ARIA DI LIBERTA’ PER ERICA ANDREA MIGHELA: PRIMA IN ARGENTINA, ORA IN IRLANDA ALLA RICERCA DI FORZA ED INDIPENDENZA

ph: Erica Andrea Mighela

Erica Andrea Mighela nasce a Villagrande 24 anni fa. Vive la sua terra e le sue tradizioni, ma la voglia di partire non nasce subito. A 16 anni la curiosità la attanaglia. Il mondo si apre davanti agli occhi della ragazza che prende al balzo l’esperienza dell’Intercultura: Argentina come meta. Benché convinta di voler esplorare un angolo di mondo  diverso rispetto a quello cui è abituata, al momento della partenza è titubante: «Ricordo ancora la sensazione di totale smarrimento e di solitudine di quando sono arrivata».

Si sente estranea fino al decimo giorno, quando esplode in un pianto forsennato e probabilmente liberatore. Per i primi mesi, si sente stordita – i cambiamenti sono numerosi, estenuanti – e sola. Nonostante tutto, non pensa mai di mollare: è ferma nella sua mente l’idea che quella sia una strada giusta, il percorso adatto a lei. «L’inizio è stato molto duro. Era tutto diverso, ma veramente tutto. Neanche il cielo era lo stesso, sembrava più alto e più ampio. Il sole era accecante ma la notte era fredda, le strade erano sporche, le case scomode e spoglie, la moda era assurda, era pieno inverno e a scuola dovevamo stare con la gonna e i calzini alla caviglia perché quella era l’uniforme».

Si trova a Salta la Linda, città di 700.000 abitanti nel Nord-ovest dell’Argentina, alle radici delle Ande. «È la città che di più in Argentina ha conservato lo stile coloniale e le tradizioni sono ben radicate; la maggior parte degli abitanti ha i tratti andini, ma i cognomi sono spesso italiani o spagnoli, a volte arabi o indigeni. Intorno, ci sono valli e montagne rocciose e secche, dalla terra rossa e arancione, coperte dal verde dei cactus. Il sole è forte e accecante, l’altitudine e il caldo umido ti fanno sentire subito fiacco e appiccicoso, il respiro è più faticoso e la gente mastica foglie di coca tutto il giorno perché la pressione è forte e a volte la testa ti fa male da scoppiare. Ci ho messo un po’ per rendermene conto e quando è successo mi ha un po’ disorientato, ma lì l’Orsa minore non si vede, al suo posto c’è la Cruz del Sur».

Ospitale, generosa, festaiola e coinvolgente: la popolazione la conquista subito. Con il loro modo amichevole e gioviale, il popolo argentino ricorda tanto il nostro, si può fare il paragone da ciò che si evince dai racconti degli anziani villagrandesi. Forse è proprio questo a rapire Erica Andrea. La Sardegna manca, lei è tuttavia capace di concentrarsi solo sulle cose positive. «Per un po’, il ricordo dei sapori di casa, dei colori del mare, del Gennargentu, mi ha tormentato. Non potevo vedere certe foto o ascoltare certe canzoni senza che la nostalgia mi irrigidisse come un pugno sullo stomaco. Allora, ho messo da parte questi ricordi e ho concentrato i miei pensieri sulle guitarreadas senza fine,le empanadas e l’asado della domenica, le feste in cui non smettevi un attimo di ballare. Ho imparato a salutare come facevano loro, a dare bendiciones a destra e a manca, a ballare cumbia, a parlare con accento salteño».

Quest’esperienza le dà tanto: le permette di viaggiare e di conoscere non solo un’altra lingua ma se stessa.

Il ritorno a casa, dopo tanto tempo, è traumatico: a Villagrande sono successe molte cose, quindi Erica Andrea si sente spaesata in quella che è la sua stessa terra, ma anche lei è cambiata. È cresciuta, imparando molto da un’esperienza unica. Tutto procede normale fino al 2016, anno della corona d’alloro in Ostetricia, suo grande amore. Dopo la laurea torna a casa ma un pensiero le frulla nella testa costantemente, la tormenta: Villagrande è stretta, troppo piccola, oltretutto all’estero le porte per chi ha il suo bagaglio di studi sono spalancate. «L’insieme di queste cose mi ha portato a decidere, tra le mille idee che avevo, di andare in Irlanda e fare la ragazza alla pari, con l’idea di mettere da parte un po’ di soldi, darmi il tempo necessario per ambientarmi e farmi riconoscere il titolo per lavorare lì come ostetrica».

