IL “RESTAURANT MAN” SARDO: MICHELE CHERCHI, TRA DEGUSTAZIONI E QUALITA’, SVELA ALCUNI SEGRETI DEL MESTIERE

Michele Cherchi

di FEDERICA SABIU

Sardo, 44 anni, ama definirsi bottegaio anche se in fondo sa di essere l’evoluzione del bottegaio. L’umiltà che lo contraddistingue è forse il suo miglior biglietto da visita. Ha una grinta da vendere ed una passione smodata per il suo lavoro, è un Restaurant Man, ma non solo, è uno dei maggiori esperti di formaggi provenienti da tutto il mondo. Mi confessa che non ama farsi fotografare e neanche intervistare, ma ha piacere sempre di divulgare le sue conoscenze perché il sapere, mi dice, deve essere messo sempre alla portata di tutti. Inizia un excursus sui vari tipi di formaggi e sul territorio dai quali provengono, perché mi fa notare c’è sempre un forte legame fra territorio e cibo. Mi racconta dei suoi viaggi enogastronomici in giro per l’Europa e, si sofferma su ogni piccolo particolare o dettaglio.

Come è nata questa passione? Raccontami un po’ degli esordi, raccontami della tua infanzia. “Forse è una passione innata, era solo da tirar fuori e così è stato. La passione per il commercio poi è nata fin da bambino, quando mio nonno ci regalava dell’uva io e i miei fratellini la caricavamo sulle nostre biciclette e andavamo in giro per il paese a venderla, lo ricordo ancora come fosse ieri. Ho vissuto in una periferia, in una realtà di quartiere, e questa cosa l’ho portata anche a livello professionale. Ho iniziato aprendo botteghe, quindi posso dirti che il quartiere è stato il fulcro della mia vita. La mia passione sono diventati i formaggi, tutto ciò che c’è dietro la storia di un formaggio mi stimola. Sono un perito edile, ho studiato per due anni nella facoltà di scienze politiche e solo successivamente spinto dalla passione mi sono buttato nel commercio. I miei mentori sono stati i miei genitori, mi hanno insegnato le basi, hanno sempre avuto dei criteri di spesa molto esigenti, basavano tutto sulla qualità. Ricordo che a casa abbiamo sempre mangiato molto bene, non tantissimo ma molto bene, perché comunque era una famiglia mono reddito con quattro figli. Abbiamo sempre avuto anche il pallino per la fidelizzazione, cioè siamo sempre andati dalle stesse persone perché ci fidavamo di loro quindi anche questo cerchiamo di inculcarlo ai nostri clienti. Non ci limitiamo ad un rapporto di compravendita, ma creiamo un rapporto di fiducia reciproca e questa, secondo me, è la carta vincente. Al giorno d’oggi sono dei valori che un po’ si sono persi e noi cerchiamo di riportarli in auge attraverso il lavoro di bottega e di bottegai. Per me la fiducia è fondamentale, è uno dei valori che ho fin da piccolo e inconsciamente li applico anche nel lavoro quotidiano. Da bambino quando andavo a fare la spesa, se i soldi erano pochi il commerciante segnava, quindi riponeva fiducia nei miei confronti ed io nei suoi che sceglieva i prodotti per me”.

Dove hai viaggiato per ampliare la tua cultura a riguardo? che paragone puoi fare con i formaggi locali e quelli esteri? “Ho viaggiato molto in Italia. Il nostro paese ti insegna molto da questo punto di vista, ha mille difetti, ma ha anche altrettanti pregi. Dal punto di vista enogastronomico, poi, è un patrimonio inesauribile da nord a sud. Siamo i migliori in tutto, come biodiversità, come produzione, come tradizioni. Abbiamo 1300 km di estensione, e in questi km troviamo qualsiasi cosa. Anche dal punto di vista climatico abbiamo climi continentali nel nord, climi temperati o miti al centro e climi subtropicali nel sud, tutte queste diversità influenzano anche le produzioni. Dal punto di vista caseario abbiamo forse il patrimonio caseario più grande del mondo, anche se i francesi dicono di averne di più. Probabilmente numericamente sì, ma dal punto di vista tecnologico noi abbiamo molta più fantasia. Loro non hanno per esempio le paste filate, noi abbiamo le mozzarelle, i caciocavalli eccetera. Senza tralasciare che noi abbiamo i formaggi grana che ci invidia tutto il mondo. Sono stati altrettanto illuminanti i viaggi a Bra e a Torino. Lì ho conosciuto le realtà di slow food e grazie a loro siamo cresciuti in maniera esponenziale sia dal punto di vista delle conoscenze, ma anche e soprattutto della consapevolezza di quello che siamo e di cosa possiamo fare. Altro viaggio che mi ha condizionato è stato quello in Francia a Lion. Lì ho conosciuto un affinatore di formaggi cioè colui che prende il formaggio in età giovane, lo porta ad uno stadio più alto dandogli le sue impronte con determinati accorgimenti in un determinato ambiente. Parto dal presupposto che il formaggio si fa nel pascolo, non si fa in caseificio, si fa sul prato in base a quello che mangiano gli animali. Se non hai un buon latte scordiamoci di avere un buon formaggio, se lo fai comunque, ne verrà fuori un surrogato di formaggio che formaggio non è! L’affinatore, per esempio, prende un formaggio ben fatto perché verifica la bontà del produttore, si porta a casa il suo e lo avvia ad uno stadio successivo attraverso processi di maturazione in determinate condizioni ambientali. Spesso in cantine, con condizioni di umidità, ventilazione e temperature ideali e, in base a quelle caratteristiche i formaggi maturano. Essendo un prodotto vivo reagisce con l’ambiente circostante, quindi prende delle caratteristiche uniche dall’ambiente in cui vive, si può dire, in simbiosi. Inizialmente non hai quindi un formaggio finito, ma con il tempo acquisisce determinate caratteristiche di gusto, aroma, struttura ecc. L’unicità di quei formaggi è data quindi dalle caratteristiche uniche che solo quell’ambiente gli può dare. Alcuni formaggi devono essere stagionati anche 30/40 mesi prima di essere messi in commercio altri anche solo sei mesi. È lì che sta la bravura dell’affinatore”.

