EPIFANIA IN SARDEGNA: QUEL CHE RESTA DE SA PASCA NUNTZA

di CLAUDIA ZEDDA

Paese che vai, abitudini che trovi, ma se vai in qualsiasi paese della Sardegna, troverai davvero poche tradizioni che attestino l’attaccamento della gente isolana alla festa dell’Epifania. Lo sospettavo, perché fin da piccola ho imparato ad osservare mia madre tutta presa nei preparativi per il Natale, per il Capodanno, ma disinteressata per l’arrivo della Befana. Non che la calzetta ci sia mai mancata, ricca di dolciumi prima, di strenne poi, ma non si è mai parlato di un dolce tipico, di un vincolo dettato dalla tradizione, di un’abitudine che tornasse indietro più di mezza generazione. L’epifania era piuttosto uno sbiadito ripetersi del Natale: riposino pomeridiano la vigilia, cenetta abbondante, parenti in giro per casa come lumache dopo la pioggia, e calzetta che magicamente compare dopo la mezzanotte. In fondo Alziator è stato nel suo “Karalis: la città del sole” quanto mai chiaro: la Befana, di evidente origine non indigena, ha sommerso le tradizioni locali, e proprio quelle interesserebbe ritrovare, per quanto ci sia da capire se di tradizioni isolane, in merito all’epifania, ce ne siano mai state. Che fosse giorno festivo ce lo dice anche la Carta del Logu, nella quale si legge che “Sa pasca de sa epiphania si clamat pasca nuntza”, e la si associa alle numerose altre pasche isolane. Anche il nome che in alcune località dell’isola  viene riservato alla cara, vecchia, instancabile Befana tratteggiano i contorni di una figura condivisa con tutta la penisola e tutta Europa: è chiamata sa femia vecchia o, più spesso sa bacucca ‘eccia con sa scova.

La Befana oltre mare Insomma una vecchia in sella ad una scopa mutuata dalle tradizioni nordiche nelle quali la Befana è piuttosto uno specchietto per le allodole dietro il quale si cela la meravigliosa Madre Natura che fa la propria comparsa la dodicesima notte dopo il Natale, proprio alla fine di quel periodo di transizione fra il vecchio anno che si conclude ed il nuovo che arriva. La donna è giunta alla fine dell’anno vecchia e rinsecchita pronta a morire, ma tutta intenzionata, prima di farlo, ad offrire dolciumi e regali. Secondo Cattabiani sono simbolo, nemmeno troppo criptico, dietro il quale si possono scorgere i semi dai quali lei, vita nuova, ricomparirà in veste di bella giovinetta nell’anno nuovo; insomma una concezione del tempo ciclica che non ci dovrebbe sorprendere poi troppo. Non è un caso che in buona parte dell’Italia settentrionale la vecchia e rinsecchita Befana, la notte del 5 si bruci in un fuoco bene augurante che allontana il vecchio e apre le porte al nuovo.

Epifania sarda e ricordi spagnoli In Sardegna resta il ricordo, seppure vago e di recente rispolverato, de sa pasca de is tres urreis, qualcosa di molto simile alla festività de els tres reis catalana, per lo meno nel nome. E gli spagnoli in effetti si dimostrano più coerenti con i testi sacri se messi a paragone con gli italiani: la notte dei regali in Spagna a tutt’oggi è quella dell’Epifania, festeggiata tra il 5 notte ed il 6 mattina. D’altronde furono i Reyes Magos a portare doni (ricordate la mirra, l’oro e l’incenso?) e non esattamente Gesù bambino appena nato. Ma non è né l’Italia, né la Spagna ad interessarci, piuttosto la Sardegna che timidamente lascia trapelare qualche tradizione tutta epifanesca, in quel misterioso dolce detto  dei tre Re. Stando a sentire quel che Caredda ha da raccontarci nel suo interessante saggio “Le tradizioni popolari della Sardegna”, in diversi luoghi dell’isola proprio per festeggiare l’Epifania, si creava un impasto dolce nel quale si mescolavano, fra gli altri ingredienti, un cece, una fava ed un fagiolo. Chi la notte della Befana trovava uno dei legumi nella propria fetta, non c’era che dire, sarebbe stato fortunato per tutto l’anno: avrebbe avuto una buona produzione di grano, di uva e di olive. Anche in questo caso, visto il nome del dolce, pare chiaro che l’uso sia di importazione catalana e davvero poco abbia a che vedere con sa pasca nuntza della Carta del Logu. Se poi si va a curiosare nella gastronomia spagnola si scopre che in occasione dell’epifania si prepara il tipico Roscon de Reyes, un pane dolce all’interno del quale si nascondono alcuni regalini ma anche una fava: chi la trova dovrà pagare il dolce. Più antico parrebbe essere l’uso di impastare una focaccia di pane bianco a forma di corona la notte di Capodanno o di fine anno; il dolce si chiamava su kàpidu ‘e s’ànnu, o sas Fikkas e portava incisi 12 anellini affiancati a 12 soli (i mesi dell’anno) e 12 fori (forse le lune). Questo dolce particolarmente affascinante si preparava nel Goceano, e nello specifico a Benetutti: il giorno dell’Epifania veniva spezzato sul capo del bambino più piccolo dal capo famiglia, a simbolo, dico io, di ciclicità e continuità dal vecchio al nuovo. C’è traccia anche di un’altra focaccia forata al centro chiamata pertusìta o pertupítta (il nome deriverebbe da  pertúpu “forato”, dato che la focaccia ha forma di ciambella), dal simbolismo propiziatorio. Veniva preparata a Nule o all’inizio dell’aratura o per San Silvestro. La si impastava con il quantitativo di pasta che normalmente si usava per confezionare sette pani normali e la si decorava poi con diversi simboli (sos frunimèntos) che si riferivano alla vita ed al lavoro nei campi. Anche in questo caso veniva spezzata sul capo del figlio più piccolo del contadino. La si preparava anche a Benetutti nelle case dei pastori e dei massai (era  regalata dai padroni ai pastori, in cui sono raffigurati un ovile con le pecore, la capanna del pastore, il cane etc) e veniva spezzata il giorno dell’Epifania, in questo caso però sul capo di un vitello, non prima di avercela fatta passare sopra ripetendo per tre volte  il segno della croce. Spezzata veniva distribuita equamente fra i membri della famiglia. Ultima tradizione che si lega alla festa dell’Epifania, che merita di essere ricordata è quella algherese delle arance. I più piccoli dovevano necessariamente procurarsi una o due arance sulla scorza delle quali praticavano delle piccole incisioni. Durante la questua che si effettuava per la festa si presentavano alle porte dei vicini mostrando l’arancia e chiedendo “Nem’estrèna?”. Nel caso più fortunato qualcuno inseriva nelle piccole tasche dell’arancia qualche moneta. Si tratta di un uso ancora oggi in pratica.

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