Parte in Irlanda come ragazza alla pari, molti non sono contenti ma lei vuole imparare bene la lingua e guadagnare qualche soldino. Questo periodo è uno dei più belli della sua vita: ha l’opportunità di ambientarsi, di imparare e di crescere professionalmente. «Soprattutto, mi sono innamorata dell’Irlanda, delle scogliere a picco sul mare, le distese color smeraldo che si estendono a vista d’occhio, addirittura anche della pioggia, della gente ospitale e sempre gentile, delle case e i pub caldi e accoglienti».

Rimane lì per 6 mesi. «Abitavo in un posto chiamato Harbour view, in una casa in campagna con vista su una grande baia e una spiaggia sotto casa. Da lì, vedi infinite distese verdi da un lato, l’oceano dall’altro, case sparse qua e là, fattorie, mucche pezzate che pascolano, qualche castello o abbazia risparmiata dal tempo. Ci sono dei paesi vicino, ma la gente vive per lo più in campagna, in case distanti l’una dall’altra. Per arrivare a casa di alcuni vicini ci mettevo anche 20 minuti a piedi».

È un periodo confuso, pensare a casa sua in Sardegna le provoca il magone, quando non è nel paese ogliastrino ne sente la mancanza… però crede anche che il suo futuro sia all’estero. Si blocca per un po’, poi decide di tornare a casa. Lasciare l’Irlanda è traumatico, straziante. Amici splendidi, bellissimi ritrovi, divertimento e un lavoro che le piace: tutto questo le torna spesso in mente, quando è a Villagrande. Ma il paesino non può essere la sola casa di una cittadina del mondo come Erica Andrea. Sì, probabilmente la sente casa sua nel cuore, ma la necessità di viaggiare la porta su lidi lontani. È per puro caso che nota un annuncio: cercasi ostetriche a Dublino. Poche ore e lei ha già tutto pronto: «Sarei tornata nella mia Irlanda, in un modo o nell’altro!»

Colloquio Skype e, in men che non si dica, risposta: assunta. L’ospedale la chiama in fretta e furia e il lavoro è lì che la aspetta. «Adesso vivo in uno di quei tipici cottage con il tetto gigante che si vedono in televisione. Sto vicino al centro, il che non è per forza un beneficio. Dublino è una città particolare, con aree disagiate immediatamente di fianco a zone ricche».

Erica Andrea spiega che Dublino ha delle pecche che non ci si aspetterebbe. A momenti moderna, a momenti antica. Offerte di lavoro a iosa, ma pochi alloggi. «Non mi piace, è grigia e sporca, la trovo anche ridicolmente cara».

Tutto sommato, però, si trova bene. «Non è Harbour view, ma essendo una città trovo tutto molto più facilmente che lì, dove stavo in campagna, e poi basta che prenda una macchina e in poche ore ci arrivo».

Lì a Dublino vivono una sua compagna di Università e una ragazza di Villagrande: questo le dà ulteriore forza ed entusiasmo. È un collegamento con la propria casa, un modo per non sentire la solitudine. «Ti fa sentire meno la lontananza da casa, fa davvero la differenza rispetto a quando tutte le persone intorno a te sono completamente nuove e vengono da un mondo a te estraneo. Questo primo periodo è stato comunque molto caotico, per una serie di problemi pratici, tra cui in particolare trovare un alloggio, ancora oggi non mi sono del tutto sistemata».

