MA DAVVERO C’INTERESSA UNA SARDEGNA CARAMELLOSA, NOSTALGICA, FASHION? IL DOCUMENTARIO “SENZA PASSARE DAL VIA”


di Umberto Cocco

Un documentario (“Senza passare dal VIA”, di Antonio Sanna e Umberto Siotto) sull’industria a Ottana, presentato a Nuoro al teatro Eliseo, trae una conclusione drastica su quell’esperienza nata ormai 50 anni fa (i padri e i fratelli maggiori degli operai assunti per primi dalla Chimica del Tirso erano in Belgio a lavorare nelle miniere di carbone, sdraiati nudi in cunicoli alti fra 40 e 70 centimetri e con il motopicco fra le mani) e che sembra avere lasciato solo macerie. Curiosa coincidenza, il giorno prima il presidente della Regione a Fonni in un’assemblea di amministratori delle zone interne, aveva detto: «Se guardiamo agli esiti delle scelte fatte in tutti questi decenni, è chiaro che erano sbagliate».

Il filmato – finanziato dall’ISRE – è il racconto, in 80 minuti, dall’esito annunciato, scontato, di questo “sbaglio”.  La tesi non è nuova, anzi, è quella corrente, e da tempo, sul fallimento dell’industria, e peggio sul disastro antropologico che avrebbe determinato quel tentativo, la distruzione di una civiltà (pastorale), la disintegrazione di una società sia pure arcaica, la compromissione dell’ambiente, l’inquinamento delle terre, del fiume, dell’aria.

Realizzato nel corso di un anno dai due documentaristi nuoresi  non nuovi al racconto di una Barbagia non più felice e perduta, il filmato ricostruisce la scelta della chimica alla fine degli anni ’60 primi anni ’70 – e di quella localizzazione nella propaggine meridionale della provincia di Nuoro al confine con quelle di Sassari e di Cagliari – con interviste ai democristiani che la rivendicarono e poi la fecero: Ariuccio Carta (ottanese), Giosuè Ligios (Bitti), Angelo Roich (Galtellì), Pietrino Soddu (originario di Benetutti, assessore nella giunta Del Rio, che era originario di Sindia) in un’alleanza delle correnti fanfaniana e morotea nuorese e sassarese che vi videro l’occasione per rompere il dominio di Cagliari e di Sassari anche nell’indirizzare il processo di industrializzazione della Sardegna.

E’ la parte forse più interessante del documentario, per lo schieramento completo del ceto dirigente dc delle aree interne nel corso di alcuni decenni, che rivendicano anche con orgoglio quella stagione, solo qualche incertezza nello sguardo quando sospettano che li si voglia ridicolizzare, mettere alla berlina, bersaglio a scoppio ritardato della lettura oggi prevalente di quella loro politica.

Il controcanto è affidato alle testimonianze degli ultimi dieci anni, ai cassintegrati ancor giovani di Ottana Polimeri e della centrale elettrica, ultima infornata di classe operaia cui non è stato nemmeno lasciato il tempo di diventarlo (classe) e che nella solitudine dei campi incolti, del campo solare nella distesa fra i capannoni ex Anic, o sullo sfondo di un bar di Ottana, le foto delle maschere del carnevale alle pareti, raccontano davanti alla cinepresa delle illusioni perdute, la nessuna speranza dell’oggi, e sono ovviamente tristi, soli, appunto, forse nessuna passione politica, spirito per protestare.

Nel mezzo, fra questi poli del dramma rappresentato, anzi, della vera e propria tragedia, gli autori collocano a mo’ di coro Bachisio Bandinu e Giovanni Columbu, guide del documentario e della tesi-assunto della colonizzazione, dello sconvolgimento antropologico, del golpe (scriveva Columbu nella sua tesi di laurea) consumato a danno dei pastori, della Barbagia, del popolo sardo.

