I DIRITTI DELLE DONNE. CRISTINA MUNTONI: DOCENTE, AUTRICE E STUDIOSA DI STORIA DI SACRALITA’ FEMMINILE

ph: Cristina Muntoni

di MICHELA GIRARDI

Docente, autrice e studiosa di storia di sacralità femminile, ambasciatrice della destinazione del Principato di Monaco con delega alla cultura, la cagliaritana Cristina Muntoni si occupa di formazione e divulgazione di strumenti di crescita personale ed evoluzione sociale ricavati dalla sua ricerca storica. Lo fa attraverso pubblicazioni, laboratori di scrittura rituale e conferenze esperienziali. Assieme ad altre donne ha fondato la rete Heminas con 12.622 iscritte/i su Facebook e fa parte di un progetto per il recupero delle donne carcerate nell’Istituto Penitenziario di Uta e del Comitato Promotore del Centro Studi Identità e Memoria. Il suo curriculum è stato selezionato per la creazione della banca dati della Fondazione Bellisario, finalizzata all’individuazione delle donne “che meritano di contribuire alla crescita del sistema Paese”.  È un’attivista sociale per la promozione dei diritti delle donne, di una cultura e una società più pacifica, sostenibile e giusta. Si interessa di storia, antropologia, esoterismo, simbolismo e arte rituale. Ama le escursioni in mountain bike e kayak, il trekking e la natura. Conosciamola meglio.

Sei una delle pochissime studiose di sacralità femminile in Italia. Le tue conoscenze, in tante occasioni, vanno a convergere anche in quelle che sono state definite “conferenze esperienziali”. Di che si tratta?  La Storia della Sacralità Femminile è la branca di studio che ho creato per colmare una lacuna nella storia dell’umanità e l’ho sviluppata unendo diverse discipline, campi del sapere e studi già compiuti da eminenti studiose/i. La insegno alla sede di Sassari della Scuola di Arteterapia di Assisi. Mi occupo di divulgare gli strumenti di crescita personale ed evoluzione sociale ricavati da questo studio rispetto al quale ho l’approccio dell’antropologia concettuale: studio la storia dell’umanità tenendo conto di quelle che sono state le tensioni spirituali che l’hanno mossa cercando di cogliere gli insegnamenti che possono concretamente migliorare il nostro presente e costruire il futuro. Nell’ambito di Eos, un progetto dell’Università di Cagliari, ho elaborato il sistema per divulgare i frutti di questa ricerca. Lo faccio attraverso diversi mezzi tra i quali, appunto, le conferenze esperienziali, dove si unisce teoria e pratica. Sono incontri in cui la divulgazione passa non solo attraverso la parte concettuale, ma anche attraverso l’esperienza, l’emozione, gli stimoli sensoriali e il vissuto. Partecipare a una conferenza esperienziale significa diventare parte di un viaggio emozionale, apprendere attraverso lo stupore e la meraviglia, sperimentare e immergersi nella narrazione diventandone parte attiva attraverso i sensi e portarsi a casa una nuova consapevolezza capace di migliorare la propria vita. Il mio scopo è fare divulgazione rispetto a temi e con metodi che reputo in grado di modificare in senso evolutivo sia l’equilibrio individuale che sociale. Ciò che rende unico il mio lavoro di ricerca storica, antropologica e spirituale e che caratterizza questi incontri è quello di far interagire, come ordito e trama in un telaio, l’approccio accademico a quello olistico, due mondi che solitamente viaggiano a binari paralleli e, diciamolo, solitamente si guardano con diffidenza l’uno con l’altro. Credo che questa interazione sia indispensabile per avere una visione più completa e profonda del passato al fine di trarne gli insegnamenti e gli strumenti teorici e pratici utili per far nascere l’arazzo prezioso della consapevolezza, della crescita personale e dell’evoluzione sociale. Sto riscontrando una buona apertura anche nei contesti universitari e istituzionali che solitamente sono abbastanza chiusi rispetto a linguaggi che fuoriescono da quelli standardizzati e questo mi sembra un segno magnifico del fatto che il mondo sta cambiando e che ci stiamo evolvendo verso un’apertura al sapere in senso più profondo. Sono stata chiamata a svolgere questo tipo di conferenze in diversi contesti come la sede romana del Parlamento Europeo, il Museo Orto Botanico dell’Università La Sapienza di Roma, il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, l’Università Upter di Roma, l’Università di Padova, l’Università di Cagliari e in un percorso di recupero di sei mesi alle donne carcerate dell’Istituto Penitenziario di Uta assieme all’oncologa palliativista Maria Cristina Deidda e altre donne straordinarie, ma che adesso è ovviamente sospeso e questo mi addolora enormemente perché c’erano risultati tangibili.  Era come una fioritura in corso che ora è stata sospesa. Così come inevitabilmente sono sospesi anche tutti gli eventi che avevo in programma per questi mesi in diverse città come Volterra, con Muse Artiterapie, e un posto incredibile nel Lazio in cui si veneravano due Dee.