Quali sono le differenze fra i formaggi locali e quelli esteri? “Tra i formaggi locali e quelli esteri la differenza è il territorio come ti dicevo. Il latte è il risultato di ciò che mangiano le mucche. Altro aspetto fondamentale sono i fermenti che poi vanno inseriti nel latte, ci sono quelli autoctoni e quelli selezionati. Se si fare un tipo di caseificazione standardizzata per esempio latte di pecora, munto in Sardegna, pastorizzato, introdotti i fermenti selezionati ecc. avrai un formaggio standard, buono sì, ma piatto, uguale anche ad altri e perlomeno riproducibile ovunque. Se invece prendo latte crudo che non è pastorizzato, con i fermenti dati dall’ambiente in cui si trovano gli animali, hai un formaggio con più personalità e sicuramente più legato al territorio. Quindi le differenze sono queste, fermo restando che gli animali siano trattati come tali, quindi se sono erbivori che mangino erba. Ci sta qualche piccola integrazione, ma l’alimentazione principale deve essere erba. Il rumine è uno di quei miracoli della natura: gli animali che lo hanno riescono a trasformare una fibra vegetale in una proteina animale; mangia erba, ma produce carne e formaggio attraverso il latte”.

So che ci sono varie tipologie di pecorino…. “Noi in Sardegna siamo stati fra i primi a utilizzare il plurale e chiamarli per nome, ad attribuirli ad un produttore e ad un territorio. Nell’immaginario collettivo, soprattutto dei turisti, noi produciamo un formaggio, il pecorino sardo, ma in realtà ne esistono tanti tipi”.

Quando tieni dei corsi, noti curiosità anche fra i giovani? Che approccio hai? “Più che corsi tengo lezioni. Insegno in un’accademia di cucina, l’Accademia Casa Puddu, ormai da sei anni. I ragazzi sono molto curiosi, ma purtroppo non c’è la cultura della conoscenza, l’errore più comune che riscontro fra i corsisti è non analizzare la materia prima, ma il piatto e, questo ahimè, è un approccio sbagliatissimo. Queste lezioni hanno lo scopo oltre che di insegnare a divulgare la cultura casearia, la cultura del buon cibo, del buon mangiare e soprattutto cerco di inculcare nelle persone, che vengono a contatto con noi, la curiosità e l’abitudine a porsi delle domande e dei dubbi perché anche questi sono fondamentali. Se smetti di avere dubbi hai smesso di avere quella sottile linea che ti separa da, ‘so tutto’ e da, ‘anche se ho anni di esperienza mi viene ancora il dubbio’. Questo ti aiuta a stare ancora più attento e a dare un servizio migliore. Il dubbio è fondamentale anche su ciò che già si conosce.”