Tesi note, non troppo in voga in quegli anni, veramente. La memoria di chi c’era, il breve dibattito che è seguito al film,  e  le ricostruzioni storiche (ultima, quella di Salvatore Mura “Pianificare la modernizzazione. Istituzioni e classe politica  in Sardegna 1959-1969“, Franco Angeli editore, 2015) ricordano una opposizione assai blanda e quasi di maniera: solo avanguardie (rivoluzionarie, extraparlamentari) a volte violente, nel ricordo di Soddu, o studenti che leggevano Marcello Lelli e le sue ricerche sociologiche sulle conseguenze sconvolgenti per il ceto medio della industrializzazione di Ottana.

Anche fra i sardisti che entravano e uscivano nelle giunte regionali a guida Dc – e chiedevano e a volte ottennero l’assessorato all’Industria – solo qualche irregolare coltivava una ribellione alla ipotesi della grande industria, in chiave ruralista, come del resto anche nel Pci prevalse la scelta industrialista dopo battaglie intense anche dentro casa (celebre il confronto fra i fratelli Pirastu, Luigi e Ignazio, il secondo  componente della Commissione d’Inchiesta sul banditismo e relatore di maggioranza, non troppo favorevole alla grande industria, a differenza del fratello che era invece il responsabile economico del comitato regionale del Pci, e le cui posizioni prevalsero). Il documentario di Sanna e Siotto affida al solo ricordo di Ugo Collu, democristiano nuorese, la memoria dei nuclei di resistenza, in quel caso nella parrocchia delle Grazie («subito stroncato dalla curia», dice Collu).

Nonostante il convinto rivendicare del proprio ruolo nella scelta industriale, anche i democristiani della giunta regionale sarda subirono quasi tutto, o meglio condivisero una impostazione e scelte che era pochissimo nel loro potere condizionare, tantomeno rifiutare. Il progetto di industrializzazione per poli aveva per teatro l’intero Mezzogiorno d’Italia, per protagonisti prima dei monopoli e del grande capitale, i meridionalisti e gli economisti più autorevoli, più spesso laici e di sinistra, da Saraceno a Medici, Orlando, La Malfa.

In campo non c’erano altre opzioni, salvo una predilezione per le campagne e la riforma degli assetti proprietari che veniva da un’altra corrente, agraria, del meridionalismo, da Manlio Rossi Doria in giù.  E che, solo apparentemente sconfitta, produsse anche in Sardegna investimenti cospicui nelle campagne, nelle bonifiche, infrastrutturazioni, irrigazione, così come ingenti furono gli investimenti nel turismo (gli alberghi Esit ad Alghero e Santa Teresa, a Santa Caterina di Pittinnurri, Cuglieri, ma anche sul Monte Ortobene a Nuoro e a San Leonardo, Santulussurgiu), e nacque in quella temperie passato sotto il nome di Rinascita anche il filone del sostegno all’artigianato e alla piccola impresa, diffuso, a volte clientelare, ma questo è un altro discorso.

La Sardegna di allora, quella dell’interno, che il documentario  rievoca attraverso i titoli dei giornali,L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna (alla vigilia del passaggio di entrambi sotto il controllo di Rovelli), sembra fare da sfondo a un gioco tutto e solo politico e di scontro fra correnti Dc anche quando si accenna alla protesta che si accese nei paesi, l’occupazione dei municipi, la lotta dei contadini per le terre, anche qui vicino, a Bolotana, le marce su Cagliari (del 1965 è quella di Michele Columbu, sardista sindaco di Ollolai).

Una sola immagine di repertorio mostra un villaggio di quell’area a vent’anni dalla fine della guerra, Ottana nella sua desolazione, ma troppo frettolosamente. Non ci sono i dati sulla popolazione, l’emigrazione, la disoccupazione, l’analfabetismo, l’affollamento della campagna; e il banditismo, le faide, i sequestri di persona sembrano un’invenzione dei giornali tutta in funzione dello stravolgimento antropologico che si prepara, la distruzione di una civiltà, quella dei pastori ai quali verrebbe imputata dalla Commissione Medici che indaga nel 1968 sulle ragioni del malessere sociale delle zone interne, un’ incorreggibile propensione psicopatologica alla delinquenza e alla devianza.

