A VOCE ALTA, TUTTA LA BELLEZZA DI “CABUDANNE DE SOS POETAS 2016”


di Paola Cireddu

La dodicesima edizione del Cabudanne de sos poetas si è conclusa con una quattro giorni di poesia, musica, arte: straordinaria, “irregolare”, incendiaria, bruciante.

Tanti gli ospiti e i temi affrontati legati alla poesia: l’ascolto, la traduzione, la comprensione, l’editoria, e non solo.
Protagonisti i poeti, la musica. Patrizia Valduga, Bejan Matur, Mariangela Gualtieri, Paolo Nori, Pino Martini e Umberto Fiori, Ernst Reijseger e il Cuncordu de Orosei, Giovanni Piga, Antonio Lotta, Bobo Rondelli, Francesca Matteoni, Azzurra D’Agostino, John Vignola, Francesco Piu, Simone Marzocchi e tanti altri ospiti.

A voce alta. <<Sentire la poesia risuonare così è qualcosa di forte, molto forte. Se noi siamo qui a cantare Majakovskij è perché gli adolescenti grideranno, canteranno, sussurreranno i versi giovanili del poeta russo. Qui ci sono duecento barche dell’amore e noi siamo qui perché oggi non si schiantino contro il quotidiano, contro di noi, adulti, contro di noi sempre più terribilmente grigi, mentre loro non sono felici. E loro in maniera disperata gridano il loro diritto a esserci>>. Così racconta il senso della non-scuola Marco Martinelli, regista e drammaturgo del Teatro delle Albe nel film-documentario “Eresia della Felicità” diretto da Alessandro Penta, presentato nella prima giornata della dodicesima edizione del Cabudanne de sos poetas. Un laboratorio esplosivo a cielo aperto che ha contagiato anche le cinquanta barche dell’amore a Seneghe, i giovani adolescenti che hanno inaugurato al tramonto questa edizione sotto la Grande Quercia nel grande campo alla periferia del paese, con l’esito del laboratorio teatrale “Don Giovanni Maradittu”. Diretto stavolta da due giovani allievi che intrapresero appena undicenni il percorso laboratoriale sotto la guida di Roberto Magnani, Mariano Mastinu e Domenico Cubeddu, l’allestimento della rappresentazione open air ha visto trasposta ai nostri giorni la riscrittura del classico di Molière in un’ambientazione seneghese, ironica, colorata, e ricca di spunti della cultura locale, dove <<se ne vedranno delle belle>>.

Il gioco del teatro e la forza incendiaria degli adolescenti hanno travolto tutti, ad alta voce. E proprio “A voce alta”, è stato l’ordine (e il titolo) imperativo di Roberto Magnani per questa edizione, che dopo nove anni di guida del laboratorio teatrale con i giovani ragazzi di Seneghe ha accolto il testimone del coordinamento artistico passatogli meritatamente dall’associazione Perda Sonadora e dai suoi predecessori Franco Loi, Mariangela Gualtieri e Azzurra D’Agostino, portando le voci degli autori ospiti (unici) agli estremi delle loro possibilità, in una quattro giorni straordinaria, “irregolare”, incendiaria, bruciante, in cui il pubblico (diecimila persone) si è lasciato travolgere e trasportare.

Una chiamata a cui è stato chiesto di rispondere con le orecchie dritte, cioè con la capacità di saper ascoltare, perché <<solo così qualsiasi cosa può essere musica, anche quella che può essere considerata rumore>>, come ha sottolineato Simone Marzocchi, musicista e prima tromba dell’Orchestra Corelli di Ravenna vicino al Teatro delle Albe che ha curato il laboratorio musicale con i giovanissimi del paese. Un bellissimo lavoro centrato sulla voce, sulle voci degli strumenti musicali, sulla voce del silenzio e di Seneghe. Ma le orecchie dritte sono fondamentali anche per chi ascolta le opere letterarie, perché è importante cercare di aprire le orecchie anche a questi suoni, urlati o sussurrati. Necessità quindi dell’ascolto, ma ascolto di che cosa? Quello che è la poesia, e la sua lingua originale. Scrivere turco ed essere curda. Scrivere in una lingua matrigna che non rispecchia il proprio mondo emotivo e immaginario. Materia infiammante fatta di versi e di lingua. Bejan Matur, poetessa e scrittrice curda, tra le più illustri a emergere dal vortice di una poesia nuova e coraggiosa nel Medio Oriente. La sua poesia è impegnata nelle lotte del suo popolo, il popolo curdo. Lei scrive in turco ma è di origini curde. Nella gremita Piazza dei Balli ha raccontato sabato la sua intimità di donna curda contrapposta alla violenza di stato perpetrata attraverso la lingua ufficiale, quella turca. Parla attraverso le sue opere di un mondo che viene negato, quello dei curdi. A voce alta, per costringere all’ascolto di storie di resistenza nelle montagne del Kurdistan e per raccontare un mondo di bellezza, come nella poesia “Figli cresciuti dalla luna”, titolo anche dell’incontro. Il tema dell’appartenenza nelle tonalità accese e appassionate della poesia di Matur, ricorre continuamente. Il curdo, lingua stigmatizzata, diversa dal turco per ceppo e origini, e lei, che il curdo lo ha appreso appena da sua madre quando era bambina, ma non lo parla correttamente per imposizione del suo governo, si sente una curda del Mediterraneo, e molto vicina alla terra dei sardi (ad Antonio, un cantore sardo che ha incontrato tempo fa, ha dedicato la poesia Mediterraneo). Fa attenzione al suono delle parole <<perché la poesia scolpisce le parole per rendere la loro musicalità>>. Al Cabudanne ha recitato i suoi bellissimi versi in lingua turca, e in chiusura dell’incontro ha riservato una sorpresa: quattro poesie inedite scritte nella sua lingua d’origine, il curdo (Sguardo; Notte; Vento; Torna). E la sua voce d’improvviso si è trasformata in un suono diverso, dolcissimo, commosso. L’armonia della lingua curda ha lasciato tutti senza parole, tra i silenzi delle parole che si dicono e quelle che non si dicono.

