LA STRAORDINARIA VITA E IL TALENTO PORTENTOSO DI JOYCE SALVADORI LUSSU, POETESSA PARTIGIANA E FEMMINISTA

Joyce Salvadori Lussu

di SARA MOSTACCIO

Poetessa, certo, e scrittrice, ma anche partigiana, capitano delle brigate Giustizia e Libertà e medaglia d’argento al valor militare, femminista, traduttrice, ecologista, attivista. E ancora non si esauriscono gli aggettivi per descrivere la straordinaria vita di Joyce Lussu.

Quando il padre andò a registrarne la nascita all’anagrafe l’impiegato rifiutò di darle il nome Joyce, troppo esotico, e poi come si scrive? Così fu chiamata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti ma in casa restò Joyce. Lussu lo divenne per matrimonio. Il nome era strano per un paesino delle Marche nel 1912 ma non così bizzarro visto che la famiglia aveva ascendenze inglesi. Il padre Guglielmo era figlio di un conte di Fermo, la madre Giacinta Galletti de Cadilhac figlia e nipote di garibaldini e aveva per madre la nobile e scrittrice inglese Margaret Collier.

Joyce è la terza e ultima figlia di una famiglia liberale che nel 1906 fa armi e bagagli, lascia le Marche e si trasferisce a Firenze. Guglielmo non accetta il fervore fascista del padre e si allontana dalla sua casa stringendo rapporti con il mondo intellettuale anglosassone. Lontano dagli agi dell’aristocrazia terriera marchigiana gli tocca lavorare: insegna a scuola, traduce, collabora a giornali inglesi. Vivono in una casa “abitata più dai libri che dai mobili”.

Ricominciamo l’inventario

senza farmi mettere in crisi

da chi mi dimostra che tutto quel che dico

e scandalosamente approssimativo

e che faccio del vocabolario

un uso piatto e abborracciato.

Posso usare soltanto parole

tra le quali mi sento a mio agio.

Posso soltanto parlare.

Perciò parlo.

L’antifascismo gli procura non pochi problemi specialmente dopo aver pubblicato su alcune riviste inglesi articoli apertamente critici su Mussolini. Le intimidazioni si fanno più violente e culminano in un pestaggio squadrista che coinvolge sia Guglielmo che il figlio Max. Per allontanare la famiglia dalla violenza Guglielmo fa di nuovo i bagagli. Stavolta si trasferiscono in Svizzera, a pochi km da Losanna, e ci restano fino al 1934.

La situazione economica in esilio è precaria e non possono permettersi di pagare le costose scuole private così i ragazzi studiano a casa con l’aiuto dei genitori. Per un po’ frequentano una scuola alternativa, la Fellowship School, che si basa su principi di non violenza e di fratellanza tra i popoli dove si insegna solo su richiesta degli allievi e in più lingue diverse. Ma Guglielmo desidera che i suoi figli abbiano una cultura italiana, è convinto che la residenza in Svizzera sia solo temporanea. Così Joyce si prepara da privatista e torna in Italia per sostenere gli esami da esterna, fino al diploma.

Negli anni svizzeri alla conoscenza di italiano e inglese aggiunge francese e tedesco e poi si trasferisce in Germania per studiare filosofia a Heidelberg dove insegna Karl Jaspers. Tra le aule universitarie vede i primi sintomi del nascente nazismo e l’atteggiamento degli insegnanti che minimizzano la gravità degli avvenimenti la induce a lasciare gli studi per tornare in Svizzera dove prende contatto con le attività clandestine antifasciste. Completerà i suoi studi solo in seguito, prima alla Sorbona di Parigi, poi a Lisbona.

È a Ginevra che per la prima volta incontra Emilio Lussu, eroe della Prima Guerra Mondiale, famoso per l’audace fuga dal confino a Lipari insieme a Carlo Rosselli, padre della poetessa Amelia Rosselli. Si innamorano immediatamente ma lui non ha intenzione di impegnarsi vista la vita che conduce: è braccato dall’Ovra. Si rivedranno solo anni dopo. Nel 1934 Joyce sposa un ricco possidente fascista e nell’estate dello stesso anno si trasferisce con lui in Kenya dove il fratello Max ha avviato una fattoria, saranno soci. L’impresa fallisce, il matrimonio anche. L’Africa però Joyce non la lascia, si trasferisce invece a Tanganica dove si mantiene da sola lavorando. Si trattiene fino al 1938 viaggiando in diverse parti del paese e scoprendo da vicino la realtà del colonialismo.

