MIGRANTI DI IERI E DI OGGI SUL PALCO CON “LA VEDOVA SCALZA” DI NIFFOI: CON IL C.S.C.S. A MILANO, LO SPETTACOLO TEATRALE DI MARIA VIRGINIA SIRI

Maria Virginia Siri e Giovanni Cervo
di SERGIO PORTAS

Il pubblico del Teatro Blu di via Cagliero era formato quasi tutto da migranti, di razza bianca però, pochi i giovani non accompagnati e i  bambini, sbarcati per lo più molti anni fa da navi vagamente fatiscenti ( nulla a che vedere per carità coi barconi di adesso che attraversano ogni giorno il canale di Sicilia), poche le “cuccette” per le molte persone che si accalcavano sul ponte delle imbarcazioni. Molto contesi i posti sotto le scialuppe di salvataggio (poche anche esse in verità per tanta gente imbarcata ma erano tempi in cui si credeva ancora alla Divina Provvidenza), ci si poteva stendere sopra le stuoie, ognuno stendeva il suo tovagliolo a quadretti bianchi e blu, e si imbandivano cene a base di pane e salsiccia, pane e formaggio, pane e uova sode, un sorso di vino, ai bimbi la borraccia dell’acqua. E se Nettuno non avesse fatto troppo scarrocciare la barca nella notte c’era verso che la cena così concepita non fosse ributtata in mare a schizzi di vomito, come ahimè succedeva il più delle volte. Allora i porti erano aperti, non si doveva aspettare giorni e giorni per sbarcare come può capitare oggi a qualcuno, vero è che i sindaci delle grandi città, Milano, Torino, Genova, case e lavoro per tutti questi che arrivavano senza essere invitati non ne avevano mica, e i famosi cartelli di “non si affitta ai meridionali” fiorivano in ogni ambito delle città. Noi sardi, i migranti qui pervenuti per lo spettacolo adattato e diretto da Maria Virginia Siru tratto dal romanzo di Salvatore Niffoi: “La vedova scalza”( Adelphi edit.), sono quasi tutti sardi, ci inventammo allora dei centri di associazione che in qualche misura si prendessero carico di questi arrivi tumultuosi, e nacquero così i “circoli sardi”: davano indicazioni, aiutavano a trovare lavoro, a interagire con l’”autorità”: il Comune, direttive per trovare un letto in ospedale se ci si ammalava. Anche se oggi quell’emergenza non è altro che  ricordo di anziani che hanno dovuto barattare la loro lingua madre con l’italiano televisivo, l’”imprinting” originario dei circoli fa si che i soci guardino al fenomeno dell’immigrazione globale che “minaccia la sopravvivenza dell’uomo bianco” (cito da una dichiarazione del Presidente la Regione Lombardia, tale Fontana, mica un leghista qualunque) con una ottica più compassionevole. Non c’entra che poi uno voti a destra o a manca, è che il ricordo di quando lui è stato il migrante di turno, quello non l’ha mai abbandonato, né la ferita apertasi nel lasciare parenti, amici d’infanzia, amori adolescenti, profumi del paese a primavera, quella ferita non si è rimarginata mai. E guarda con un po’ di sbigottimento questo autoproclamatosi “governo del cambiamento” che dà il titolo di “sicurezza” a leggi atte a, si spera, regolamentare il fenomeno migratorio. Così accoglie oggi con estrema simpatia Maria Virginia Siriu che questo spettacolo ha già portato a Cagliari, all’Auditorium comunale di piazza Dettori, nell’ambito del Festival di teatro e di cultura non-violenta che si è svolto nel capoluogo isolano: il “Love Sharing”, giunto oramai alla sua quarta edizione: titolo: “Migrazioni”, il valore della testimonianza diretta. Lei, assieme al gruppo teatrale che dirige: Theandric Teatrononviolento, ha messo su un programma che dà una risposta (politica ovviamente) alle problematiche immense che il fenomeno fa scaturire nella psiche delle persone: bastano i titoli delle mostre, degli spettacoli, degli incontri, per darvene un’idea, chi ha avuto la fortuna di