I 50 ANNI A MILANO DEL CENTRO CULTURALE SARDO: GRAN PARTE DELL’EMIGRAZIONE SARDA IN TERRA MENEGHINA E’ PASSATA ANCHE DA QUI

Giovanni Cervo e Pierangela Abis, rispettivamente Presidente attuale e storico del CSCS di Milano

di SERGIO PORTAS

Il centro culturale sardo di Milano ha compiuto cinquant’anni. E ha fatto una prima grande festa. Che rischia ahimè di rimanere unica per quest’anno. Si era all’inizio di febbraio, l’8 per l’esattezza, e il virus che sapete se ne andava indisturbato per il lodigiano, infettando a destra e a manca, ma usando quella sottile perfidia per cui ancora non causava morti a decine, e quindi poteva proliferare sottotraccia con le conseguenze che oramai sono note. Quel sabato pomeriggio quindi una folla di gente ha potuto accalcarsi liberamente (altro che distanza sociale!) scevra di mascherine e ammennicoli similari, tanto che alla fine di sedie per tutti i convenuti non ce ne erano abbastanza, men che meno nella fase più gaudente del programma, quella che il circolo chiamava: “cena/buffet offerta. Vi risparmio il menù che tra malloreddus e vermentini di Gallura, sattizzu e pecorini vari, ha messo un punto fermo a coloro che avessero anche il minimo dubbio di quale terra si stesse rinnovando la memoria. Che i circoli sardi questo sono in definitiva: dei grandi raccontatori di storie, per lo più che si riferiscono al passato ma non solo, di un’isola sperduta in un mare di difficile transito, ricca di ogni ben di dio, dove si parlano dialetti che non hanno bisogno di essere studiati a scuola per essere declinati in prosa e poesia, molta poesia.   La gente che oggi è qui l’ha dovuta lasciare anni fa, ma non se ne è mai fatta una ragione e, come i sardi che Dante mette all’inferno, e anche lì non fanno altro che parlare di Sardegna (“E a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche”, canto XXII) rinnovano quella nostalgia che è entrata a far parte, in modo  strutturale, del loro vissuto, in continente. Non a caso l’età media dei presenti è di quelle che il virus coronato predilige per avviarli speditamente all’altro mondo. E comunque c’è da riflettere se questi circoli, sparsi per l’Italia e il mondo tutto, tornano a rimestarla nel mortaio della memoria questa nostalgia, non può essere solo l’inganno che una fata morgana dispettosa fa ai soci, facendo loro intravvedere quest’isola mediterranea vestita coi panni della giovinezza, rendendola quindi magica di per sé. Evocando un tempo remoto in cui le famiglie erano di quattro fratelli e più, e ci si alzava all’alba per accudire il bestiame, in fretta, che la campana della scuola chiamava a raccolta, e non si aveva il tempo che per una fetta di pane e un po’ di latte tiepido. Scalzi e felici che fosse inverno o primavera, quando ancora le rondini garrivano a centinaia in cielo bucando nuvole di bambagia, anche   loro paghe solo d’essere vive. Ci deve essere qualche cosa di più,  e parole ricche di senso  ha lasciato scritto a questo proposito Nereide Rudas, che di cose sarde se ne intendeva. Avendone fatto oggetto di studio per una vita intera. Per dirla con Farinetti, l’ideatore di Eataly ( su la “Nuova” del 15 giugno) i sardi nascono seduti su un giacimento di bellezza. E quando sono costretti a lasciarlo il rimpianto che li prende non ha modo d’essere consolato. Come sia che quest’isola fatata venga ogni giorno di più spopolandosi è quindi tema di confronti e discussioni frequenti, fattesi più contingenti in questi pandemici periodi in cui c’è tutto un riscoprire di quanta diversa sia la qualità della vita se spesa in un borgo, un piccolo paese, al confronto dell’anonimato che la grande città pone a stigma dei suoi abitanti. Specie ora che internet può portare a casa di chiunque l’intero mondo, o quasi. A Milano erano presenti, tra gli altri, Leonardo Marras, presidente della associazione Maria Carta di Siligo e l’assessore al turismo della Regione Sardegna Gianni Chessa. Di quest’ultimo occorre dire che tempi più sfortunati di questi per un incarico di questa importanza non ce ne potevano essere, e che di lui si sono perse le tracce quando il pezzo da novanta della politica sarda ha deciso che di turismo se ne sarebbe occupato in prima persona. Parlo naturalmente del presidente Solinas che in verità era sicuramente convinto di fare il bene della salute dei sardi, relegandoli nel recinto dell’insularità perpetua, ma una volta che questo benedetto/maledetto virus si fosse finalmente deciso a scomparire per impossibilità di contagi, e davvero la dimensione dei paesi sardi deve aver giocato a favore, con la possibilità di ampi spazi di campagna facilmente raggiungibili e scarsamente popolati, si doveva pur riaprire a turisti e sardi che vivono in continente, e spesso hanno casa nei paesi natii. E qui l’dea del “passaporto sanitario” ha dato, a mio avviso, un colpo di grazia definitivo, al turismo sardo per quest’anno. Non sono il solo a pensarlo, Vito Biolchini (Buongiorno Cagliari! E MediteRadio) su “Sardegnasopratutto” ( “Passaporto sanitario, addio: eri solo la fake news di una fake giunta”, 26/5/2020) non gli fa sconti di sorta e scrive a proposito: “…Chissà chi ha consigliato il presidente, facendogli credere che poteva andare avanti per una strada così impervia. Forse i suoi consulenti giuridici? Ma non è lui stesso bilaureato in Giurisprudenza? Forse i luminari dell’incredibile Comitato Tecnico Scientifico, da giorni scomparsi da tutti i radar… Sta di fatto che il carosello di dichiarazioni presidenziali ha sconcertato l’opinione pubblica. E infatti subito dopo l’offensiva mediatica di Solinas, le prenotazioni turistiche sono crollate, come ammesso dagli stessi operatori. Perché il messaggio che è passato era semplice: l’Italia riapre, la Sardegna no. La Sardegna vi crea problemi”. Certo i più di quattrocento soci del circolo di Milano se ne vorrebbero tornare a casa, in Sardegna, senza che vengano guardati come “untori” della premiata ditta Fontana/Gallera, altri due politici a cui lo spirito santo ha scordato di portare la grazia. Io stesso ambirei a tornare a Funtanazza prima che il buon Soru dia l’inizio ai lavori per il rifacimento della colonia di Montevecchio, facendo così scomparire quelle cicale che col loro frinire rivaleggiano con gli sciabordii del mare. Leonardo Marras spiega alla platea cosa sia “Freemmos” (un gioco tra “free”, libero, e il suono della parola che in sardo sta per: fermi, “frimmos”), lui e la fondazione che presiede vanno portando in giro per i piccoli paesi sardi in via di spopolamento cantanti, suonatori di chitarra, bande musicali, insomma quanto di meglio ci sia del folklore sardo.