Ad ogni vino il suo formaggio? “Anche no! Nel senso che gli abbinamenti possono essere trasversali. Le etichette dei vini sono abbastanza generiche a riguardo e forse non aiutano tanto. Non esiste un abbinamento perfetto, nel senso che prima di fare un abbinamento c’è bisogno di assaggiare sia l’uno che l’altro o perlomeno uno dei due. Vanno bene sia rossi, bianchi che bollicine. Se rispettiamo i canoni degli abbinamenti per una bollicina ci va un formaggio fresco, grasso, perché la bolla aiuta a pulire la bocca, a sgrassare. Per esempio, una mozzarella di bufala oppure un caprino con un’acidità spiccata. I pecorini freschi sono ottimi con bianco fermo. Più sali in complessità, in struttura del vino, più devi salire in complessità e struttura del formaggio; si va di pari passo. Ma l’ideale, a parer mio, è che prima di fare un abbinamento vino/formaggio visto che stiamo parlando di prodotti vivi cioè in continua evoluzione, sarebbe meglio assaggiare o l’uno o l’altro per aprire quei cassetti all’interno del cervello che ti permettono di fare l’abbinamento di ciò che hai assaggiato. Ci sono vini che richiamano un formaggio o un formaggio che ti richiama un vino. Sempre rispettando i canoni di abbinamento bisogna vedere se vuoi andare per concordanza o per contrapposizione. Quindi concordanza con caratteristiche simili, per contrapposizione, invece, un vino dolce con un formaggio molto stagionato. Trovo spettacolari gli abbinamenti con i vini dolci, per esempio, un Sauternes francese con un formaggio erborinato; quindi un vino dolce dalla complessità aromatica importante con un formaggio che invece rimane sapido e dal punto di vista aromatico complesso all’ennesima potenza”.

Un pranzo o una cena come dovrebbero concludersi? “Con una degustazione di formaggi…. C’è un detto che mi piace ricordare ‘la bocca non è appagata se non si conclude con un formaggio’. I francesi, per esempio, hanno l’abitudine di concludere il pasto con una degustazione di formaggi, ti spiego anche il motivo per cui andrebbero serviti a fine pasto. Se analizziamo il formaggio è un concentrato di proteine e di grassi, introducendolo ad inizio pasto è pesante, stanca il palato ed appesantisce lo stomaco”.

Il modo migliore per servire un formaggio? “Se sono più formaggi ci deve essere una sequenza di assaggio, la sequenza parte dal meno intenso al più intenso, dal meno strutturato al più strutturato, deve essere un percorso. Altra cosa fondamentale è la temperatura di servizio, questa è fondamentale per tutti i formaggi. Il range di servizio è dai 15 ai 20° altrimenti si perdono i profumi e gli aromi e questi elementi vengono fuori solo a determinate temperature. Se lo togliamo dal frigo e lo mangiamo sentiamo solo i quattro sapori: dolce, salato, amaro e acido. Ma i sapori non vanno confusi con gli aromi, il sapore è una questione solo di lingua, l’aroma è una questione di lingua e di naso”.

Possono accompagnare qualunque pietanza? Dalla carne al pesce? “Sì, assolutamente! Qua è corretto dire che ad ogni pietanza ci può essere un formaggio. Per quanto riguarda il pesce, essendo una carne delicata, si giocherà su formaggi più delicati. Per esempio, la classica mozzarella con l’acciuga; un’altra ricetta famosa è la sogliola alla parmigiana. Sulla carne abbiamo tanti altri esempi, come la salsa al formaggio da abbinare come condimento”.

Quali sono i paesi maggiori produttori di formaggio? “Dipende dalla qualità del formaggio. Ci sono produttori di bassa qualità che producono pizza cheese che è un formaggio tra virgolette, iper-industrializzato dove non si usa neanche il caglio animale. Rimanendo sulla qualità ti rispondo Italia e Francia tra i maggiori produttori, ma anche la Svizzera se la cava benissimo”.

Esiste un formaggio a basso contenuto di colesterolo? “Esiste eccome! A basso contenuto di colesterolo sono tutti i formaggi da pascolo ed il motivo è semplice: l’animale non ha ricevuto mangimi. Non esistono formaggi senza colesterolo, ma esistono quelli con un buon colesterolo o comunque con componenti che non lo fanno aumentare. La dieta di questi animali è spesso integrata con semi di lino, ricchi di acido linoleico coniugato, un potente antiossidante che se assunto in determinate dosi non fa aumentare il colesterolo”. Questo ragazzo è un genio, una forza della natura, una fonte inesauribile di sapere. Il cibo del suo locale che serve ai suoi clienti diventa parte di loro, per questo viene servito sempre con amore, il tutto accompagnato da una meticolosa spiegazione del piatto a cui non fa mancare a fine pasto il prodotto più prezioso che si possa mettere in tavola, il formaggio. Il salto del latte all’immortalità, come lui ama definirlo.

per gentile concessione de https://www.lavocedinewyork.com/

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Un commento

  1. virgilio mazzei

    Due complimenti.
    Il primo va all’articolista per la bella presentazione e per il modo come è stato impostato e sviluppato l’argomento sui formaggi, cosa non facile.
    Il secondo complimento va a Michele Cherchi per la precisa descrizione della tecnica di abbinamento a cui molti operatori del settore enogastronomico non fanno caso o fanno confusione.
    Ul nostro Michele dimostra di essere un amante del “bello” e del “buono” che dovrebbero “sposarsi” quando si è a tavola. Ma soprattutto dimostra di essere preparato in campo nel settore.
    Continui così, caro Michele. La serietà e la professionalità pagano quasi sempre. Virgilio Mazzei sommelier. Genova.

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