MEMORIA, PROGRESSO, IDENTITA’: LE OMBRE (SOS AMMENTOS) DI BACHISIO BANDINU

ph: Bachisio Bandinu

di Lucia Becchere

«Unu corfu a sa janna de s’anima». È questo il libro Sa manu de s’umbra di Bachisio Bandinu, Domus de janas editore. Opera autobiografica scritta in dialetto bittese in cui lo scrittore, giornalista, antropologo, filosofo ma soprattutto poeta, viaggia sospeso in un arcobaleno di ricordi alla ricerca della sua identità. Dal silenzio dell’anima affiorano «sos ammentos » e rivivono gli affetti per regalarci storie semplici e antiche popolate da «umbras», presenze invisibili e silenziose, entità costanti fra il nascere e il morire, fra il passato e futuro.

«It’est cust’umbra chi ti sichit? », chiede l’autore. «Est sa voche de Talla, sa deina» col dono o «su casticu» di conoscere il futuro, è l’ombra «de sas Mamas malas de su sole, de s’abba e de su entu e de su dolore », essenze misteriose che si fanno canto e preghiera.

Fantasmi, visioni e sogni si caricano di significati simbolici e lo inseguono nella solitudine della città evocando «ammentos» per dare voce a «su tempus isserratu intro de su coro».

La visione del bambino Frantziscu vestito da fraticello assurge a simbolo di devozione, di salvezza e quindi di vita: «Est un’ammentu lontanu », che fa riflettere sulla precarietà dell’esistenza.

L’intreccio della sua storia gli scorre davanti: il paese che ha lasciato, la casa «su mundu de mama» e l’ovile «su mundu de babbu». Momenti spensierati contrapposti al lavoro duro dei campi dove si diventa uomini perché è lì che si forgia la mente e il corpo, «su cuile» dove il silenzio si fa parola, dove si affollano figure minacciose e «sa janna de s’anima » si chiude. Ma il destino è in agguato per disegnare un altro futuro e la scuola lo assorbe lontano.

La nostalgia si sublima in «sos ammentos» dei tormenti giovanili: «unu lampu chi aperiti su coro», che eternizza l’attimo. Non alla parola ma solo alla scrittura è concesso comunicare l’amore quando un lieve bacio sconvolge il tempo e lo inchioda. Attimi rubati e nascosti a tutti, sentimento proibito racchiuso in un unico istante poiché «sa sorte non la cumandat sos amantes», se la separazione divide non ne spegne l’intensità «s’istutat sa frama de su ocu ma sa braja non morit».

Dallo scrigno della memoria riaffiora il ricordo di un incontro “d’amore” che si spegne come un bagliore perché altro non è che «focu mortu» mentre il suo pensiero si perde dietro il rimpianto di una «pizzinna cun una tritza longa » che scompare «in palas de sa cresia» lasciandolo perso in quell’attimo senza fine.

La morte (Fulana) si concretizza con la scomparsa di «mannedda», lutto intimo e sofferto di cui solo la distanza affievolisce il pianto. «Sas feminas», figure importanti nella sua vita sono «mastras de su tempus e de su curruttu», di sofferenze che solcano rughe come quella impressa sul viso della nonna, rughe che raccontano ferite scritte con l’inchiostro del dolore.

Il non senso della città lo proietta nel nulla e lo induce a fare rientro in paese prima di perdersi in preda a «umbras de conca» travolto da «pantasimas orrorosos».

L’autore non si sottrae alla riflessione sul nuovo che avanza. Il tono pacato e ironico non contempla il rimprovero per ciò che non è stato ma filtra l’amarezza perché niente potrà essere più come prima.

I market invadono il paese, cambiano abitudini, la televisione non racconta «sos ammentos» e l’immagine travisa l’identità della persona perché «sa vita non est una issena».

Rinascita, Polo di sviluppo e turismo, sono parole che pervadono la Sardegna evocando scintille e magie. I giovani abbandonano le campagne per rifugiarsi nelle fabbriche. Presto quel bagliore di fiamma si spegne seminando cenere e desolazione, le torri delle ciminiere s’innalzano scure nel cielo mentre il turismo invade le coste di luci e rumori. Ci si libera di «campaneddas e marrazzos » e si seppelliscono «sas umbras».

Il rientro nell’isola è dettato dal desiderio di mettere a frutto le sue conoscenze in un paese che si va trasformando e dove i sentimenti si sono impoveriti fino a perdere lapietas verso gli ultimi che sottratti all’affetto della famiglia e del vicinato vengono scippati della loro identità. «Antiocu s’imbreacone, Bustianu su maccu de sa vidda» regalavano affetto e suscitavano comprensione.

I ricordi lontani del primo giorno di scuola si fanno presente e si caricano di emozioni. Con ironia l’autore sottolinea l’assurdità che deriva dall’intreccio del nuovo con il vecchio nel momento in cui Milianu de Crapinu «cumpanzu meu» non si riconosce in Michele Pira, per la prima volta pronunciato in italiano dal maestro che da quel momento in poi lo costringerà a prendere coscienza dell’esistenza di due nomi e due lingue parallele: italiano e sardo.

Sarà sempre il maestro a graffiare l’identità e a spegnere la fantasia del bambino, oggi scrittore e poeta, quando inseguendo il volo lontano della cavalletta evocherà in lui il suggestivo suono di «tilipirche ». Ironia della sorte il futuro docente, antropologo e poeta sarà un «non promosso alla seconda classe!» «Est su destinu a comandare sa vita de una pessone», dice ancora Bandinu.

Anche Marianeddu, il centenario del paese simbolo di saggezza, a cui non sfuggiva l’identità di nessuno, rifiutava le immagini della modernità e «Cicitu s’esauritu» raccontava la storia di un uomo che di fronte a due anfore ignorava quella piena d’oro per scoperchiare l’altra liberando «sa Musca Macedda» e con essa i mali del mondo. Metafora della modernità!

Ma è con il teatro, palcoscenico della vita, che l’autore ironizza sul nuovo che avanza quando perfino le pietre millenarie preposte alla custodia dei defunti si uniformano ai missili. Sono le voci d’Antonietta, Lia, Luchia, Zoseppe che raccontano di spopolamento, di valori persi, di paesaggi desolanti e boschi senza storia, di fiori senza profumi, della fatica del pane e del belato delle pecore per poi chiedersi che fine ha fatto «tuttu su connottu». «Unu nudda!».

Ma il nuovo avanza e non si può fermare, confessa con «amargura» Bandinu, il progresso è nella natura delle cose ma nel nuovo teatro della vita gli attori dobbiamo essere noi.

Tutto scompare nel cammino dell’uomo, «sas umbras de sa mama e su sole, de su entu, de su dolore» ma «s’umbra de s’identitate» è sempre accanto a noi anche quando pensiamo d’averla smarrita.

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