ISPIRATA A UNA GIOVANE SARDA LA “FOSCA” CHE DÀ IL TITOLO AL ROMANZO (1869) DI IGINO UGO TARCHETTI. MORTO L’AUTORE, L’AMICO SCRITTORE SARDO SALVATORE FARINA STESE LE PAGINE FINALI DELL’OPERA, PUBBLICATA A PUNTATE IN APPENDICE

di PAOLO PULINA

Igino Ugo Tarchetti nacque il 29 giugno 1839 a S. Salvatore Monferrato (Alessandria). Concluso il Liceo, si arruolò nell’esercito. Nel 1861 fu dislocato al Sud in un reggimento impegnato nella lotta al brigantaggio. Trasferito al Nord, nel 1865 ebbe una travolgente passione d’amore con Carlotta Ponti, documentata da varie lettere del suo epistolario.

Scrive Francesco Giarelli, in “Vent’anni di giornalismo” (Codogno, Tip. Cairo, 1896): «Grazie alla scoperta dei carteggi, possiamo dire che questa focosa relazione sentimentale appare molto vicina a quella che il protagonista del romanzo “Fosca” vive con Clara, a tal punto che si pensò ad una reale e coerente trasfigurazione narrativa del periodo caratterizzato da questo forte legame passionale. […] L’affetto per la bellissima Clara, una sposa milanese che aveva a propria disposizione la onnipotenza del fascino, fa capolino nel racconto “Riccardo Waitzen”, e s’impersona poi integralmente nel personaggio appunto di Clara che così sovranamente campeggia nel romanzo  “Fosca”. Nulla di più strano dell’inizio  [nella realtà, NdR] di quella passione. [Nell’aprile 1865] Tarchetti, recandosi a Milano a visitare un amico, sbaglia d’uscio. Gli viene ad aprire una formosissima Clara. Vedersi e sprigionarsi fra i due la estemporanea scintilla della simpatia, fu tutt’uno. Tarchetti, fatto conscio dell’errore, geme una scusa. L’altra arrossisce come una pesca primaticcia, e confusa chiude rapidamente l’uscio alle spalle del visitatore. Maledizione!

Tarchetti fa per andarsene. Non può. Il lembo del suo abito rimane serrato nella fessura della porta. Suona daccapo. Ricompare la bella, e Igino è finalmente liberato da quella strettoia. Il giorno dopo lavora la posta. Lui vuota il suo cuore. Essa risponde. Si amano. Se lo scrivono. Se lo ripetono a voce nei secreti e fidati colloqui. Escono insieme. Erravano nelle campagne suburbane fuori porta Magenta. Si fermavano ad un ponticello sul Seveso. Passavano ore deliziose dentro un baraccone disabitato laggiù in un’ortaglia solinga.  Tubavano come tortore. Eran diventati inseparabili. Tutta questa delizia durò sette mesi.

Il 9 novembre del 1865 Iginio Ugo Tarchetti fu richiamato in servizio e destinato a Parma. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore – è il vecchio proverbio che ha sempre ragione. Egli si intiepidì. Una lettera di lei – poi riprodotta mirabilmente ed artisticissimamente nel romanzo “Fosca” – spense la fiammella ancora vagante […]».

***

A Parma lo scrittore incontra una certa Angiolina (o Carolina) che sarà la “Fosca” dell’omonimo romanzo.

Leggiamo ancora quanto scrive Francesco Giarelli nel sopra citato volume di memorie “Vent’anni di giornalismo” pubblicato, come si è detto, nel 1896.

«È una cugina del padrone di casa [un colonnello, superiore militare di Tarchetti, NdR], malata di epilessia e prossima alla morte. È Fosca, cioè a dire Carolina (o Angiolina) Co… una giovane sarda che si prese per l’ospite di una passione forsennata e tremenda. Dapprincipio egli non se ne accorse. Era ancora protetto dall’angoscia profonda per la rottura con la bellissima Clara. Poi, quando s’avvide della triste realtà; quando, malgrado le sue riluttanze disperate, capì che aveva inspirato un affetto così pericoloso ad una povera epilettica; quando fu travolto nell’abisso delle sue tenerezze e de’ suoi furori di donna dai nervi disordinati, e già assalita da una spietata malattia, […] Ugo sentì –  nel tumultuario combattimento interno della pietà coll’orrore – montargli la disperazione dal cuore al cervello; e mentre egli s’ostinava a fare l’elemosina d’un affetto fraterno alla sventurata fanciulla, questa gli imponeva la sua furibonda passione di innamorata pronta a tutto fuorché a perderlo. Essa lo afferrava per le mani. Essa lo inondava colle sue trecce colore dell’ebano. Essa esercitava sopra di lui la tremenda attrattiva del sepolcro. Quella moribonda s’era gettata su lui vivo e lo stringeva e lo soffocava col suo sentore di tomba. Essa – ormai scheletro in abito di seta, colle apofisi che le uscivano dal corsetto – non poteva rassegnarsi all’idea che egli avesse da sopravviverle. E così fu. Quando Tarchetti lasciò Parma era troppo tardi: già nel sangue gli serpeggiava la morte. […] La conclusione è che la signorina Angiolina Co…, è ancora viva. […] Fosca ha resistito. Tutti gli anni al custode del cimitero monumentale di Milano – dove dorme nella pace eterna Iginio Ugo Tarchetti – perviene dalla Sardegna una splendida corona di fiori “immortali” freschi. È Fosca che l’invia per lui».