Lavora in un ambiente multiculturale e non essere del posto non è visto come una stranezza. I colleghi sono gentili e comprensivi. Certo, c’è chi, di visione ristretta, tratta male chi arriva – come racconta la 24enne – ma sono eccezioni: fioccano i complimenti sulla preparazione, ed è questo l’importante. L’Italia, spiega, è ben vista: i colleghi amano la cucina e l’idea della nazione. Lei e le sue colleghe vengono valorizzate molto: anche colleghi anziani, con 40 anni di esperienza, le trattano con rispetto e da pari. «In Italia ci avrei messo anni per avere un po’ di considerazione e credibilità, qua non fanno altro che chiedermi “e voi in Italia come fate?”. Il più grande aiuto comunque l’ho avuto dalle colleghe italiane che sono venute prima di me. Mi hanno accolta da subito e continuano a darmi consigli preziosi e a spiegarmi tutto con pazienza».

Avere a che fare con un’altra lingua è molto difficile. «È facile fraintendersi anche parlando la stessa lingua, figurarsi una che non conosci bene».

In Argentina, la difficoltà è meno marcata ma il pericolo è dietro l’angolo: la somiglianza con il sardo e l’italiano colma alcune lacune, permette di capire il senso della frase, certo, ma fa fare anche qualche scivolone. Infatti è necessaria un po’ di attenzione: del resto, come spiega Andrea, si può offendere qualcuno o essere fraintesi. «Questi episodi però mi hanno portato a curare maggiormente il mio castellano: dopo solo due mesi parlavo abbastanza fluentemente e con accento salteño, tanto da essere presa per una del posto. Ancora oggi, dopo 6 anni che ho lasciato l’Argentina, gli spagnoli si stupiscono della mia proprietà di linguaggio e a volte i sudamericani pensano che io sia argentina.»

Con l’inglese, parte con un buon livello ma nessuno le spiega alcune regole fondamentali. Le prime settimane, tragiche. In 5 mesi, Erica Andrea passa da un buon livello a quello di madrelingua. Ambientarsi alla cultura è difficile, sì, ma dipende tutto da come la si guarda. Si vuole stare in quel posto come turisti? O è meglio cercare di ambientarsi come se si dovesse restare? «Devi innanzitutto smettere di pensarla come un sardo, o come un italiano, o ricercare le cose che trovavi in Italia. Sei in un altro Paese ora e le cose funzionano in modo diverso. Devi veramente aprire la mente e lasciare andare atteggiamenti giudicanti, anzi devi cercare di capire come mai lì funziona così».

Per ogni quesito, trovate una risposta. Provate a mettervi nei panni del popolo con cui state familiarizzando… molte cose arriveranno così. I consigli di Erica Andrea sono precisi, meticolosi. «Una volta che apri la mente a una cultura ci saranno aspetti di quella cultura che apprezzerai e che faranno parte del tuo bagaglio culturale per sempre. A distanza di anni, ci sono ancora cose che riesco a dire solo in castellano, o che hanno senso solo in sardo, o che rendono di più in inglese. Ci saranno altre cose che invece non ti piaceranno, ma imparerai a conviverci».

Inoltre, familiarizzare con altre culture permette di conoscere meglio la propria. «Per esempio, in Italia parliamo con toni veramente alti e aggressivi paragonati a quelli di molte altre culture. Eppure non mi sono accorta di parlare così finché non sono stata in Argentina e tutti mi chiedevano di parlare piano. È la stessa cosa in Irlanda, e ora mi sono abituata così tanto a usare toni più bassi che ogni volta che torno a casa per un paio di giorni ho il mal di testa. Usare un atteggiamento positivo verso le cose ti fa stare bene ovunque. Qui in Irlanda ho ritrovato altre cose che a casa non trovo più, mi sento in armonia con la cultura e la gente e per me è casa».

Aprirsi completamente non vuol dire cancellare la propria cultura di base, spiega la 24enne villagrandese, ma cementificarla e arricchirla: «I sardi sono senza dubbio unici al mondo, ma non sanno fare festa come gli argentini e non sanno vedere la vita con positività come gli irlandesi».