In questi anni scrive i primi versi raccolti nel 1939 in Liriche a cura di Benedetto Croce che ne loda il talento. Al ritorno dall’Africa torna attiva nel movimento Giustizia e Libertà insieme al fratello ed è allora che incontra nuovamente Emilio Lussu, o mister Mill, instancabile organizzatore della resistenza degli esiliati. Stavolta non si lasciano più. Vivono e agiscono in Francia dove si concentra lo sforzo antifascista italiano e si sposano con una cerimonia civile che definiscono “socialista” di fronte a pochi amici. Quando nel 1940 Parigi viene occupata riparano a Marsiglia da dove organizzano partenze clandestine verso gli Stati Uniti. Emilio si occupa della logistica, Joyce falsifica documenti.

chi di voi dirà

siccome iersera mi amava

mi amerà?

chi andrà a fronte alta

sotto il sole alto

pensando all’altro

con la certezza solare

di saper amare

di saper farsi amare?

è sempre solo un baluginare

tremante ai margini del giorno

un tramontare un albeggiare

l’amore non ha mezzogiorno

Quando le cose in Francia si fanno più pericolose attraversano a piedi i Pirenei “passando davanti alla guerra mano nella mano” e raggiungono Lisbona dove entrano in contatto con i gruppi di resistenza statunitensi e con la Mazzini Society. A Lisbona Joyce riprende a studiare ma non abbandona l’attività clandestina. Anzi, quando Lussu viene convocato dal War Office inglese per concertare l’insurrezione italiana lei ne approfitta per frequentare un campo di addestramento fuori Londra dove impara a usare le armi e le tattiche di guerriglia.

Rientrati dall’Inghilterra tornano in Francia dove Joyce viene fermata dalla Gestapo subito dopo aver fatto passare il confine svizzero a due antifascisti. Se la cava solo grazie alla conoscenza del tedesco. In Italia torna subito dopo la caduta di Mussolini ed entra nella lotta partigiana. Nome di battaglia: Simonetta. Affrontando molti pericoli attraversa una Roma ancora occupata per raggiungere il Sud Italia già liberato e comunicare con gli Alleati. Ci riesce. Ancora non lo sa ma è incinta. Darà alla luce il figlio Giovanni nella Roma appena liberata nell’estate del 1944. Forse è nello stesso anno che scrive la celebre poesia Scarpette rosse numero 24. Racconterà poi questo periodo in Fronti e Frontiere pubblicato subito dopo la guerra nel 1946.

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

Schulze Monaco

c’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio di scarpette infantili

a Buchenwald

più in là c’è un mucchio di riccioli biondi

di ciocche nere e castane

a Buchenwald

servivano a far coperte per i soldati

non si sprecava nulla

e i bimbi li spogliavano e li radevano

prima di spingerli nelle camere a gas

c’è un paio di scarpette rosse

di scarpette rosse per la domenica

a Buchenwald

erano di un bimbo di tre anni

forse di tre anni e mezzo

chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni

ma il suo pianto lo possiamo immaginare

si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini

li possiamo immaginare

scarpa numero ventiquattro

per l’eternità

perché i piedini dei bambini morti non crescono

c’è un paio di scarpette rosse

a Buchenwald

quasi nuove

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole…

Dopo la liberazione la famiglia viaggia in Sardegna per visitare il piccolo villaggio di Armungia dove Lussu è nato. Joyce intende conoscere l’isola, le persone, le loro vite perciò se ne va in giro da sola a cavallo per ascoltare le storie dei pastori, dei contadini ma soprattutto delle donne. Organizza la partecipazione politica delle donne sarde nel 1951 e nel 1953 contribuisce alla fondazione dell’Unione Donne Italiane ma presto se ne allontana quando capisce che non è altro che un serbatoio elettorale, i partiti non danno seguito a una reale partecipazione femminile in politica. Lei stessa è insofferente nei confronti di chi la considera la “consorte di sua eccellenza” soprattutto visto che il loro rapporto è sempre stato paritario.

“Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello… che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anch’io. E in più, so fare anche un figlio.”

Trova la sua nuova dimensione nella lotta contro le oppressioni dell’imperialismo. Viaggia per tutta Europa con il Movimento Mondiale per la Pace e proprio durante un incontro a Stoccolma stringe amicizia con il poeta turco Nazim Hikmet di cui traduce le poesie. No, di turco non sa una parola ma sia lei che Hikmet sono convinti che l’essenziale non sia la lingua ma una medesima visione del mondo. Trovano il modo di intendersi in un francese condito da molti gesti.

