I RICORDI DI UN ORISTANESE: NELLA GIORNATA DELLA MEMORIA, I PENSIERI DEL FIGLIO DI PEPPINO SANNA CLASSE 1922


di Gian Piero Pinna

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale che il 27 gennaio di ogni anno, ricorda le vittime del nazismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati e si celebra la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945 ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa. A noi piace ricordare anche un nostro compaesano, Peppino Sanna classe 1922, numero di matricola 12460 del distretto di Oristano.

“Il nome forse non dice tanto – dice il figlio Antonio Sanna – ma a me piace ricordarlo come un piccolo eroe, non perché sia andato in guerra a combattere per un ideale, oppure perché e solo mio padre, ma perché a diciannove anni poco si capisce di una guerra che dista lontano migliaia di chilometri dal tuo paese natio. Due strade longitudinali s’arruga manna e su stradoni, questo era Silì negli Anni ’40, povera gente timorata da Dio, che viveva accontentandosi di poco, qualche capra, pecore e d’estate, la lavorazione delle tegole”.

Cosa puoi dirci della chiamata alle armi di tuo padre? “Mio padre venne chiamato alle armi il 6 giugno del 1941, dopo tutte le visite mediche fu mandato alla XXX Brigata mortai di fanteria e da li fu successivamente trasferito presso Tarquinia, alla Scuola paracadutisti divisione Folgore. Il 13 maggio del 1942, a Lecce venne imbarcato in aereo, destinazione Derna in zona operativa e dal 23 ottobre 1942, partecipò alla battaglia di El Alamein, riuscì a scampare alla morte e con i suoi commilitoni a riparare in Tunisia, dove dovette combattere ancora , questa volta contro i Maori delle truppe Neozelandesi. Tennero testa a un intera brigata valorosamente e per tre giorni e tre notti non lasciarono avvicinare nessuno alla collina di Tocrauna: erano solo in 180, arroccati con mitragliatrici e armati, ma alla fine dovettero arrendersi all’arrivo dei rinforzi inglesi entrati nel frattempo in Tunisia, era il 21 di aprile del 1943, gli stessi inglesi si congratularono con loro per la tenacia e la forza sostenuta .

Quale fu la sorte di tuo padre? “Trasferiti in Palestina, allora protettorato inglese e nascente Stato ebraico, venne portato al campo 308 presso Haifa nell’odierna Israele, la vita al campo non era così male, venivano mandati al lavoro nei primi kibbuz e si occupavano del bestiame nelle stalle, inoltre erano utilizzati per la raccolte delle arance e a tal riguardo, mi raccontava che ogni volta che venivano chiamati per la raccolta dei frutti , gli venivano tagliate le unghie cortissime, proprio per non danneggiare le arance.

Come era la vita nel campo di concentramento? “La vita al campo non era poi così tanto monotona, gli inglesi avevano anche provveduto a insegnare loro l’inglese. Per uno strano scherzo del destino, un mese dopo arrivò al campo anche mio zio Giulio, fratello di papà, lui era in fanteria e venne catturato a Tunisi. Subito dopo, a mia nonna arrivò la comunicazione da parte del Ministero della Guerra, dove gli veniva spiegato che i figli erano entrambi prigionieri degli inglesi. Potete immaginare la sua disperazione. Nel dispaccio si diceva che stavano bene e che solo mio padre era stato ferito. In effetti, mio padre rimediò una pallottola all’altezza lombare e cosa strana si cicatrizzò e non la volle mai togliere la pallottola.

Ci puoi raccontare qualche episodio simpatico dell’esperienza da prigioniero di tuo padre? “Un giorno un suo compagno di prigionia, un certo Scaramella della provincia di Bergamo, con il quale sia mio zio e sia mio padre strinsero una fraterna amicizia, tanto che nel 1986, dopo quasi 50 anni, lui li cercò durante una vacanza in Sardegna, si incontrarono proprio ad Oristano e fu grande festa. A un certo punto, rivolto a mi padre, gli disse: “Guarda quello lì, dice di essere di Silì” e mio padre guardandolo, rispose: “Ma io non vedo nessun italiano e quantomeno di mia conoscenza, vedo solo un militare con la divisa italiana, ma è di colore. No dai vieni”, ripete l’amico, a questo punto mio padre si incamminò verso il militare e quando si trovarono faccia a faccia, gli chiese in sardo: “Ma m’anti nau ca tui sesi Sibiesu?” e lui rispose di si e mio padre ancora: “Ma mi sesi pighendi in giru, itta ci faidi un nieddu chi chistionada su sadru cun sa divisa italiana?” e lui rispose: “Deu ti conosciu, ma tui aimmi forzisi no, poitta deu seu su moru de guventu”. Per i siliesi, su guventu era la chiesetta romanica della Maddalena occupata negli anni 40 dagli sfollati di Oristano, fu grande festa, se festa si poteva chiamare, inoltre, mio padre mi raccontò che una volta cercarono di scappare, raggiunsero il santuario di Monte Carmelo, dove i frati gli rifocillarono dando loro da bere e da mangiare e dei rosari fatti con i semi delle carrube, purtroppo la fuga durò poco e dopo qualche giorno vennero catturati e rispediti al campo”.

Cosa successo in seguito? “Quasi subito venne trasferito ad Alessandria d’Egitto e cooperando con gli inglesi nella 260 Compagnia, il 23 luglio del 1946, a guerra finita, venne trasferito a Porto Said per il rimpatrio. Finalmente libero all’età di anni 24, sbarcò a Napoli il 27 luglio del 1946, dove un’improvvisata banda musicale, subito dopo essere scesi dalla nave, suonò “O’ sole mio”, perché non era ancora stato adottato l’Inno di Mameli. La prima cosa che videro, appena scesi dalla nave, fu il retrobottega di una trattoria situata in un vicolo e un cumulo di bucce di patate, per la tanta fame, parvero delle cose prelibate. Vennero mandati in un alloggiamento a Fuorigrotta e il m 3 agosto del 1946, finalmente venne imbarcato per la sua amata Sardegna. Sbarcò a Cagliari il giorno successivo e successivamente venne collocato in congedo presso il distretto militare di Oristano il 30 settembre del 1946. Solo nel 1994 ricevette il brevetto di concessione della Croce al Merito di Guerra N°4187, consegnata dal Comando Stazione dei Carabinieri Di Oristano. Il giorno tutti noi figli vedemmo i suoi occhi luccicare, ma non una lacrima, lui non poteva, o non voleva, perché era un Parà della Gloriosa Folgore, uno dei 180 di Tocrauna. Lui era il nostro piccolo eroe”.

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