Una giornata che tende ad accumunare tutti, sindaci e paesani, scolari ed artigiani. Lo stanno facendo con grande successo di partecipazione da un paio di anni. Fermi, fermatevi, riflettiamo su questo fenomeno che pare irrefrenabile. “Dobbiamo essere liberi di restare, magari con il tablet in mano e le launeddas nel cuore”.  “Abbiamo l’ambizione di animare un dibattito che non si può più procrastinare, e di essere spacciatori di speranza”. “Porti la Musica, magari in chiese vuote dove il parroco arriva solo una volta alla settimana, è una carovana colorata la nostra, un modo per ribadire quanto bello sia vivere da sardi, in Sardegna”. “Continueremo anche nel 2020 ( il 21 giugno saranno a Monteleone Rocca Doria, diretta su Videolina, Ndr.), a Gadoni contiamo di coinvolgere oltre trecento studenti”. Ed in un video si vedono questi pezzi di Sardegna in via di sparizione ( a politiche immutate l’isola nel 2050 perderebbe più del 30% della sua popolazione, la Corsica l’aumenterebbe del 45%, Ndr.). Eppure alcuni segnali di recupero, deboli, comunque ci sono: “Abinsula”, la “start up” che Pierluigi Pinna ha creato a Sassari è una realtà oramai consolidata (l’hanno messa in piedi in cinque, tutti amici, investendo 2.000 euro a testa) : “Per la Sardegna è un’occasione unica, dice Pinna, può diventare un laboratorio mondiale…Senza contare che il digitale è uno dei pochi settori che non soffre del gap dell’insularità: i software non hanno bisogno degli aerei”. E che dire della pastora di Ozieri, con in tasca due lauree e due master, che ha scelto di dedicarsi al mestiere dei nonni, e chiama per nome ogni pecora del suo gregge. L’assessore Chessa interviene dicendo che, una volta svanito il sogno dell’industria, occorre ripartire dalle cose che più ci caratterizzano: l’archeologia, la tradizione, la storia. Se è vero che sono tremila i giovani che annualmente lasciano la Sardegna (e l’80% non fa ritorno) dobbiamo ribadire che di turismo si può vivere, e che l’attrattiva non può essere esclusivamente quella del mare. Tutto questo prima che il virus sparigliasse le carte e lasciasse a terra la flotta aerea mondiale. Ci pensa l’organetto di Giovannantonio “Vanni” Masala a far ballare sulle sedie tutti i presenti, l’oristanese ultimo prodigio di una famiglia di musicisti, il padre Paolo e soprattutto il nonno Tonino, dialoga alla grande col suo strumento e fa sognare tutta la platea. E poi sono i tenores di Orosei a esibirsi, l’anno scorso hanno festeggiato i 20 anni di attività: i loro “Dillo, dillo, dilloro doi” hanno il vigore di un’orchestra sinfonica. Il finale è tutto delle launeddas; Alberto Piludu di Serrenti in duo con Gloria Atzei, che sta a Sarroch ma ha mamma a Masullas; sarà che di ragazze che suonano launeddas non ce ne sono moltissime, sarà che se c’è uno strumento capace di incarnare l’anima sarda queste sono le launeddas, fatto sta che il successo della loro prestazione è di quelli che non si dimenticano. A tutto orchestrare: Pierangela Abis, già presidentessa per molti anni e Giovanni Cervo l’attuale presidente del circolo sardo milanese. Un mare di lavoro gratuito il loro, che portare avanti le attività di un circolo come questo, vuol dire mettere in conto molte notti insonni. A compenso il piacere di portare a Milano un po’ di Sardegna, un’anteprima di come sarebbe possibile immaginarsi una vita diversa, in un’isola poco abitata, ricca di storia e di pietrosi monumenti, dove ancora sono le case delle sue fate, e i pozzi dell’acqua, che è come dire i pozzi della vita, sono giustamente sacri.

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