In cosa consiste la scrittura rituale?  La scrittura rituale è un altro dei miei strumenti divulgativi di tipo esperienziale che ho adottato anche alla sede romana del Parlamento Europeo in un incontro con Stati Generali delle Donne.  È un metodo in cui si usa la scrittura come rito iniziatico e trasformativo mutuando da antiche tecniche e tradizioni. Con un sistema di maieutica, accompagno ad usare la scrittura in modo non performativo per agire sull’inconscio cambiando paradigmi mentali e agevolando l’armonia, l’equilibrio e il benessere. È un’esperienza suggestiva e profonda che si basa sul potere delle parole ed è volta a rimuovere blocchi, affrontare una fase di ostacoli, le paure ad esempio, riprogrammare il proprio presente creando una nuova narrazione del possibile e raggiungere obiettivi.  In questo tempo in cui le parole che sentiamo diventano il cibo tossico con cui nutriamo le nostre paure, diventa quantomai importante prestare attenzione al potere che hanno. Che le parole avessero questo potere gli antichi popoli lo sapevano bene. La parola crea, che è il mio motto, era un credo molto profondo presente anche nelle sacre scritture. Anche la parola magica per eccellenza, Abracadabra, si rifà a questo. In aramaico significa “creo come parlo” ed esplica il potere che hanno le parole di condizionare la nostra mente e il mondo in cui viviamo. La parola è una porta nello stato di coscienza di chi l’ha generata, ma anche una porta con cui chi la genera può aprirsi al mondo e condizionarlo. Con le giuste tecniche si può usare questo potere in modo realizzativo. Gli incontri che dovevo fare in diverse città in Italia sono ovviamente sospesi, ma nel mio sito c’è una pagina dedicata agli eventi e attraverso la newsletter invio gli inviti agli eventi gratuiti. Adesso ne sto organizzando alcuni online con webinar e le dirette sulla mia pagina face book.

Il format video “Le storie della dea” sul tuo canale YouTube sta avendo molto successo. Come è nata l’idea di far luce sulle società matrifocali in rete?  Anche questo è uno dei mezzi di divulgazione della mia ricerca che ruota attorno a un saggio che sto finendo di scrivere. In realtà il successo è molto relativo, nel senso che restano pur sempre argomenti per un target ristretto: non tutte le persone sono interessate alla propria evoluzione personale e alla storia. Lì parlo della storia della sacralità femminile e intervisto altre studiose e studiosi, perlopiù docenti che hanno approfondito le tematiche che mi interessano. Un riconoscimento per me molto importante a questo lavoro l’ho ricevuto dal compianto Eugenio Lazzari, docente di Idraulica all’università di Cagliari e grande studioso di storia ed esoterismo con cui avevo uno scambio intellettuale molto arricchente e che, purtroppo, è morto pochi giorni fa con mio grande dolore. Nel suo ultimo libro sulla storia, il simbolismo e i riti legati all’acqua, esprimendomi la sua stima, ha citato il mio lavoro e in particolare una delle mie interviste per Le storie della Dea in cui il professor Lebeuf dell’Università di Cracovia spiega dettagliatamente come, dallo studio del pozzo di Santa Cristina, si ricavi che l’origine dell’astronomia e della scienza sia da collegare ai riti femminili. Un’affermazione rivoluzionaria che racchiude l’essenza di tutto il mio lavoro di ricerca.

