SI DA PER SCONTATA LA DISOBBEDIENZA COLLETTIVA, MA I NUMERI SMENTISCONO: NON E’ COLPA DEGLI ITALIANI SE IL VIRUS NON VA VIA

di FLAVIA PERINA

La penultima è il check point per il ponte pasquale, e va benissimo: come ai tempi delle bande chiodate di Francesco Cossiga siamo in emergenza, la gente muore, non staremo a sottilizzare sui mezzi con cui si procede alla caccia all’untore, al runner, al vecchio imboscato per la partita a briscola e ad altre forme di trasgressione criminale tipo la madre che cerca di acquistare pennarelli al supermarket. L’ultima è l’obbligo di mascherine, sciarpe o foulard in Lombardia e forse pure in Toscana, e anche qui nessuna obiezione: taciteremo la vocina che dice “Ma come, non erano inutili?” e ci adegueremo alla disposizione. E tuttavia c’è un sottotesto che stentiamo a digerire e cioè l’idea che la lentezza con cui la curva del contagio scende sia nostra responsabilità, di noi italiani, dei comportamenti privati del cittadino medio e di una catena di violazioni individuali che, guardando i numeri, appare irrilevante.

Il Viminale ha comunicato che dall’11 marzo al 4 aprile le forze di polizia hanno controllato 4.859.687 persone e 2.127.419 tra esercizi ed attività commerciali. Complessivamente le contestazioni ai cittadini per inosservanza dei divieti anti-Covid sono state 11.738: appena il 2,38 per cento. In questa già irrisoria percentuale è compresa la signora C. multata per aver lasciato il marciapiede ed essersi addentrata per cento metri nell’Insugherata col suo cane. O anche il signor D., sorpreso a 500 metri dal suo appartamento con un litro di latte che poteva comprare sotto casa. I numeri raccontano un’Italia svizzera, prussiana, coreana (del Nord) nell’obbedienza agli ordini. Su 87mila imprese e negozi verificati nella giornata del 4 marzo solo 173, lo 0,2 per cento, hanno meritato una multa: tutti gli altri, il 99,8 per cento, sono risultati in regola, da Trento a Palermo. Cosa si chiede di più?

Ci sono due possibilità per spiegare la colpevolizzazione di massa del Paese da parte del circuito politica/media. La prima è che il mondo degli opinion maker sia succube dello stereotipo che vuole gli italiani anarchici, trasgressori per costituzione, cronicamente incapaci di attenersi alla regola, e quindi si regoli di conseguenza. “Troppa gente in strada”, la frase che tutti ripetono ogni giorno, può essere il frutto di questa distorsione culturale: si dà per scontata la disobbedienza collettiva, anche se i numeri la smentiscono del tutto, e si appende lì l’irritazione per la mancata decrescita dei contagi. L’altra ipotesi è meno innocua. Sono passati quasi 30 giorni dall’avvio della quarantena nazionale, due mesi dall’inizio dell’emergenza, e l’irriducibilità del virus in alcune aree del Paese comincia a risultare inspiegabile: il modo più facile per evitare domande complicate su focolai, sanificazioni, efficienza del servizio sanitario, è puntare l’indice sui comportamenti privati. Si vorrebbe dire a tutti: state tranquilli e imparate a guardare il Paese. Guardate l’erba che cresce tra i sampietrini di Piazza Navona, dove da settimane non passa più nessuno. Ascoltate il silenzio spettrale dei luoghi di maggior disagio, delle periferie con gli appartamenti di sessanta metri quadri, dei bassi napoletani, delle carceri. Apprezzate la disciplina delle famiglie con bambini, che tirano avanti senza più scuola, parchi, sport. La tacita reclusione degli anziani che vivono soli, lontani dai parenti e spesso privi di ogni sostegno esterno. Il rigore delle code a un metro di distanza. La fatica psicologica di milioni di lavoratori rimasti a reddito zero che telefonano alla Caritas invece di assaltare supermercati. Ditegli grazie, ogni tanto, a questo Paese: per farcela, per conservare lo spirito che ci servirà nel “dopo”, serve pure un po’ di generosità ed empatia, oltre ai check point di Pasqua ai caselli autostradali.

linkiesta.it

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