Scrive Francesca Santucci nel sito http://www.letteraturaalfemminile.it/fosca.htm :  «Nel finale della finzione letteraria, l’uomo, sconfitto, soccomberà alla passione precipitando così nella disperazione, e la donna s’avvierà a spegnersi, tuttavia felice per aver appagato la sua ossessione amorosa. Invece, nella realtà, Ugo fu trasferito da Parma a Milano, dove poi consumò gli ultimi tre anni della sua vita tra la frenetica attività letteraria, le precarie condizioni di salute e le difficoltà economiche; Carolina/Angiolina ritornò nella nativa Sardegna, non lo rivide mai più, ma non lo dimenticò fino alla fine dei suoi giorni».

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In effetti, Tarchetti, dimessosi definitivamente dall’esercito, aveva trascorso a Milano i suoi ultimi anni inseguendo la propria vocazione di scrittore e giornalista, pubblicando articoli, romanzi, racconti e poesie. Fu in contatto con gli ambienti della Scapigliatura e strinse una particolare fraterna amicizia con lo scrittore di origine sarda Salvatore Farina (Sorso, SS, 10 gennaio 1846 – Milano, 15 dicembre 1918).

Malato di tisi, Tarchetti morì per una febbre tifoide il 25 marzo del 1869 (quindi a soli trent’anni) in casa dell’amico Farina. Fu sepolto al Cimitero monumentale di Milano. La fine avvenne ben prima di quella della malata Carolina/Angiolina, che gli sopravvisse e onorò la scomparsa del poeta mandando ogni anno, per il 2 novembre, fiori alla sua lapide.

A questo punto è doveroso, da parte mia, precisare che le citazioni delle intriganti rimembranze con le quali Francesco Giarelli ricostruisce gli amori di Tarchetti fra due donne che più diverse non avrebbero potuto essere (basta vedere come le ha “ribattezzate” nel romanzo, secondo l’asse nomen/omen: Clara, da una parte, e Fosca dall’altra) le ho trovate nella tesi magistrale dal titolo “Il potere seduttivo del corpo malato: dall’isteria all’anoressia. Un caso letterario: ‘Fosca’”, discussa da Stefania Nardi (relatore il prof. Alessandro Cinquegrani), nell’anno accademico 2014 -2015, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, a conclusione del Corso di Laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana (il testo integrale della tesi è leggibile al seguente link:

http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/6605/835489-1173836.pdf?sequence=2

Dalla tesi riporto quanto Stefania Nardi scrive sulla generosità del grande amico sardo di Tarchetti, cioè lo scrittore Salvatore Farina.

«L’ultimo lavoro al quale si era dedicato Tarchetti, forse il più significativo e ricco di elementi autobiografici, avrebbe visto la luce incompiuto, per la sopraggiunta morte dell’autore, e solo in seguito Salvatore Farina avrebbe rivelato il segreto del capitolo XLVIII, capitolo che Tarchetti non aveva ancora elaborato quando consegnò a Leone Fortis il manoscritto di “Fosca”, in corso di pubblicazione nell’appendice del settimanale “Il Pungolo” e che avrebbe terminato di sua mano.

Nel volume “La mia giornata. Dall’alba al tramonto” (Torino, STEN, 1910, p. 148), Farina, dopo l’immediata convocazione da parte del Fortis, che lo invitava a concludere il romanzo, scrive: “Tornato a casa, tentai invano di farmi confidare dal morente che cosa si proponesse di dire nel capitolo mancante; egli delirando balbettò poche parole, poi si voltò sul fianco e cadde in sonno profondo. Per fortuna avevo corretto ogni giorno le bozze della ‘Fosca’ […]; mi accinsi con coraggio all’opera che doveva essere pronta per il domani, e nella medesima notte buttai giù quelle dieci pagine […]. Quel capitolo famoso è il XLVIII”. Invece in “La mia giornata. Care Ombre” (Torino, STEN, 1913, pp. 27-29), il Farina afferma di essersi dedicato alla stesura del capitolo dopo la morte di Tarchetti, specificando che “quel capitolo era, nella mente di Ugo, il solo pretesto a scrivere la ‘Fosca’; doveva essere la scena dolorosa, selvaggia, d’una notte intera passata con la protagonista isterica e brutta a fingere l’amore, e a costringere la repugnanza a non ribellarsi, ad accettare il delirio dei sensi e a corrispondervi, ubbriaco di pena lui, essa sola pazza di amore».

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4 commenti

  1. Una storia bellissima; esplora l’animo umano in lotta con la razionalità e ne mette a nudo la forza…. .

  2. interessante! bel lavoro con l’approfondimento delle ricerche bibliografiche

  3. Grazie mille Paolo, come sempre uno scritto esemplare e coinvolgente! 👏

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