GLI EVENTI DEL GIUGNO 1918: A PERENNE COMMEMORAZIONE DEL FIUME PIAVE

di DARIO DESSI’

Alla sinistra di chi viaggia a bordo dei treni  provenienti  da Meolo, poco prima che essi  arrivino al ponte ferroviario  e, subito dopo,  alla stazione di San Donà di  Piave, s’intravede una struttura di dimensioni alquanto imponenti sulla quale giganteggiano i caratteri in rilievo della scritta:   PIAVE FIUME SACRO ALLA PATRIA

Quel monumento, la cui visione appare  fugacemente agli occhi di chi è intento a osservare  il paesaggio che scorre fuori dal finestrino, venne eretto per commemorare il superbo  ruolo difensivo svolto dalle truppe italiane ed alleate lungo il corso del fiume Piave, che costituì l’estrema barriera difensiva dei confini dell’Italia subito dopo le note vicende di Caporetto.

Fu certamente un opera di alto significato celebrativo e commemorativo ma, oltre all’ingente somma di quattrini stanziata per la costruzione di un monumento di tali dimensioni, sarebbe stato, allora forse opportuno spendere  anche  qualche lira  per la progettazione e la sistemazione di qualche cippo, stele o lapide con il nobile e giusto intento di  commemorare quei tanti giovani sfortunati, che difesero le sponde di quel fiume sacro, sacrificando la loro vita per tutelare l’onore e la libertà dell’Italia.

Al giorno d’oggi, quando ormai sono passati a miglior vita gli ultimi reduci appartenenti alle classi  che ebbero modo di conoscere direttamente le violenze del passaggio della “GueraGranda”, ad ovest di San Donà, a ridosso del fiume Piave, senza la presenza di una qualche opera commemorativa che ricordasse quei tragici avvenimenti, si sarebbe corso il rischio di destinare l’importante  storia  dell’Operazione Albrecht  nel Basso Piave al definitivo oblio.

Recentemente, nel mese di giugno del 2008, sono stati inaugurati alcuni cippi e un monumento  a Fossalta, a Croce di Musile di Piave e a Losson della Battaglia per commemorare, a distanza di novant’anni la valorosa partecipazione della Brigata Sassari all’operazione Albrecht.

In futuro sarebbe auspicabile una efficace iniziativa volta  alla identificazione e alla valorizzazione  di quei luoghi dove fu combattuta la Battaglia del Solstizio e  dove il rinato esercito italiano riuscì a fermare e a respingere l’estremo tentativo di invasione da parte delle truppe scelte dell’Armata dell’Isonzo

 

Martedì 25 giugno Ernest Hemingway Era reduce da una capatina a Mestre dove si era recato  in  visita alla “Casa Rosa”.Il premio Nobel, dopo essere stato a Casa Botter a Fornaci di Monastier,  dove aveva sede la Casa del soldato e il posto di ristoro N. 14  dell’American Red Cross  andò nei campi di Battaglia dove, alcuni giorni prima, c’erano stati tremendi scontri e dove non  poté fare a meno di provare emozioni tremende per la sua ancora giovane età.In un racconto:  “Qualcosa che mai proverete”, tratto dal libro “I quarantacinque racconti”, scritto nel 1924, descrisse quanto aveva visto nei campi, dove, alcuni giorni prima, le truppe austroungariche avevano scatenato l’Offensiva Albrecht riuscendo ad occupare una striscia di terreno sulla sponda destra del fiume Piave. A questa aveva immediatamente fatto seguito una controffensiva Italiana, che dopo pochi giorni aveva costretto l’esercito asburgico a riguadagnare le loro posizioni di partenza sulla riva sinistra del fiume.

 

“ L’attacco era passato attraverso il campo, sostenuto dalle mitragliatrici che facevano fuoco dalla strada incassata e dal gruppo dei casolari, non aveva trovato resistenza nel paese e aveva raggiunto la riva del fiume. Percorrendo la strada in bicicletta, e portando la bicicletta a mano quando la strada era troppo accidentata, Nicola  capiva dalla posizione dei morti quel che era avvenuto. Giacevano isolati e a gruppi nell’erba alta dei campi e lungo la strada, con le tasche rovesciate e mosche sopra di loro e presso ogni cadavere o gruppi di cadaveri c’erano le carte sparpagliate.

Nell’erba e nel grano ai lati della strada ed anche sparpagliato sulla strada c’era molto materiale: una cucina da campo, doveva  essere giunta fin lì  quando le cose andavano bene; molti zaini di pelle  di  vacchetta, bombe a mano,  elmetti,  fucili, arnesi per  far  trincee,  scatole  di  munizioni,  pistole a  tamburo, le pallottole sparse intorno;

pacchetti di medicamenti, maschere antigas, custodie vuote di maschere antigas, una tozza mitragliatrice a treppiede in un lago di bossoli, nastri pieni sporgenti dalle casse, il recipiente per il raffreddamento ad acqua vuoto e rovesciato, scomparso l’otturatore, e la squadra degli uomini in posizioni strane e intorno a loro,  fra l’erba,  altri di quei caratteristici fogli di carta.