La Cineteca sarda che ha dato una mano agli autori a trovare immagini di repertorio, conserva di Fiorenzo Serra per esempio le immagini di Sedilo nel 1956: siamo a un tiro di schioppo da Ottana, letteralmente. Scorrono in loop continuo davanti a “La madre dell’ucciso”, di Francesco Ciusa, nel museo omonimo, a Nuoro.

Come accade spesso, l’analisi a tesi, a tesi unica, semplifica, esclude scenari, restringe lo sguardo. Cosa succedeva nel resto del Mezzogiorno e dell’Italia, cos’era la chimica allora, cosa e quanto hanno prodotto Ottana e l’industria sarda in termini di Pil, reddito, culture, sensibilità, quando marciavano, e cos’è oggi, dove è sopravvissuta e perché (la Germania, dice niente? Anche se ci si può morire, vedi incidente alla Basf).

Non c’è un operaio vero di quegli anni, tra gli intervistati, ed erano migliaia, non un tecnico di qualità magari insieme anche dirigente politico e sindacale di cui pure la fabbrica per alcuni anni fu ricca e di cui si sono avvalsi per i decenni successivi a volte aziende delle partecipazioni statali, industrie private, centri studi.

Non c’è il racconto dei fratelli minori di quegli operai che insieme ai figli di pastori riempivano i pullman diretti a Nuoro carichi di studenti dopo avere portato gli operai in fabbrica o indietro in paese. Viaggiavano a metà degli anni ’70 da Orune a Nuoro 230 giovani studenti pendolari, ricorda un ex sindaco, Francesco Berria (non nel documentario, fra il pubblico della sala).

Non c’è una lettura dei nostri paesi oggi nelle zone fra Nuoro, Macomer, Fonni, al di là dell’autorappresentazione. Fra  i modelli agricolo e turistico in qualche modo realizzati in Sardegna, Arborea e Gallura, anche con il supplemento del Qatar, o il modello di Cagliari tutto ristorantini e birrette del quartiere Marina, forse si scoprirebbe un cedimento antropologico meno rovinoso a Orani, Bolotana, Borore.

Non è un limite dei due documentaristi. E’ un’analisi (sbagliata) che sembra essere nell’aria, cui la stagione politica di oggi fornisce nuova linfa, fra antindustralismo, ruralismo, appunto, il mito turistico che ad Austis qualche settimana fa l’assessore Paci ha rideclinato in chiave zone interne (era il giorno di “Autunno in Barbagia”…).

Ed eccoci alla coincidenza di vedute, fra il vago grillismo dell’oggi, l’indipendentismo romantico (che assolve la Dc e anzi ci flirta, quando può, ma è scatenato contro uomini e organizzazioni del movimento operaio, dal sindacato ai partiti) e i gruppi dirigenti regionali. Ne viene fuori una Sardegna caramellosa, nostalgica e senza futuro, tutta racchiusa fra i Giganti di Monti Prama e il mare cristallino, il silenzio e il vento, niente in mezzo a rovinare questa retorica falsa, figurarsi l’industria (nella zona industriale di Ottana lavorano oggi più di mille operai), compresa la sua incasinatissima memoria.

Com’è finito il convegno di Fonni? Con questo impegno del presidente Pigliaru: «Lo sviluppo c’è se ci sono le proposte progettuali: scegliamo insieme le azioni, poche e definite, e puntiamo su quelle». Un bel programma, di metà legislatura abbondantemente superata….. Il titolo del convegno era a sua volta questo: un Masterplan per le zone interne.

http://www.sardegnasoprattutto.com/

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Un commento

  1. Chi allora aveva 20 anni è il vero testimone di quella fame di lavoro,ma allo stesso tempo testimoni della capacita di promuovere nuove lotte. Disillusione, amarezza e di nuovo una strada conosciuta da padri e figli…l’emigrazione.

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