Per 15 anni hai lavorato come avvocata. Quando e perché è avvenuta questa svolta, anche professionale, nella tua vita? C’è stato un momento preciso in cui hai capito che ciò che eri e ciò che facevi non erano più in sintonia? Mentre facevo l’avvocata scrivevo per le pagine della cultura di diversi giornali nazionali e locali occupandomi perlopiù di storia e letteratura. Era la cosa che mi faceva sentire veramente felice e completa, ma lo facevo come una cosa secondaria, rubando il tempo a ciò che era il mio “dovere”. Sapevo che quando lo facevo davo voce a quello che i greci chiamavano daimon e che James Hillman spiega molto bene nel suo Il codice dell’anima. La felicità per i greci era l’eudaimonia, essere in unione con questo daimon, la parte più vera e autentica di sé. Ecco, diciamo che mentre maturavo questo pensiero e stavo scrivendo il secondo volume di due saggi su storie di straordinarie donne sarde dimenticate dalla storia (pubblicato da L’unione Sarda e La Donna Sarda), ho incontrato una storia che mi ha folgorato. Più che una storia è un oggetto che adesso non posso rivelare. Da lì ho capito quale sia la mia esatta funzione nel mondo e ho iniziato la mia ricerca scrivendo il saggio di cui mi sto occupando. Quando riesci a capire la tua funzione nel mondo e ti senti in totale eudaimonia, fare scelte radicali che ti portano a cambiare vita non è così assurdo come può apparire dal di fuori. L’assurdo è vivere una determinata vita solo perché è quello che gli altri si aspettano da te.

Scatta una fotografia a quella che è la donna sarda di oggi e spiegaci quali sono state le fasi, nella storia della Sardegna, che ci hanno condotto ad essere ciò che attualmente siamo.  Premetto che non amo molto le categorizzazioni, penso che, quindi, definire “la donna sarda” come se fossimo tutte uguali è impossibile, tentare di farlo sarebbe fuorviante. Conosco donne sarde troppo diverse e gestire un gruppo social con oltre 12 mila e 600 donne mi dà la contezza di questa diversità. Certamente però riconosco che noi donne sarde abbiamo evidentemente qualcosa che ci contraddistingue che anche la grande Joyce Salvadori Lussu aveva notato dicendo parando di fierezza e determinazione. Quello che posso dire che colpisce me è che in Sardegna le donne conservano con orgoglio e grande maestria antiche tradizioni di enorme valore etno-antropologico e lo fanno con una serietà e precisione che ha permesso di percorrere in linea retta la storia un tesoro immateriale inestimabile che è un linguaggio sacro portando fino a noi antichi simboli da un lontano passato, ricette preziose dove arte culinaria e incantesimi si fondono, forme e antichi segni di profondo significato simbolico in manifestazioni d’arte che hanno attraversato inalterate i millenni con un sapere tramandato da donna a donna. Questa fedeltà alle tradizioni delle donne sarde mi incanta anche perché ha attraversato millenni, ostacoli e contrasti. Nei paesi che ho avuto la fortuna di conoscere più profondamente, le donne mi hanno insegnato a tessere gli antichi simboli degli arazzi, a fare i pani rituali, riti legati alle energie e le paste sacre facendomi vivere l’onore di sentirmi depositaria di questi saperi arcaici. Le donne sarde che tramandano le tradizioni per me sono depositarie del sacro. Vorrei che ognuna di loro sapesse che ogni volta che compie un gesto per tramandare ritualmente queste tradizioni, nelle loro cucine, nelle loro stanze e nei loro telai, incarnano i valori della Dea di cui la nostra terra è ancora fortemente intrisa, nonostante i devastanti tentativi di demonizzazione che abbiamo subito durante l’Inquisizione, e devono essere consapevoli di questa sacralità che ci appartiene. Abbiamo avuto donne straordinarie e di grande ingegno e capacità spesso ignorate dai libri di storia o definite con poche righe solo perché donne. Quando ho letto tutte le lettere private di Grazia Deledda, che, ricordiamolo, è stata l’unica italiana a vincere sinora il premio Nobel per la letteratura, ho capito qualcosa dello spirito indomito di molte donne sarde. Io ero alla ricerca di un segreto. Volevo sapere come aveva fatto questa donna, che aveva frequentato la scuola sino alla quarta elementare in una Nuoro dal conformismo soffocante che relegava le donne al ruolo di madri e mogli, ad arrivare sino a Stoccolma a ritirare il premio dei premi. Il segreto era, prima ancora che nella sua produzione letteraria, nel suo carattere determinato, caparbio e nella grande consapevolezza di sé e del suo intrinseco stato divino. Ecco. Se mi chiedi una caratteristica che forse può distinguere le sarde, potrebbe essere questa. La profonda consapevolezza di essere Dee. A volte c’è solo nel potenziale, come una scintilla tra la cenere, e allora bisogna risvegliarlo. Le donne sarde tendenzialmente sanno quello che vogliono e anche quello che non vogliono. I dati Istat ci raccontano ad esempio che siamo la regione in cui abbiamo tra i più alti tassi di disoccupazione femminile e anche che è la prima regione per l’uso della pillola anticoncezionale con un numero doppio rispetto alla media nazionale. Questi dati li leggo come una presa di posizione: le donne sanno che il carico familiare è ancora a loro carico quindi, non avendo piena indipendenza economica, riducono le nascite col sistema più efficace. Mi pare indice di forte determinazione e consapevolezza.