parteciparvi ha potuto misurare direttamente come esista una alternativa possibile all’approccio muscolare, vagamente razzista, sicuramente anti umanitario, che il nostro governo italiano ha scelto di usare finora. La mostra “Hoping” dell’associazione “Asteras”: “ una mostra collettiva di arte contemporanea in cui i linguaggi dell’arte si pongono al servizio della coscienza, in un’indagine volta alla percezione di quanta speranza ognuno di noi è capace di donare”. E la mostra fotografica “Sguardi di migranti” a cura del progetto SPRAR( Servizio Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati, ndr.): Accoglienza metropolitana-la Collina. (a proposito di decreto “sicurezza” che gli SPRAR va cancellando). Gli incontri alla Manifattura Tabacchi del 25, 26, 27 ottobre: “Modelli, strumenti e prassi alternative nella lotta all’emarginazione” a cura di ASCE Sardegna, “Vite di donne migranti”: salute, politiche di accoglienza e integrazione” del Centro Donna Cgil di Cagliari, “Migrazioni”: cose da sapere per vivere meglio e rimanere umani a cura dell’Università degli Studi cagliaritana. E poi gli spettacoli teatrali, oltre alla “Vedova”: “La Divina Commediola” di Gobbe Covatta, “Desparecidos come un granello di sabbia” de “Il Salto del Delfino”, e “Intime Frende/Intimi Stranieri” del Teatro del Lemming. E un sacco di altre iniziative del medesimo tenore.  Dove trovi la forza, la determinazione, il coraggio di andare contro-corrente Maria Virginia Siriu nel suo approccio alle politiche migratorie, sta tutto scritto nella sua biografia. Intanto è migrante pure lei, nata com’è a Lussemburgo ( nel ’67), a Cagliari arriva a sette anni e decide di farsi sarda come i genitori e qui scopre subito la sua vocazione teatrale ( al “Teatro e Musica” , dirigeva Claudio Susmel, a 15 anni), maturità classica al “Dettori” nell’ ’86 ma già due anni prima fonda la sua prima compagnia teatrale: “Il Villario”. Poi è tutto un frequentare corsi professionali per attori (all’Acroàma di Monserrato, l’educazione allo sviluppo all’Università di Cagliari, la didattica del testo filosofico con lo SFI/IRSAE, il corso di Cultura Islamica presso l’associazione “Mediterranea”) mentre si laurea in Filosofia a Cagliari nel ‘ 93 e in seguito consegue il perfezionamento post-lauream alla “Sapienza” di Roma: Relazioni pubbliche. Nel frattempo ha già debuttato con Guglielmo Ferraiola (Centro teatrale “ Il Crogiolo”) con uno spettacolo tratto da un testo di Garcia Lorca: “ Don Cristobal e Donna Rosita”. Approfondisce la formazione teatrale studiando   con diversi membri del CITC di Parigi diretto da Peter Brook. Nel 1997 l’incontro con Judith Melina con cui collaborerà come direttrice di scena e assistente di regia fino al 2003 presso il “Living Europa”. Ora tocca fermarsi, perché pur per sommi capi ci tocca di dire cosa abbia rappresentato il “Living Theatre” nella storia del teatro mondiale, Judith Melina lo fondò assieme al suo compagno Julian Beck nel lontano 1947 (ambedue giovanissimi, 22, 23 anni) e non è esagerazione dire che il gruppo teatrale ha influenzato la storia culturale e sociale americana e europea per oltre quaranta anni. Una pietra miliare nella storia della contro-cultura del novecento. Scrive Anna Bandettini su “Repubblica.it” del 10 aprile 2015 ( a 88 anni era morta Judith Melina, in una casa di riposo del New Jersey, povera in canna): “…Il Living Theatre, un gruppo di teatro ma anche una comune, un gruppo di amici che vive insieme, pratica la non violenza e l’amore libero, l’uso libero delle droghe e lo fa nella propria vita ma anche in scena raccontando tutto questo in spettacoli che segneranno un’epoca, spettacoli che da subito rompono il muro del teatro e delle