IL CARCERE ALTERNATIVO MINORILE: DON ETTORE CANNAVERA E “IL MIRACOLO” LA COLLINA DI SERDIANA RACCONTATI DA SERGIO ABIS

don Ettore Cannavera

di SERGIO PORTAS

Scrive Giacomo Serreli sulla sua “Boghes e Sonos”, quarant’anni di musica extracolta in Sardegna (Scuola Sarda Editrice) a proposito del “rocker” cagliaritano Jo Perrino: “Jo Perrino and the Mellowtones, possiamo considerarla a tutti gli effetti la più importante band emersa nella scena del rock indipendente isolano, l’unica che sia riuscita ad affermarsi anche oltre il Tirreno…siamo nell’ottobre del 1984” (pag.213). Ne ha fatta di strada Perrino da quel primo, e anche scoppiettante, inizio, diciotto dischi sulle spalle e soprattutto un progetto tutto suo, estremamente originale,  il recupero di una tradizione musicale che nasce dalle patrie galere, dalle prigioni, cantando problematiche che hanno lo stigma dell’istituzione da cui derivano: sogni di libertà, cadute in inevitabili crisi depressive, difficoltà relazionali coi compagni di cella e gli agenti di custodia, desiderio di una rivalsa che non può che venire, seppure in un futuro sempre incerto (su You Tube molte delle sue canzoni). Patrizio Gonnella sull’ultima pagina del “Manifesto” del 3 aprile scorso gli dedica un articolone a titolo: “Canto Le Carceri Sarde”, Il viaggio etno-musicale di Jo Perrino dentro gli istituti penitenziali della Sardegna. E il libro di Sergio Abis, “Chi sbaglia paga”, con le lettere dei detenuti a don Ettore Cannavera. “Nelle storie cantate da Jo Perrino c’è l’intensità della vita trascorsa in prigione; non c’è dunque solo l’affresco di un mondo criminale sublimato a mondo perfetto, fondato sulla cultura machista della violenza. C’è anche lo sguardo antropologico alla vita di galera. Per questo il progetto musicale di Jo Perrino è anche una via attraverso cui conoscere le dieci carceri sarde con i suoi duemila detenuti. Finire in carcere in Sardegna non è come stare in continente. C’è l’isolamento forzato determinato dalla lontananza, dalla difficoltà di tenere in piedi legami affettivi, visto che non sempre sono lì reclusi i sardi di origine”. Il carcere è quello che i sociologhi definiscono una “istituzione totale”, anche relativamente recente, una sorta di “macchina” creata dagli uomini, mano a mano che i livelli delle società andavano evolvendo (Nel medo evo e anche prima i ladri, quando venivano presi, erano semplicemente impiccati), atta a far scontare a chi “sbagliava” una pena che avrebbe mondato il reo affinché potesse ritornare alla vita sociale di prima.  La nostra Costituzione, redatta non a caso dopo che la Nazione aveva subito vent’anni di un regime totalitario in cui i diritti individuali, di partecipazione politica, di lavoro e sindacato, di tempo libero (leggi: sabato fascista), di scuola e insegnamento (leggi: ordinamenti razziali che, di punto in bianco, impedirono ad italiani di fede ebraica, di recarsi a scuola o insegnare in scuole di stato), furono trattati come strame da concime, recita all’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.
A leggere i sociologhi che si sono occupati di queste problematiche sembra che questi “buoni propositi” siano inconciliabili con l’istituzione stessa in cui dovrebbero operare, a questo proposito mi è ricapitato per le mani il celebre “Asylums” di Ervin Goffman in cui lo studioso canadese descrive i meccanismi dell’esclusione e della violenza connaturati con le “istituzioni toltali”: il lager, il manicomio, la prigione. È un’edizione Einaudi del 1968 e, di questo mi ero proprio dimenticato, contiene una introduzione di Franca e Franco Basaglia. È un libro illuminante per quello che riguarda la dinamica che si instaura tra detenuti, o i malati psichici, e quello che lo studioso chiama “staff”, gli agenti di custodia o gli infermieri che accudiscono i malati.

