AGOSTO, CORONAVIRUS NON TI CONOSCO! LA MIA VACANZA IN SARDEGNA AL TEMPO DELLA PANDEMIA

ph: Alina Di Mattia sul volo Roma-Alghero

di ALINA DI MATTIA

Parafrasando un popolare proverbio ampiamente diffuso in Europa, appare ormai chiaro che la pandemia che ci ha segregato in casa per mesi non ha spento la nostra voglia di vacanze estive, anzi, l’ha raddoppiata, tant’è vero che oltre la metà degli italiani, circa il 61%, non ha rinunciato a partire per le ferie. Per giunta, la quasi totalità sta riscoprendo il patrimonio culturale e ambientale di uno dei Paesi più belli al mondo, quell’Italia d’arte a cielo aperto con i suoi 7914 chilometri di coste, le sue riserve uniche e i suoi incommensurabili paesaggi naturali. Io faccio parte proprio di quell’alta percentuale che ha scelto un luogo di villeggiatura tricolore perché, sorvolando sulle impellenti ed evidenti necessità vitali post-coronavirus, scegliere di restare nel nostro Paese è l’unica situazione in cui la frase patriottica “prima gli italiani” avrebbe davvero un senso, quanto meno per aiutare concretamente  gli addetti al turismo messi in ginocchio dal lockdown,  e poi perché una partenza per l’estero, al momento, comporterebbe il rischio di incorrere in brutte sorprese una volta atterrati sul posto. Cosa che sta avvenendo in queste ore con una fortunatamente piccola percentuale di italiani che ha voltato le spalle ai propri conterranei in difficoltà – qualcuno magari intascando anche il bonus statale – e che sta cercando di rientrare dall’estero con non poche complicazioni.

Paura di ammalarmi di Covid-19? Forse, ma le mie abitudini igieniche fuori casa hanno da sempre avuto un livello di attenzione massima, e in tempo di coronavirus si adattano semplicemente alla nuova location. 

Qualcuno ha consigliato al popolo italiano di prendersi un anno sabbatico di massa, visto il rischio di contagio persistente e, secondo gli  esperti, con una buona probabilità di ritorno del virus in autunno, ma dopo un periodo psicologicamente  prostrante per tutti, la scelta era tra il finire di avvilirsi completamente e in taluni casi cadere in depressione, come  è accaduto ad una significativa parte della popolazione, o provare a cambiare scenario per riprendere fiato e voltare pagina. Come la maggior parte degli italiani che ha vissuto direttamente la pandemia, anch’io avevo bisogno di un momento rigenerante. Perché, sapete, durante l’emergenza non mi sono fatta mancare proprio nulla, neppure un paio di ‘tour’ presso un noto ospedale della Capitale. L’unica consolazione sono stati i cornetti appena sfornati del bar del presidio sanitario, durante l’emergenza diventati un miraggio insieme all’alcool e alla carta igienica. 

Tornando alla quarantena e alla segregazione in casa, nonostante potessi sventolare un tesserino da giornalista e muovermi senza particolari intoppi, sono uscita dal mio appartamento romano soltanto per le urgenze –  e di urgenze ne ho avute parecchie –  diventando una spettatrice attonita di una Roma silenziosa e nascosta che, per la prima volta dopo 22 anni di residenza,  mi appariva in tutta la sua desolante magnificenza. Vuota e proibita.

C’è stato un momento in cui mi sono sentita un personaggio di 1984, il romanzo fantascientifico  di George Orwell, ed ero pronta a dissentire.  Ogni evento mi è apparso come un attentato alla mia vita e a quella dell’umanità, anche la scomparsa di due cari amici e quell’ultimo saluto che mi è stato negato dar loro.