sue convinzioni, dunque rappresentati per le strade, negli ospedali, nelle carceri: The Coonnection del ’59 ( sulla droga), The Brig (violenza dell’esercito), Paradise Now del ’68, Antigone del ’67…Leggendarie le loro tournée nel mondo, Italia compresa, che si trasformavano ogni volta in marce di protesta e contestazioni contro l’establishment”. Il timbro del “Living” è anche in questa “Vedova scalza”: due cubi di plastica trasparente sono tutta la scena, gli attori con il loro muoversi, intercalare, fanno tutto. Carla Orrù, Fabrizio Congia, Marco Secchi, diversamente vestiti e travestiti ( i costumi sono di Marilena Pittorru e Salvatore Aresu) sono i paesani di Laranei e Teculè ( dove basta un nulla per sprofondare nell’aldilà): il coro di malelingue che tratta Mintonia da bagassedda: i giovani a cui tocca partire per la guerra: e poi Rufina la moglie del brigadiere Centini: Micheddu quello che ti fa innamorare a quindici anni e te lo prendi anche contro il parere di tutti. Insomma è la Barbagia di Niffoi abitata da angeli e sopratutto da diavoli, con la maschera cornuta, interamente di sughero, de “Su Bundhu” di Orani. Amore e morte che si intrecciano ontologicamente, destini che sembrano prefigurati senza che una via di scampo si possa intravvedere, vendetta che deve seguire inesorabile a uno sgarro, a una morte violenta. Neppure Mintoia riuscirà a sottrarsi all’odio che la prende quando le riportano in paese il corpo squartato del marito. A nulla sarà servito essere andata a scuola fino alla sesta elementare (Mintoia, Mintoiedda/ como chi iscis a leghere e iscriere/ ma po no suffrire/ depes imparare a bolare) e aver imparato persino a scrivere in italiano: “ S’italianu es pro sos riccos, a sarciare e truvare crapas bastata su sardu!”. Riuscirà a rompere il filo delle vendette solo al prezzo di andarsene, incinta e con un figlio piccolo, “all’Argentina”. Col il romanzo di cui Maria Virginia Siriu ha fatto adattamento e regia ( assistenza tecnica di Davide Marongiu), Niffoi aveva vinto il “Campiello” nel 2006, un premio che decretano i lettori, ha dell’incredibile visto che lo scrittore di Orani si guarda bene dal tradurre le numerosissime espressioni in sardo con cui porta avanti il suo narrare. Ma così è ( era?) la gente di Barbagia: “Noi siamo zente che vuole istrumpare a terra il mondo e poi ci lasciamo futtere da magie e superstizioni…E se ci va bene cos’ì? Cosa ci possiamo fare? …Noi siamo come i nuraghi, tutto ci scuote e niente ci muove…(pag.102). Anche gli attori di Theandric intercalano in sardo e in italiano e poco importa se alcune loro  frasi rimangono oscure, dolore e sgomento non abbisognano di traduzioni fedeli. L’agitarsi del corpo, lo stravolgersi dei tratti del viso, il pianto dirotto, tutto parla la lingua universale che stringe gli umani al destino comune che li vede in perenne ricerca di identità, di senso del loro vivere su questa terra. A Milano hanno regalato una storia di quelle “nostre”: “unu contu de foghile”, i personaggi imbracati da ruoli rigidi, quasi stereotipati, che così li riconosci da subito. Eppure così umani, così universali. Drammi di vita che si replicano in ogni dove. Che commuovono e fanno pensare. Che riaprono ferite di nostalgia. Maria Virginia Siriu, prima della rappresentazione, dice del suo teatro “politico” che predilige temi che riguardano la comunità. Del pensiero non -violento che lo sottintende. Mi piace  pensare che si possa vivere meglio così, con giornate ricche d’anarchia, buttando dalla finestra le paure di quelle genti che vanno sbarcando sulle nostre coste. Condividendo piuttosto l’amore, come fanno i cagliaritani di “ Love Sharing”.

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