Cosa significa, per te, essere femministi/e? Perché in Italia oggi è più che mai importante parlare di femminismo?  Al di là di quello che erroneamente viene spesso veicolato dal sentito comune e ignoranti frasi svalutanti, è primariamente importante sottolineare che il femminismo non è il corrispettivo femminile di maschilismo. Mentre il maschilismo si basa sul dominio di un sesso su un altro, il femminismo è un movimento socio-culturale volto alla parità di genere. Non sostenere il femminismo oggi, significa quindi sostenere il dominio di un sesso su un altro: un pensiero deprecabile degno di una subcultura che va via via sgretolandosi che associo all’ignoranza più bieca e ad un livello evolutivo rasoterra che mi fa orrore. La prima ondata femminista ha certamente agito con metodi divulgativi molto tranchant, ma era fisiologico per l’epoca per creare una rottura di sistema necessaria. Oggi facciamo un lavoro divulgativo più armonico e giustamente più in equilibrio con gli uomini e col maschile in generale. È e deve essere un lavoro di squadra da fare assieme, uomini e donne, perché il principio resta sempre l’esigenza di creare un mondo inclusivo, più giusto ed equo dove i diritti siano goduti dalle persone senza distinzione di sesso. Un mondo così porterebbe vantaggio in termini di benessere in ogni senso a tutte le persone, non solo alla parte femminile dell’umanità. Una ricerca della Banca mondiale ha dimostrato che una comunità in cui le donne fanno parte del sistema decisionale e produttivo ha un aumento considerevole del PIL, ad esempio. Per approfondire il tema del neofemminismo rimando al libro (Parole Avanti. Femminismo del terzo millennio, ed Palabanda) della mia cara amica Claudia Sarritzu, che peraltro mi ha citata intervistandomi in otto lunghe pagine di cui le sono enormemente grata.

Sei co-fondatrice della rete Heminas. Quali sono, a tuo avviso, le battaglie femministe da portare avanti? Amministro il gruppo con Annamaria Busia che, oltre ad essere una mia amica a cui sono legata come una sorella, è una delle più grandi penaliste sarde che ha scritto un pezzo importante della storia del diritto italiano essendo autrice, tra le altre disposizioni legislative, della legge a tutela delle orfane e degli orfani delle vittime di femminicidio. A oggi siamo 12.622 nella rete e il numero cresce ogni giorno. I punti su cui lavoriamo sono soprattutto il linguaggio di genere – che portiamo avanti anche col prezioso supporto di Cecilia Robustelli, docente di linguistica all’Università di Modena e Reggio Emilia che collabora con l’Accademia della Crusca – la parità salariale – perché ancora assurdamente, a parità di lavoro, le donne sono pagate meno degli uomini –  la lotta alla violenza di genere  – che ha assunto le dimensioni di un olocausto e che richiederebbe uno stato di emergenza e misure estese e mirate di intervento – e la presenza delle donne nei ruoli decisionali perché ancora, se in teoria non ci sono barriere, continua ad esserci un tetto di cristallo che, per tanti motivi, non si riesce a superare.