“Il mio andare nel mondo ha sempre accresciuto la mia fiducia nell’essere umano. Avevo trovato troppe persone in troppi paesi molto diversi che erano esattamente come me. Queste persone avevano in comune con me le cose che più contano nella vita, anche se le più esterne potevano essere diverse.”

Tra il 1958 e il 1960 si impegna nella traduzione di molti altri poeti resistenti. Di (quasi) nessuno di loro conosce la lingua: traduce poeti albanesi, curdi, eschimesi, l’angolano Agostinho Nieto, il Diario dal carcere di Ho Chi Mihn, gli afroamericani del black power. Per lei tradurre significa far viaggiare le parole e continuare a far circolare i valori della Resistenza. Né i suoi poeti sanno chi sia Emilio Lussu perciò può essere solo se stessa, non la moglie di qualcuno.

“Fin da piccola i miei genitori avevano insegnato, sia a me che ai miei fratelli, che la nostra casa non era soltanto il pezzetto di terra dove abitavamo, ma l’intero pianeta era la nostra casa e nel contempo la casa di tutti, così ho pensato fosse bello e intelligente conoscere la mia casa e i miei coinquilini.”

L’impegno nella traduzione è politico. Non solo dà voce a chi racconta l’oppressione di un popolo ma in qualche caso approfitta del lavoro culturale per incontrare i carcerati e aiutarli a evadere, marciare con i guerriglieri, organizzare la fuga della moglie di Hikmet con il figlio. Attraverso il poeta turco viene a conoscenza della questione curda e riesce persino a raggiungere il Kurdistan iracheno con uno speciale lasciapassare del presidente. Lì incontra la resistenza dei peshmerga e il popolo “costretto a vivere da straniero nel suo territorio” (come lo definisce nell’autobiografia Portrait).

La poesia

è una bugia

che sembra più vera del vero

più vera della politica

della psicologia

e anche della matematica

è una menzogna

detta con estrema convinzione

e passione

uno specchio trasparente

fragilissimo e deformante

che appare solido come la tavola

cui s’aggrappa il naufrago

un catarifrangente

notturno che brilla solo se lo illumini coi fari

e subito sparisce nel buio.

Nel 68 sostiene le proteste studentesche, si avvicina all’ecologismo e prende parte alla lotta femminista degli Anni 70 pur senza risparmiare le critiche. Joyce ritiene che il femminismo di quegli anni si concentri troppo sul corpo e sulla sfera privata e poco su una dimensione più globale. “Dire che dovremmo solidarizzare perché abbiamo tutte una vagina, è un’insensatezza, in quanto prescinde da ogni collocazione storica e politica.” È anche convinta che sia necessario scrivere una storia delle donne, troppo escluse dalla Storia. Perciò comincia lei con L’uomo che voleva nascere donna. Diario femminista a proposito della guerra in cui racconta il ruolo delle donne nel conflitto e nel suo esito. Di questioni femminili si occuperà in molti altri libri.

Alla morte di Emilio lascia Roma per tornare nel paesino di famiglia a San Tommaso delle Marche. Non si ritira però dall’impegno. Si interessa invece alla storia locale, alla questione agraria, alle tradizioni popolari, al sapere femminile. Ma non accademicamente, preferisce un contatto diretto con la cultura materiale, come aveva fatto in Sardegna tra le donne della Barbagia. Nel 1976 esce il libro Padre, padrone, padreterno con un sottotitolo che anticipa il contenuto: Breve storia di schiave e matrone, villane e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone.

La luna si è rotta.

Si è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo

squallidamente

come cinque cocci di scodella.

Era una luna piena e luminosa

Che aveva un’aria abbastanza felice.

Lì per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti

artificiali l’avessero offesa in qualche modo.

Ma poi ho capito ch’era tutta colpa mia.

La guardavo fissamente con pensieri tristissimi e scomodi

e tutt’a un tratto – trac – si è rotta in cinque pezzi

quasi senza rumore.

Certo sono i miei pensieri che l’hanno urtata

in un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.

Questi pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata

e la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male.

Quando muore a Roma il 4 Novembre 1998 ha già perso Emilio da molti anni e da molti anni porta avanti l’impegno con le scuole convinta che offrire il proprio racconto del passato possa fornire un’occasione di riflessione alle nuove generazioni che definisce il suo “futuro vivente”.

Chi ha detto che la vita è breve?

Non è vero niente

La vita è lunga quanto le nostre azioni

generose

quanto i nostri pensieri

intelligenti

quanto i nostri sentimenti

disinteressatamente umani.

La vita è infinita.

#ELLE

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Un commento

  1. Joyce ❤❤❤❤❤❤

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