Tuttavia, sono rimasta ligia ai doveri imposti dalle Autorità pur non sopportandone l’evidente arbitrarietà diventata spesso un abuso in mano a qualche sceriffo 3.0.   Mio malgrado, ho assistito alle tragedie familiari di chi ha visto i propri cari soffrire – e anche morire – durante l’emergenza.  Ho visto gli occhi smarriti dei sanitari dietro agli scafandri, ho percepito la loro stanchezza. Ero lì a condividere un dolore universale come una persona qualsiasi e non come una giornalista; per pudore, per deferenza nei confronti della sofferenza non ho voluto parlarne, neppure sui social.  E quando le chat delle redazioni giornalistiche cui appartengo febbricitavano di news, pregavo e pregavo, io che non prego mai, che tutto avesse fine, che arrivasse presto l’estate, come se l’estate avesse la bacchetta magica per cancellare tutto.

In più, il pensiero di due genitori anziani e soli a cui organizzare l’approvvigionamento di cibo e medicinali, e dei miei fratelli residenti in una delle città americane più colpite dal Covid-19, mi ha corroso. Una mancanza di vita infinita nella lontananza. Neppure i miei gatti mi hanno perdonato l’assenza prolungata.  E qualcuno non ha neppure atteso l’ultima mia carezza.

Per non pensare ho scritto. Ho scritto tanto, ho scritto in piena notte, all’alba. Ad orari insoliti, mentre il mio ritmo circadiano era ormai in tilt. Settimana dopo settimana i famosi canti provenienti dai balconi degli appartamenti del mio quartiere si sono trasformati in urla esasperate alternate a silenzi tombali. Persino i cani dei vicini hanno smesso di abbaiare. La gente cominciava a perdere il controllo ma l’estate era ancora lontana per illudersi che tutto sarebbe finito a breve. E poi, è finita davvero.

Personalmente ho scongiurato un crollo emotivo sognando “fiumi azzurri e colline e praterie”, e il primo desiderio, dopo aver riabbracciato i miei genitori e riempito di carezze i gatti, è stato quello di partire per il mare. Complici alcuni amici sardi e le offerte allettanti di chi aveva voglia di rimettersi in marcia, ma soprattutto l’attrazione fatale per 1800 chilometri di coste spettacolari,  io e il mio fidanzato abbiamo scelto il litorale ovest della Sardegna, quello meno battuto dai turisti e in qualche modo più sicuro.

Con alle spalle il lockdown, e muniti di una scorta significativa di gel disinfettante, salviette imbevute e mascherine varie, siamo arrivati nell’isola dei profumi dimenticati, nella terra dei menhir e dei dolmen, “delle rocce come uno strano popolo d’atleti pietrificato per virtù d’incanti”, recitava il mio conterraneo Gabriele D’Annunzio.

Una meta turistica che non figurava tra le prime località scelte dagli italiani per il 2020, e questo ci ha rassicurati. Sa die de sa Sardigna, il giorno della Sardegna o, se preferite, il tempo della Sardegna è iniziato a fine luglio con file ordinate in aeroporto, personale disponibile, distanze di sicurezza rispettate anche a bordo. Noi passeggeri ci abbiamo senz’altro guadagnato in comodità. 

Distanze e regole rispettate ovunque, dal panettiere al ristorante, dal gelataio al negozio di souvenir. Più liberi passeggiando sulle strade e sulle splendide spiagge qualche volta affollate, ma sempre molto attenti al distanziamento fisico e meno a quello sociale. Perché si sa, gli italiani, e in questo caso i sardi, dietro le loro mascherine anti-Covid, sanno raccontarti di gentilezza e storia, delle case di Bosa dalle facciate colorate, delle graziose chiese solitarie che si alternano ai misteriosi nuraghi, dei caratteristici murales a cielo aperto di Orgosolo, dei visi di pescatori scottati dal sole e della bottarga di muggine da grattugiare sulle orecchiette. E ti lasciano immaginare un passato non troppo lontano, quando le donne si vestivano da principesse e gli uomini da principi nei loro tipici e prestigiosi abiti artigianali, di prelibatezze come seadas al miele, pane carasau e ricotta mustia con marmellata di mirto. E sempre orgogliosi del loro prezioso fazzoletto di terra e di quello che viene chiamato ‘oro sardo’, quel famoso formaggio pecorino che solo negli Stati Uniti raggiunge 200mila quintali di importazione annuale. 