C’erano libri da messa,  gruppi formato cartolina con la squadra dei mitraglieri allegri e robusti come una squadra di calcio nella foto per l’annuario di un collegio; ora erano contorti e tumefatti nell’erba; cartoline di propaganda nelle quali un soldato in uniforme austriaca rovesciava una donna sopra un letto; le figure erano po’ impressionisticamente, graziosamente disegnate e non avevano nulla in comune con la vera e propria violenza carnale, in cui alle donne si tirano su le sottane sino alla testa perché non possano  gridare, e qualche volta sulla testa si siede un amico.

C’erano molte di quelle cartoline eccitanti, distribuite  evidentemente poco  prima dell’offensiva. Erano accanto a  oscene cartoline fotografiche; a piccole foto di ragazze di paese, eseguite da fotografi di paese, a ritratti di circostanza dei figlioli, e a lettere, lettere,lettere…C’era sempre tanta carta attorno ai morti e gli avanzi di quell’ attacco non facevano eccezione.

Erano altri morti e nessuno si era occupato d’altro che delle loro tasche. I nostri morti o meglio quelli che egli considerava ancora come ‘nostri morti erano inaspettatamente pochi, constatava  Nick. Anche le loro giacche erano state aperte le loro tasche rovesciate e, dalle posizioni in cui si trovavano, si capiva il modo in cui si era svolto l’attacco. Il gran caldo li putrefaceva tutti senza distinzione di nazionalità.

Evidentemente il paese era stato difeso, verso la fine dalle posizioni della strada incassata e pochissimi austriaci c’erano rimasti. Sulla strada c’erano soltanto tre cadaveri d’austriaci, che sembravano fossero stati colpiti mentre scappavano.

Le case del paese erano tutte colpite dai proiettili, le vie erano piene di pezzi d’intonaco e schegge di mortaio, e c’erano travi spezzate e tegole rotte e molte buche, alcune orlate  dal giallo del gas d’iprite. C’erano anche frammenti di proiettili e, sparse tra i rottami, pallottole di shrapnel.  Nel paese non c’era anima viva”.

 

Nick o Nicola Adams era uno pseudonimo che lo scrittore usava per indicare se stesso.

Nel suo racconto Hemingway descrive ciò che apparve ai suoi occhi mentre percorreva la strada che da Fornaci di Monastier porta a Fossalta di Piave.

Alcuni dei corpi visti da Hemingway giacevano insepolti da una settimana ed erano quasi tutti sfigurati  e neri.

E’ cosi con queste drammatiche descrizioni si conclude la storia  di una battaglia combattuta, quasi tutta, dalla Brigata Sassari contro le truppe dell’Impero Austro – Ungarico. Unevento  che è stato quasi sempre ignorato in tanti libri di storia della Grande Guerra e quindi pressoché sepolto nell’oblio  e pertanto poco conosciuto dai più. In quei pochi giorni di guerra, nel corso di una battaglia che fu  praticamente l’ ultima combattuta dall’ Impero austro – ungarico  contro l’ Italia, tra caduti, feriti e dispersi arrivarono a più di mille i fanti della Sassari, messi fuori combattimento ( 1/6 dell’ intera brigata). Si pone la parola fine anche alla storia di tante lotte accanite e di stragi cruente tra  soldati  che, in pratica, furono gli inconsapevoli e cocciuti esecutori in una delle più inutili e abominevoli carneficine del secolo scorso. Parimenti innumerevoli e inenarrabili furono le vicissitudini che dovettero affrontare le popolazioni civili.Negli anni antecedenti allo scoppio della conflagrazione, la mortalità nelle terre che sarebbero state invase era pari al 18 per mille, nel 1918 era ascesa con un rapido crescendo sinistro al 65 per mille.

Contro l’Italia, affacciatasi da non tanti anni quale nazione protagonista nella storia del mondo, non si era mai presentato a minacciarla un esercito così forte e agguerrito.

