MAGISTRATO, PARLAMENTARE, SCRITTORE, INTELLETTUALE: LE QUATTRO VITE DI SALVATORE MANNUZZU

ph: Salvatore Mannuzzu
di VITO BIOLCHINI

Già da diversi anni Salvatore Mannuzzu viveva in una sorta di altrove, una dimensione speciale di passaggio. Lo testimoniano le dediche che apponeva con scrittura minuta ed elegante sui libri che donava agli amici o alle persone con le quali aveva mantenuto in qualche modo un rapporto.

Nel 2010 definiva “Polvere d’oro”, una raccolta di suoi radiodrammi, “un libricino praticamente postumo”; e nel 2012 completava così “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”: “L’ultimo (per ordine di stesura e speriamo in tutti i sensi, le jeux sont faits) libro di Toti Mannuzzu”. “Testamenti” è infine il titolo del volume che nel 2017 ha raccolto le sue riflessioni pubblicate da Avvenire, il quotidiano cattolico di cui era collaboratore. Si stava preparando, e così tutti coloro che lo sapevano oramai da qualche tempo in precarie condizioni di salute e piegato dal dolore della scomparsa della moglie prima e della figlia poi. Salvatore Mannuzzu è scomparso ieri nella sua Sassari all’età di 89 anni.

Possiamo dire che ha vissuto tante vite: è stato magistrato, parlamentare, scrittore e intellettuale.

Da magistrato è stato protagonista insieme a pochi altri (ricordo, ad esempio, il suo caro amico Antonio Porcella) del processo di democratizzazione della giustizia in Sardegna, ancora oppressa da una schiera di professionisti del diritto nati e cresciuti nel periodo fascista e che quella visione autoritaria imposero nelle aule di giustizia della neonata Repubblica. Mannuzzu era diverso. Per capirci, portava dentro di sé ancora il peso di una condanna che sapeva ingiusta: ne parlava con dolore ancora a distanza di decenni.

È stato parlamentare del Pci dal 1976 al 1987, anni terribili per la democrazia italiana e di grande travaglio per la sinistra. A Roma portò la sua visione di “uomo della Rinascita” (e di questo fra poco) e di esperto di diritto, in una stagione in cui la lotta al terrorismo giustificò la compressione dei diritti fondamentali di libertà.

Mannuzzu è stato poi un intellettuale, cioè una persona che lavorato nella società perché le idee della politica trovassero un riscontro nel confronto pubblico. Sotto questo aspetto, è stato il fautore di una stagione particolare per la Sardegna, quella della Rinascita, ovvero della modernizzazione dell’isola avvenuta negli anni sessanta. La voce di quegli anni fu la rivista Ichnusa, di cui Mannuzzu fu animatore (nella sua seconda edizione, a partire dal 1956, e nella terza, conclusasi nel 1993) insieme ad Antonio Pigliaru (il padre dell’ex presidente della Regione, fondatore della rivista) e, tra gli altri,  a Manlio Brigaglia e Giuseppe Melis Bassu.

Gli anni della Rinascita li raccontò anche film di Fiorenzo Serra del 1965 “L’ultimo pugno di terra, di cui fu tra i consulenti insieme ad altri intellettuali del calibro di Brigaglia, Pigliaru, Beppe Pisanu (sì, proprio lui), Giuseppe Fiori, Luca Pinna e Michelangelo Pira. Ma non cercate il suo nome nei credits, non lo troverete: perché allora Mannuzzu si celava dietro la fittizia identità di Giuseppe Zuri. Faceva il giudice, non riteneva opportuno mischiare i ruoli. Pensate quanta distanza dal narcisismo imperante di oggi!

Infatti con lo stesso nome esordì nella letteratura con Rizzoli nel 1962 con il romanzo “Un Dodge a fari spenti”. Le note di agenzie lo ricordano soprattutto per “Procedura”, romanzo con il quale nel 1989 si presentò nella scena nazionale, ma a mio avviso Mannuzzu raggiunse la sua vetta con il bellissimo “Le fate dell’inverno”, uscito per Einaudi nel 2004 (e che nella mia testa continuo a ricordare col titolo che l’autore avrebbe voluto dargli, “La macchia bianca”).

Il suo percorso letterario è stato ben raccontato dal critico Alessandro Cadoni nel libro “Il fantasma e il seduttore”, pubblicato da Donzelli nel 2017.

Mannuzzu intellettuale: c’è un saggio fondamentale nella sua produzione ed è “Finis Sardiniae”. Chiude il volume “La Sardegna” pubblicato nel 1999 da Einaudi nella collana dedicata alle regioni ed è un testo che ancora oggi, a vent’anni di distanza fa discutere e divide. Perché, come dice bene il titolo, per Mannuzzu la Sardegna, travolta dalla modernità, non c’è più, e ogni tentativo di salvarne la cultura e la lingua è inutile e posticcio.

Negli anni mi sono gradualmente e inesorabilmente ritrovato dall’altra parte della barricata rispetto a questa posizione, che ho ritrovato costantemente negli orfani del Pci (e soprattutto quelli di cultura sassarese), incapaci di riconoscere fino in fondo l’essenza “nazionale” della nostra isola.

Ma c’è un altro testo che merita a mio avviso di essere ricordato ed è la straordinaria e dolorosa riflessione che Mannuzzu fece (se non ricordo male, sul manifesto) sui terribili fatti avvenuti a Sassari nel carcere di San Sebastiano, quando nel marzo del 2000 la protesta dei detenuti scatenò una vergognosa repressione di stile sudamericano. Le sue parole furono un faro nel buio di quei giorni.

Completata la biografia, affiorano i ricordi. Una gentilezza unita ed una cultura rare in Sardegna. Mannuzzu era un intellettuale di statura europea e si muoveva a suo agio tra riferimenti letterari e storici che attraversavano i secoli. La sua scrittura è di un altro livello. E come per Sergio Atzeni, nessuno in Sardegna ha purtroppo raccolto il suo testimone.

La curiosità di comprendere i fenomeni nuovi. Tra il 2003 e il 2004 lunghe telefonate per parlare di Renato Soru. Voleva capire cosa stava accadendo. Un uomo tormentato e profondo che ci ha lasciato una eredità eccezionale su temi come la giustizia, la Sardegna, la fede, il dolore. In una sola parola, la vita.

L’ultimo incontro a Macomer nel corso della Mostra del Libro del 2012. Il suo fu un magistrale intervento sulla necessità dell’azione culturale in Sardegna. Gli chiesi più volte di pubblicarlo, alla fine ha prevalso la sua ritrosia. Chissà se nei suoi archivi si troverà il testo.

Dopo il dibattito, ci sedemmo a fianco al ristorante Marghine. Era una giornata freddissima, fuori nevicava. C’era nel suo conversare la dolcezza di un incontro finale. Che rivivo ancora oggi, con riconoscenza.

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