Non sono mancati i dissidi e le incomprensioni, ma sono felice di averla amata; a volte ho il rimorso per aver turbato la sua vita di regina nuragica ed averla spinta a dare voce alla sua profonda interiorità di donna.

Quello che Bianca Pitzorno, amica stimata e amata, che aveva contribuito alla pubblicazione di Canto rituale, scrive di Eleonora d’Arborea, credo che si adatti anche a Maria: “Fedele al suo stile, la nostra eroina è uscita in punta di piedi, senza clamore, senza una battuta finale da tramandare ai posteri dal palcoscenico della vita e della nostra storia.”

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Un commento

  1. Che bella descrizione di una donna eccezionale, una delle più grandi artiste che siano mai vissute!

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