Tutta la fame, tutta l’ansia di pace, tutto il tormento di un grande impero europeo avevano esercitato la loro pressione tra l’Astico e il mare. Un popolo immenso di gente in armi, acceso d’odio mortale, trepido di speranze cupide, bramoso di bottino e certo di vittoria, fece in modo di  rovesciarsi, orrenda marea apportatrice di rovina, di morte e di lutti sulla ferma vigilanza dei fanti italiani, i quali, sugli altipiani e lungo la riva destra del Piave, si erano preparati con fervore non meno intenso alla strenua difesa della patria. Intanto con la circolare N. 6288 del 17 dicembre 1917 il Governo e lo Stato maggiore avevano riconosciuto la necessità di una più abbondante alimentazione per i soldati: la razione giornaliera di carne era stata aumentata di cento grammi, la pasta di 50 grammi, il  caffè tostato di cinque grammi, lo zucchero di venti grammi, la distribuzione di vino, nella quantità di 25 centilitri,  da tre a sette volte la settimana. Per assicurare una certa varietà, la razione di carne poteva inoltre essere sostituita da 200 grammi di baccalà o da 266 grammi di salame. Per di più il soldo giornaliero era stato elevato a 90 centesimi, mentre era stata autorizzata la pubblicazione di periodici, i così chiamati giornali di trincea, fra i quali i più noti furono la Tradotta, la Trincea, la Ghirba, il Razzo, l’Astico, la Giberna ed era stato assicurato un certo benessere al personale militare con l’organizzazione di spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche. Furono agevolati certi spacci a carattere di cooperativa, dove si potevano acquistare viveri di conforto a costi contenuti, fu istituita una polizza gratuita di assicurazione per tutti i soldati combattenti e con delibera del governo e circolare del comando supremo N. 170 del 4 maggio del 1918 furono concessi sussidi straordinari, erogabili direttamente dai comandi di corpo per le famiglie di ufficiali e soldati in particolari strettezze finanziarie, e ci fu il riconoscimento da parte del governo del diritto dei contadini e dei braccianti al possesso della terra, cosa che avrebbe potuto risolvere il problema dell’emigrazione. Si era, inoltre,  dato corso al completamento di innumerevoli sistemazioni difensive su una linea arretrata  che da Valdagno arrivava al mare sotto Venezia, passando per Vicenza e Padova, e si era proceduto all’armamento  e all’addestramento dei reparti rinforzati da ben 150.000 uomini che erano stati precedentemente  riformati. Fin dalla fine del mese di maggio il Comando Supremo italiano era stato messo a conoscenza di un prossimo attacco austro – ungarico fra gli Altipiani ed il mare e pertanto tutto lo schieramento difensivo era stato organizzato in modo da consentire un’accurata ed efficace azione di fuoco dell’ artiglieria, arrivando a schierare fino a tre batterie  ogni chilometro di fronte, mentre le unità di fanteria erano state dislocate in modo tale da consentire la  costituzione di forti riserve, da impiegare rapidamente ovunque fosse stato necessario. L’esercito dei mandolinisti, come il defunto imperatore d’Austria aveva avuto la cortesia di definire le forze armate italiane, era riuscito ad accumulare strumenti di ricambio, in misura più che sufficiente, dal momento ché  se si voleva suonare a lungo, occorreva premunirsi in tempo. E pertanto una consistente teoria di cannoni di riserva era pronta, nelle immediate retrovie, a testimonianza degli sforzi magnifici compiuti dall’industria nazionale e dal contribuente italiano. Si era provveduto inoltre a un’ indispensabile  opera di  rinnovamento degli  uomini, dei materiali e dei concetti tattici.

Formidabile era stata  la mobilitazione industriale del paese, dove  ben 3700 stabilimenti  ebbero a disposizione ben 900.000 operai che lavoravano a pieno ritmo per assicurare  le forniture militari. Subito ad occidente delle prime linee, in prossimità della riva destra del Piave, tutto il territorio era stato fortificato con strutture difensive di una certa consistenza, nelle quali i soldati italiani disponevano di armi e di  munizionamento di vario genere.

Dopo aver superato con una certa facilità le prime tre linee continue, gli attaccanti, con immensa sorpresa, si erano accorti  di essere letteralmente circondati da capisaldi di varia natura e dimensioni e quindi esposti al fuoco di numerose mitragliatrici, di lanciafiamme e di bombarde. Tutte quelle opere in cemento erano ben presidiate da interi reparti italiani e costituivano validi ostacoli, atti ad interdire l’avanzata delle truppe attaccanti. È proprio contro quegli ostacoli, una volta conquistate  con una certa facilità le prime linee di trincee, era incominciata a venir meno la sicurezza degli austriaci, soprattutto quando le prime file furono falcidiate dal fuoco incrociato dei difensori.

Dagli attacchi frontali e unitari che avevano cozzato inutilmente contro i capisaldi, gli austriaci avevano cambiato improvvisamente tattica ed incominciando a combattere a gruppi isolati. I risultati di quella nuova tecnica d’ attacco sarebbero potuti essere stati lusinghieri qualora fossero stati condotti da sottufficiali è graduati esperti.

Ma, purtroppo, nell’esercito austro – ungarico non era stato previsto un numero sufficiente di comandanti, particolarmente addestrati con tale grado, cosa che invece era normale nell’esercito tedesco. Pian piano i soldati austriaci si erano trovati  a combattere isolati e costretti a dover affrontare  estenuanti lotte corpo a corpo.

Le perdite, già notevoli, considerando anche quelle subite durante il passaggio del fiume Piave, erano aumentate in modo impressionante, diminuendo ulteriormente la capacità offensiva dei reparti attaccanti, al punto da renderne impossibile ogni ulteriore penetrazione in quel complesso difensivo quasi insuperabile.

È così, dopo appena pochi giorni dall’inizio della battaglia, la forza d’urto dell’azione offensiva delle truppe del generale Wurm  si era potuta considerare completamente esaurita.

E, come ebbe a scrivere Fritz Weber, sarebbe stata una pazzia, a quel punto, proseguire una battaglia che già dal primo giorno aveva perso ogni slancio.

 

 

 

 

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