Sei una donna che fa rete, una donna per le donne. Quanto è importante la coesione tra donne, la cosiddetta sorellanza? Quali sono i muri contro i quali si scontra? Sono le donne ad ergerli secondo te? Se ci fai caso, in questa intervista ti ho già citato diverse donne. Una delle best pratices per fare rete che uso abitualmente e che promuovo è quella di citare sempre almeno altre due donne che stimo quando mi si da l’occasione di avere visibilità con una intervista, una conferenza o altro. Per me questa è una forma di sorellanza. La storia ci ha reso invisibili per millenni. Distribuire la luce è il primo gesto che possiamo compiere per fare rete e io spero che diventi contagioso. La sorellanza esiste tra donne che conoscono il loro valore e che sanno che dare luce ad altre non diminuisce la propria, ma anzi, la aumenta. Sempre. I muri che abbiamo dipendono dalla storia. Ci hanno talmente tanto relegate all’ombra che trovarci alla luce a fare ciò che desideravamo è cosa a cui ancora non siamo abituate. Il gioco di squadra lo stiamo imparando e io vedo ogni giorno moltissime manifestazioni concrete di questo. Ce la faremo.

Cosa pensi dei movimenti come #metoo e time’s up? I social, in quella che oggi viene definita la quarta ondata di femminismo, aiutano a veicolare i giusti messaggi o no? Non si rischia, secondo te, di avere tanta presenza in rete e poca sui territori? Fai un’osservazione interessante. È vero che la presenza virtuale non sempre si riesce a convertirla in esperienza reale. Detto altrimenti, non è sempre che un like corrisponda a una persona che poi esce di casa e viene a una manifestazione. Detto questo però la rete è secondo me uno strumento potentissimo e benedetto che ha permesso una grande evoluzione culturale e coesione.  Grazie alla rete abbiamo preso coscienza del nostro valore, dei nostri diritti, ci uniamo, veicoliamo messaggi, agiamo per far sì che vengano modificate situazioni, titoli di giornali e decisioni che vanno contro i nostri diritti. Grazie alla rete ci sono donne che hanno acquisito consapevolezza che quello che stavano vivendo era una forma di violenza che non dovevano subire e si sono tutelate. Mi chiedi se i social veicolino bene i messaggi o meno, ma i messaggi siamo noi che li veicoliamo e anche i social siamo noi che possiamo decidere come usarli. Io ad esempio faccio molta selezione e quello che scorre nella mia home page sono solo cose che trovo utili e arricchenti. È vero che a volte c’è molta confusione e circolano notizie false. Ma, conti alla mano, vedo decisamente più vantaggi che difetti nella capacità divulgativa della rete.

Le disparità di genere si avvertono più che mai nel mondo del lavoro. Quale è stata, in quest’ottica, la tua esperienza personale? Ti sei mai sentita messa da parte sul lavoro o presa meno sul serio in quanto donna? Quando facevo l’avvocata e lavoravo in studio col mio ex marito, regolarmente i/le clienti mi chiamavano dottoressa o signorina, scambiandomi per una praticante o per la segretaria, mentre avvocato era un titolo che riconoscevano quasi solo a lui, in quanto uomo e quindi più in linea con l’immaginario stereotipato. Non aveva nessuna rilevanza la mia laurea a pieni voti, il mio titolo sulla targa e la mia competenza. In quanto donna dovevo lottare anche per far riconoscere il titolo che mi ero guadagnata.  Posso anche dirti che il mio interesse viscerale per le tematiche femminili nasce proprio da una discriminazione che ho subito. Ed è avvenuto ad opera di una donna. Era la presidente della commissione per l’esame di avvocato/a e io ho dato l’esame orale mentre ero incinta di 8 mesi. Era estate e, tra la nausea, il caldo feroce e i mesi di notti insonni tra stato fisico e tensione, io non sarei stata in grado di essere interrogata per ultima in quella giornata come prevedeva l’ordine alfabetico. Ho chiesto dunque di essere interrogata tra le prime. Non solo lei ha tentato di rifiutare la mia richiesta peraltro ovviamente legittima e giustificata, ma ha usato un atteggiamento enormemente sgarbato tentando di ostacolarmi in ogni modo e dandomi il chiaro messaggio che quello non era posto per una donna che vuole pure un figlio e che il mondo del lavoro è duro per una madre che lavora, quindi dovevo capirlo subito ed essere schiacciata sul nascere. Se non fossi stata così preparata, non avrei potuto schivare tutti i numerosi attacchi per cercare farmi cadere all’esame perché il suo atteggiamento era molto ostativo. Ho vinto io e brillantemente, ma non potrò mai dimenticare come ha tentato di annientarmi e come mi ha fatta sentire. Ma come sempre cerco di fare opera alchemica e trasmutare il piombo in oro. Da quel momento ho iniziato tanti progetti bellissimi per proteggere le donne rappresentando un’organizzazione ONU, facendo numerose pubblicazioni, un giornale, dei libri, ecc. Proteggere le donne e il sacro femminile è diventata, anche grazie al dispiacere che mi ha fatto provare, la mia ragione di vita.