In Irlanda, la fa soffrire la mancanza – o questo è quello che crede lei appena arrivata – di ospitalità. Quando si va a trovare un amico, racconta, questo ti accoglie distrattamente, continuando a fare ciò che stava facendo. Sembra, perlomeno a chi arriva dalla capitale dell’ospitalità, la Sardegna, una mancanza di rispetto mentre è un atteggiamento di fiducia. Puoi prendere ciò che vuoi, servirti da solo: lui ti considera di casa. Anche a tavola accade: tutti si mettono nel piatto ciò che vogliono. «La Sardegna la porto sempre con me, la porto nel cuore come se non fossi mai partita. La porto nella mia statura, di cui vado fiera perché ho cucito addosso il posto da cui vengo; nella semplicità e nella cordialità che mi permettono di farmi buoni amici ovunque; nella risata, che non si spegne davanti ai momenti difficili ma diventa più forte; ma soprattutto, nell’orgoglio di non dire mai “non ce la faccio”, di fare sempre ancora un altro sforzo. La Sardegna mi manca ogni giorno. Mi manca il Gennargentu, le piante dell’erica, il bosco di santa Barbara, i culurgioni, la carne arrosto, mettere il costume di paese, i balli sardi, le feste e gli spuntini, mi mancano tutte le persone che ho lasciato lì. Almeno una volta al giorno penso a cosa staranno facendo i miei familiari, i miei vicini di casa, i miei amici, le persone che incontravo per strada, e mi rendo conto di quanto mi mancano».

Oramai capisce le zie che abitano fuori e vogliono una foto o una chiamata frequente. Si ha bisogno della ferma tranquillità di Villagrande, di sentire che accade, come stanno le persone. Se ha piovuto. Se sono usciti i funghi. «Hai bisogno di sapere che niente è cambiato, che tutto è lì fermo ad aspettarti. Questo non significa che passi le giornate a piangere o al telefono con i tuoi. Diciamo che con il tempo ho imparato a convivere con la nostalgia».

Casa per lei è la Sardegna, certo, ma anche l’Irlanda e l’Argentina. «A volte sento gli odori, i sapori, ricordo le persone, i posti, i colori con così tanta precisione che mi sembra di essere lì in quel preciso momento e mi ci vuole qualche secondo per riprendermi e capire dove sono».

Quando torna, sta con amici e familiari. Si gode ogni istante. Sente il bisogno di tornare in Sardegna di tanto in tanto, ma non lo farebbe in via definitiva. Una cosa frustrante è che, quando si torna, sembra di essere un pesce fuor d’acqua. Si ha bisogno di raccontare e raccontare e ancora raccontare. Il mondo che si ritrova è diverso da quello che si ricorda. Ecco perché non c’è cosa più difficile del tornare a casa. A chi vuole partire, un consiglio importante: «Il momento giusto è ora, quando hai voglia di farlo, perché quando sei motivato non c’è ostacolo che ti fermi. Allo stesso modo, non permettere il giudizio altrui di fermare i tuoi progetti, anche quando tutti criticano la tua scelta o tutto sembra andarti contro. Se hai un’idea, un sogno, o un desiderio, lo insegui finché non lo realizzi. Infine, ricorda sempre che per quanto possa piovere in una giornata o in un mese o in un anno intero, per quanto certe giornate grigie ti tolgano ogni gioia di vita, alla fine il sole torna, e torna SEMPRE, e quando torna ti sembrerà che il mondo non abbia mai brillato così tanto».

Partire è doloroso, spiega. «Immaginate di dire addio a tutte le persone che avete sempre conosciuto, ai posti dove avete sempre vissuto,dire addio a parenti e amici che non sapete quando rivedrete. Immaginate di cercare di chiudere la vostra vita in una valigia da 20 kg: non ci sta niente, praticamente parti con solo te stesso.» incalza Erica Andrea. E poi, stare male e non sapersi spiegare, lavorare in un mondo che non si conosce. Senza contare i problemi pratici… casa, conto in banca, documenti. È un grosso ostacolo. Tutto è diverso. Sei debole, dice la 24enne. E sei solo. «Alla fine ti fai degli amici, impari la lingua, ti abitui alle cose che prima ti disorientavano, le cose che prima ti sembravano strane cominciano a avere un senso, finché un giorno ti rendi conto che un po’ comincia sentirti a casa. Quando attraversi tutte queste cose cambi modo di pensare, non sarai mai più lo stesso. Diventi forte e indipendente e quella che prima vedevi come solitudine ora la vedi come libertà».

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