La mia, la nostra Sardegna è quindi diventata più uno stato d’animo collettivo che un luogo per trascorrere una vacanza. Perché si sa, nessuno si salva da solo, e la natura è diventata improvvisamente la medicina essenziale per guarire, la via per ricominciare a vivere dopo una vita sospesa. O ammalata. Oppure ancora persa. Navigando al largo delle sue coste, assaporando la bellezza della Riviera del Corallo e ammirando la maestosità di Capo Caccia, il Covid-19 mi è apparso lontano, come mi appariva lontano quello stesso mare durante la pandemia.  Tra quelle acque azzurre e verdi, i colori dell’energia e della speranza, non mi sono mai sentita in pericolo, neanche una volta. Dietro i volti dei turisti nascosti dalle mascherine c’erano sguardi sereni ma mai impudenti, mai irrispettosi, e grati per quei diritti fondamentali ritrovati.  Persino all’interno delle Grotte di Nettuno, nonostante la temperatura alta, abbiamo sfilato in mascherina e abbastanza distanti da poterci godere uno spettacolo della natura senza correre alcun pericolo.

Le vacanze degli italiani, provenienti soprattutto dalle grandi città come me, sono state indispensabili per non morire di indolenza e abbandono, per ripartire ancora una volta come solo il mio popolo riesce a fare da secoli. E chi è contrario, chi sta criticando i vacanzieri del 2020 non ha evidentemente avuto grossi problemi durante la pandemia, oppure non ha semplicemente compreso il pericolo in agguato dietro una clausura forzata, magari in 70 mq di casa senza neppure un balcone per respirare, e con la privazione di luce, elemento essenziale alla vita.

Ripercorrendo i luoghi che durante la mia esistenza ho visitato più per lavoro che per turista, mi è tornato in mente il pozzo sacro di Santa Cristina, nel territorio di Oristano, e un desiderio che espressi  trent’anni fa non ancora realizzato. Se potessi cambiarlo oggi, vorrei poter donare la libertà ad ogni uomo sulla Terra. Quella libertà a cui abbiamo dovuto rinunciare, dicono, per il nostro bene.

Il pericolo oggi sembra restare e l’allerta pure, anche in Sardegna, tanto è vero che è appena stata disposta la chiusura delle discoteche in tutto il territorio nazionale e l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto, ma dalle 18 alle 6, cosa che non ho intenzione di discutere qui. Per scongiurare spiritualmente ogni male però si può dormire all’interno di uno dei  7000 nuraghi sparsi nella regione, magari in compagnia delle janas, le piccole fate delle leggende sarde, o nuotare in solitario tra le rovine romane di Tharros, sulla spiaggia di Cabras, o ancora farsi belli con le argille cosmetiche di s’Arena Scoada e chiudere la giornata con un tuffo a S’Archittu. Una folle speranza più che una certezza, ma tanta bellezza è un toccasana per allentare momentaneamente la tensione e tenere a bada la paura cui siamo sottoposti quotidianamente. 

La gente ha un disperato bisogno di tornare alla normalità. Non è così difficile da capire. Sono tornata a Roma con un piccolo sasso nelle tasche, sa pedra de s’arregosu, la pietra della memoria.  E in quella memoria riecheggiano scomposti i versi del celebre canto sardo No Potho reposare , da qualche giorno diventata la mia anninnìa (ninna nanna). La tocco e sono grata all’Universo per ciò che i miei occhi hanno potuto vedere e per l’energia di cui ho potuto riappropriarmi attraverso il contatto con la natura e, soprattutto, con una terra che io amo e che mi ha amata, checché ne pensino i controvacanzieri.

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