il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con don Ettore Cannavera

Pare che l’istituzione stessa, per come è strutturata, non possa che portare a comportamenti “obbligatori” in cui gli internati, malati o prigionieri che siano, vadano inesorabilmente incontro ad una perdita del sé, una perdita di identità, che paradossalmente riguarda sia gli imprigionati sia coloro che li hanno in custodia. Del resto basta scorrere il dossier dei suicidi che annualmente si compiono nelle carceri italiane per rendersi conto che l’istituto in sé, per come viene fatto funzionare ora, disattende completamente i dettami della nostra legge fondante. La tabella è tanto illuminante quanto terrificante, distingue i suicidi dalla malattia e da una terza categoria assai inquietante per quanto riguarda la causa di morte: “Da accertare”. Per fare un esempio (non a caso) dal 9 marzo al 10 marzo 2020, il giorno dopo, i casi di morte “da accertare” in Italia risultano essere tredici! 13 morti in due giorni, sono i giorni in cui, causa covid, le carceri italiane furono chiuse alle visite dei parenti, scoppiarono tumulti in vari istituti carcerari di tutta la penisola e, a Modena, si verificò il fattaccio, una vera e propria mattanza. Tranne alcuni articoli di Luigi Manconi che uscirono per “Repubblica” non è che la stampa italiana si sia granché occupata del caso, si è parlato del metadone che i detenuti erano riusciti a procurarsi dall’infermeria del carcere e con cui si sarebbero “autosuicidati” bevendone quantità esagerate. Ma l’episodio pare scomparso dall’attenzione dei media nostrani, come spesso accade, quasi una cortina di nebbia circondi perennemente le carceri del nostro paese, ne facciano una istituzione separata, con leggi a sé, che nulla hanno a che fare con la “gente normale”. Ci pensa Sergio Abis a sfatare questa lettura di realtà, il suo libro: “Chi Sbaglia PAGA, certezza della pena e della rieducazione” (Chiarelettere ed.), dà voce ai detenuti comuni e dice di un’esperienza di un carcere alternativo. Prefazione di Gherardo Colombo, è una testimonianza di chi il carcere lo ha provato sulla sua pelle. Cagliaritano del ’53, laureato in fisica, una carriera di lavoro da ricercatore, studioso di nuove tecnologie e di materiali “alternativi”, numerose le sue pubblicazioni scientifiche. Aveva sessant’anni quando, per reclamare una somma di denaro che a suo dire gli era dovuto, si portò dietro un coltello e ne fece uso (questo lo leggo sull’incancellabile web, che della tua privacy passata notoriamente se ne fa un baffo), comunque sia, reo confesso e condannato, scontò la pena prima nel carcere di Cagliari e poi in quello di Busto Arsizio, quest’ultimo condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per le condizioni di invivibilità particolarmente accentuate.

È durante il suo periodo di detenuto che Sergio viene in contatto con quel vero e proprio miracolo che è “La Collina”, il carcere alternativo minorile che un prete sardo, nativo di Serdiana, classe ’53, ha messo in piedi, oramai venticinque anni fa, con risultati a dir poco stupefacenti. Risultati di che? Innanzitutto di recidiva, dal carcere cosiddetto tradizionale si esce in uno stato di fragilità peggiore da che ci si è finiti dentro, rotti rapporti sociali e familiari, spesso senza avere un posto dove abitare, senza lavoro né reddito, con alle spalle anni di degrado fisico e morale: insomma si finisce, quasi inevitabilmente, per delinquere di nuovo, e si ritorna dentro. I dati ufficiali parlano di una recidiva intorno al 70%. Su 100 detenuti scarcerati, 70 prima o poi ritornano in galera. Alla “Collina” la recidiva si ferma al 4%. Solo 4 ragazzi su cento, e quasi tutti perché non hanno finito il ciclo loro spettante, ricascano nell’errore. Persino il calcolo eminentemente economico è sbilanciato in maniera spropositata, per ogni minorenne che finisce in un carcere minorile italiano lo Stato spende 600 euro al giorno (uno sproposito che se ne va quasi tutto in stipendi per il personale), nella comunità di Don Ettore Cannavera non si arriva a 20 euro.