E gli uomini? In quali stereotipi sono imprigionati? Quale deve essere il loro ruolo in questa battaglia?  Molti uomini – non tutti per fortuna – sono imprigionati negli stessi stereotipi in cui sono imprigionate anche tante donne, ahinoi. Le donne maschiliste sono molte. Il ruolo degli uomini in questa che, più che battaglia, definirei evoluzione culturale, è fondamentale. Parlando con la mia amica Cristina Cabras, docente di psicologia sociale dell’Università di Cagliari, ho capito che l’unica cosa che davvero impedisce alle persone di aprirsi alla parità è solo la paura. Chi sostiene il maschilismo e i suoi ridicoli e pericolosi stereotipi sono persone terrorizzate dal perdere il loro ruolo in un teatrino sociale. Hanno paura di abbandonare la zona di comfort che le certezze del sistema patriarcale dà l’illusione di avere. Gli stereotipi sono gabbie ideologiche. Ma molti uccelli non sono capaci di vivere fuori dalle sbarre. Non saprebbero dove andare, hanno paura di non avere riferimenti. Il lavoro culturale in corso è quello di mostrare che fuori da quei miserabili confini esistono orizzonti sconfinati di enorme bellezza e vantaggio per tutte le persone. La parità accresce il benessere. Gli uomini che lo hanno capito – e io ne conosco molti – danno un supporto meraviglioso e nutriente a questo cammino dell’evoluzione umana.

Cosa significa essere donna oggi? Quali i nostri diritti, doveri, limiti e peculiarità?  La pantagruelica mole legislativa che assicura la parità sia sul campo internazionale che nazionale ci mostra ancora una dicotomia tra l’essere e il dover essere del diritto: le leggi dicono qualcosa, ma la realtà ne racconta un’altra perché le donne hanno ancora difficoltà di accesso al lavoro, vengono discriminate nelle selezioni, nell’accesso alle cariche politiche, subiscono violenze di ogni sorta per il fatto di essere donne non ubbidienti e sottomesse al sistema.  Essere donna oggi significa quindi dover fare ancora fatica per avere quei diritti che per gli uomini sono scontati, ma è anche un’esperienza che ha del meraviglioso. Abbiamo innata un’attitudine all’intuito, all’introspezione e al sacro. Il mio lavoro parte proprio dall’esigenza di far riscoprire ciò che storicamente è stato demonizzato del nostro corpo, del nostro essere, del nostro potere e della nostra storia per restituire consapevolezza di quel valore di straripante bellezza di cui ci hanno fatto perdere memoria e coscienza. Le nostre statuette femminili del Neolitico, che con Silvia Fanni e le altre studiose del Museo Archeologico di Cagliari porteremo in una mostra al Principato di Monaco, sono chiamate Dee. Ma in realtà essere donna o essere Dea in quel tempo non era cosa diversa. Ogni donna era considerata una Dea. Oggi dobbiamo solo riscoprirlo.

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6 commenti

  1. Come diceva la Hemina delle Heminas Daniela Ducato, bisogna saper tessere. E tu lo sai fare

  2. Trasformare in luce ogni relazione di sorellanza grazie Cristina

  3. Fare rete é fondamentale per donare voce alle numerose storie di donne ..da ieri ad oggi per un domani più
    giusto! Grazie Cristina

  4. Onore al merito! Complimenti

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