PAOLO NON E’ PIU’ ALLA FINESTRA (RITRATTO INSOLITO DEL FRESU CHE TRASFORMA LA MUSICA IN SPLENDORE)

Paolo Fresu

di ANGELICA GRIVEL SERRA

Il pomeriggio in cui la vita di Paolo cambiò era vestito del più potente fulgore di luce primaverile. Era aprile, forse maggio: questo dettaglio, Paolo, in seguito, nel rievocarlo durante le innumerevoli interviste che lo tennero impegnato nelle moltitudini del globo, non lo avrebbe ricordato nitidamente.

Di quella luce, piuttosto, sì, fece intatta memoria: gli aveva intinto gli occhi di un pacificante benessere, come se gli bastasse guardarne i limpidi raggi che filtravano dalla piccola finestra per sentirsi complice del mondo.
Come succedeva ormai quotidianamente da qualche anno a quell’ora del giorno, Paolo si sigillò nella stanzetta della casa in cui viveva con i genitori, nella sua Berchidda. Guardò l’ottone che riluceva: la vecchia tromba era lì, sul letto, ancora inerte; il suo mutismo era sempre un irresistibile invito al suono, che Paolo accoglieva con fare solenne, a dispetto delle tentazioni della febbrile impazienza. Secondo una ritualità consolidata, aveva estratto lo strumento dalla consunta custodia nera, che gli conferiva una certa parvenza signorile.

O almeno così era per Paolo, cui la concezione del lusso era pressoché estranea: suo padre era un pastore e il solido affetto familiare nutriva laddove la vita si svolgeva umilmente, in una modesta ma felice consuetudine tra campagna, paese e Chiesa.

La tromba era appartenuta a suo fratello, ma da quando questi era entrato in seminario, sua madre l’aveva riposta sul ripiano più alto del mobile della cucina, volendola custodire come una reliquia nel Sancta Sanctorum, e solo allora Paolo, dopo mesi di un corteggiamento ostinato, poté finalmente vincere le resistenze dell’austera mamma e concedersi di accedere al mistero di quella magia che tanto gli ispirava lo strumento.
Per anni aveva osservato passare per strada la banda del paese: l’ambizione di farne parte gli teneva il viso incollato ai vetri della solita finestra. E così, al compiersi degli undici anni, Paolo, in quel gruppo di cinquanta persone che allietava il fervore del clima gioioso delle feste patronali o degli interminabili carnevali in paese, imparò a orientarsi con le dita sulle valvole della tromba con spudorata naturalezza. La medesima che apparteneva alle sue gambe svelte, che sapevano correre e arrampicarsi con l’agilità del gatto selvatico.

Anche quel giorno di primavera, dunque, il piccolo Paolo doveva provare una partitura. Prese la tromba, accostandola alle labbra e, premendo una delle valvole, produsse una nota casuale. L’aveva suonata tante volte, quella nota; ma fu lì, in quel preciso frammento d’istante, che quel vibrato d’aria diventò esatto.

Fu lì che Paolo sentì fratturarsi l’incertezza degli interrogativi che accompagnavano la prospettiva del presente e del futuro.

Con quella nota, brillò dentro lui la consapevolezza nuova di un baricentro di vita d’un tratto perfetto e inevitabile, l’orientamento essenziale dal quale ogni cosa, per lui, da quel momento in poi, avrebbe davvero acquistato senso: la musica, come destino. Fu un urto così implacabile che lo colpì quasi fisicamente, collidendo con stomaco, cuore e cervello, tanto che Paolo dovette posare la tromba per decifrare l’entità di quella sconcertante scoperta.

Era come se qualcuno avesse saldato la corrente elettrica dopo il buio assoluto di un blackout: Paolo avrebbe iniziato a cercare il suono. Volle imparare a carpirne la consistenza, il colore: seppe che, se in quel pomeriggio non avesse prodotto l’esattezza di quel fiato musicale, avrebbe di sicuro avuto un grimaldello di tutt’altra natura per schiudere la vita. Magari, si diceva, sarebbe diventato pastore come suo padre, o probabilmente avrebbe proseguito nel creare musica, perché l’amava, ma quella sarebbe stata un’arte diversa, estetica, di servizio. Non d’esigenza, come finalmente aveva compreso.

Ecco perché, quando chiunque domandi cosa significhi musica al Paolo fattosi uomo della maturità dal sorriso mite, lui risponde: l’odore d’olio con cui ungeva i pistoni di quella tromba d’infanzia.

Nel Paolo adulto, quello che nel prestigio dei teatri o dei festival disseminati per i cinque continenti incontra con la sua musica il rispetto e la venerazione dei melomani dall’inclemenza tipica di chi crede nella rigida elitarietà del jazz, permane profondamente il Paolo bambino. Quello che conobbe un’infanzia fatta di sole e di campagna logudorese nel pieno degli anni Sessanta. Il Paolo che scalava i rami per raggiungere la casa sull’albero che aveva costruito in campagna, intonando lì, in quello spazio privato, le marcette che aveva imparato guardando Canzonissima, a distanza da ascolti che non fossero quelli silenti della natura, oggi è l’artista che, nell’originalità di una precaria posizione feta le con cui è solito suonare, intrattiene le platee tra New York, Vienna, Colonia, Parigi.

Ogni volta che fa musica, Paolo Fresu ritrova il lucore dell’ottone di quegli anni passati. E lo fa splendere.

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