Funziona così: se nella galera tradizionale il detenuto può starsene a letto tutto il giorno, rifiutandosi persino di mangiare la “sbobba” giornaliera (pare che il vitto carcerario lasci molto a desiderare), nella cooperativa di Serdiana, una volta firmato un vero e proprio contratto in cui sono specificati obblighi e doveri ma anche diritti che ti spettano, il detenuto è tenuto a lavorare come tutti gli altri, ci si alza presto al mattino, si lavora in campagna per uliveti e tralci di vite, si cucinano insieme pranzo e cena, si fanno i piatti. Poca televisione, pochi alcolici, non si fuma che all’aperto.

La Collina a Serdiana

Una vita spartana, fatta di pochi numeri, ogni detenuto è affiancato da un volontario che fa le medesime cose, lavora come lui (riceve un regolare stipendio). Alla fine del mese, detratto quanto è stato speso per cibo, luce detersivi e quant’altro al detenuto rimangono dei soldi che può spendere come crede. Insomma come scrive Abis: “La Collina è una fregatura. Una fregatura bella e buona: però, per capirlo, bisogna essere passati prima per una cella, un universo chiuso e isolato che circoscrive la vita del detenuto…la Collina è un inganno, perché finge di donare la più completa autonomia di movimento e di azione, mentre, al contrario, è una prigione assai più raffinata delle becere case circondariali, così cupe e infarcite di ferro” (pag. 172).

La voce si spande, i detenuti scrivono a Don Ettore per i motivi più disparati, Sergio Abis sceglie da questo epistolario di disperazione alcune lettere (sono migliaia) e le riporta pari pari nel libro, strafalcioni compresi, è uno spaccato che non ha bisogno di alcuna sottolineatura drammatica, tanto è grande la tristezza che trasuda da queste scritture che urlano aiuto. È una delle grandezze di questo libro, che ha comunque numerosi altri pregi, non ultimo una sorta di biografia di questo prete capace di sognarsi un carcere diverso, dopo che per venticinque anni è stato a Buocammino è ha potuto sperimentare l’inutilità e la barbarie con cui è edificato. Don Ettore viene da una famiglia non certo ricca, i suoi sono piccoli proprietari di terre, liceo a Cagliari e seminario a Cuglieri, si prende lauree in pedagogia e psicologia, insegna sino alla pensione (non ha mai voluto lo “stipendio da prete”) storia e filosofia nei licei, per decine di anni è prete nelle carceri minorili sarde. Ed è lì che si convince che il carcere minorile andrebbe radicalmente rimodulato, se non cancellato dalla faccia della terra. È prete radicale (persino iscritto al partito), fa sue le bandiere di quei quattro gatti sognatori di diritti uguali per tutti, che galleggiano nel mare magnum della piccola politica nostrana. E credo che questo gli causi non pochi grattacapi con la Chiesa istituzionale (ma Mattarella lo ha fatto Commendatore), benché in Vaticano sieda un Papa capitato lì da una parte del mondo in cui i poveri cristi siano ancora più poveri dei nostri, e abbiano ancora meno diritti. Il carcere messicano, un esempio per tutti, è bolgia infernale dove dominano i “signori della droga” e a ogni scontro di bande non si contano i detenuti che vengono scannati a decine. Insomma anche Francesco quel tratto del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice ai discepoli: “…ero in carcere e siete venuti a trovarmi. E quelli: “Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti? …In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” lo ha ben presente e non manca di citarlo spesso al di sopra della loggia di San Pietro, urbi et orbi. Una, cento e mille Colline, come sono riusciti a fare a Serdiana, facendo concorrenza alle famose cantine di Argiolas (su internet ho visto che “svendono” il Turriga del 2016 a 68 euro dagli 80 normali, è il caso di approfittarne) non ci dovrebbe essere altro tipo di carcere minorile che questo, costa meno e funziona secondo i dettami costituzionali: rieduca. Uno, cento, mille di copie di questo libro, lettura obbligatoria in tutte le scuole, obbligatoria per ogni cittadino che ancora abbia dubbi sulla parola sicurezza. Fa tristezza ma regala speranza, Sergio Abis non scriverà come Gadda (lo dice lui) ma il libro è un vero capolavoro.

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