Strettamente collegato alla lingua c’è il tema della traduzione con tutte le sue problematiche. Una materia complessa e molto cara al Cabudanne de sos poetas, che tenta di esplorare nelle sue varie sfaccettature. <<Tradurre è un’attività che ha che fare con il rispetto dell’altro, la traduzione dell’altro, la traduzione di poesia, con un ascolto attento>>, sostiene Franco Nasi, traduttore colto e raffinato e docente di Teoria della traduzione all’Università di Modena e Reggio Emilia che nell’incontro mattiniero di sabato 3 si è addentrato nell’interessante viaggio “Oltre il metronomo. Ritmo, poesia e traduzione”. Il lavoro sulla traduzione della poesia come una ecologia della mente, nel senso che per tradurre una poesia bisogna prendersi il tempo della poesia per tradurre, sintonizzarsi con quella poesia. <<È un lavoro artigianale minuzioso che ha a che fare con una materia infiammante>>. Inevitabile il punto di domanda su che cosa voglia dire tradurre poesia. Cosa traduciamo? Il metro, la rima, o il senso? E che cosa è il senso della poesia? Forse la poesia è fatta come una cipolla <<fatta di tanti strati che si tengono tra di loro e la salute è data dalla compattezza di questi strati>>, metafora perfetta secondo lo stesso Nasi, riferendosi ai versi de “La cipolla” di Wislawa Szymborska, poetessa e saggista polacca. Come gli strati di una cipolla il senso è dato da tutte le sue parti: <<l’aspetto metrico, ritmico, fonetico, le metafore, la tradizione, le citazioni>>. E il ritmo, da non confondere con il metro, è qualcosa che è esterno ma dipende da noi: è una immagine poetica. Come quella della bellissima poesia di Mariangela Gualtieri che ha chiuso ad alta voce (in un straordinario fuori programma), nello splendido cortile sotto il pergolato Prentza de Murone, l’incontro dedicato alla traduzione con la sua “E non lo so dire”.

Ma la poesia occupa ancora un posto marginale nel mercato editoriale, gli editori non ci guadagnano a tradurre, e per quanto tradurre sia prestigioso non è un considerato un buon investimento, e sembra che su questo fronte non ci siano ancora grandi opportunità di lavoro. Ecco quindi inserirsi in questo mondo che barcolla nuove realtà che parlano di biodiversità della poesia: nuove vie di fuga da queste logiche obsolete del mercato, <<visto come un progetto di morte studiato non solo dal capitale ma anche a livello biologico>>. Sostiene Andrea Amerio, docente di letteratura italiana Moderna e Contemporanea all’Università di Pisa che collabora con le Edizioni Nottetempo per cui dirige la collana poeti.com, ospite la mattina di domenica 4 al Cabudanne nell’incontro sull’editoria insieme a Luca Sossella, condotto dal giornalista Walter Porcedda. Prendere quindi di petto queste forze che si oppongono in maniera terminale, programmata, attraverso i versi. Poesia come luogo in cui tenere ben salda quella radice che non ha nulla a che fare con i generi letterari e con i libri, perché la poesia va incarnata. <<Nel momento in cui non ci saranno più poeti viventi sarà come un geroglifico sumero. Si potrà studiare, potrà affascinare, ma quella cosa bruciante che l’ha prodotta vicina alla vita, si sarà persa. Fare dei libri quindi significa prima di tutto cercare di portare fuori una luce>>, afferma Amerio. Ecco così la sua scelta coraggiosa di pubblicare l’opera del poeta siriano Faraj Bayraqdar. Un libro “Il luogo stretto” che uscirà a settembre per Nottetempo e che raccoglie le poesie che lui ha scritto in quindici anni di detenzione e che non ha mai potuto scrivere, ma ha dovuto imprimerle nella memoria per poi scriverle nelle carte delle sigarette e incollarle nel retro dei disegni da consegnare segretamente una volta al mese ai suoi familiari.
“Bibliodiversità” quindi che possa creare momenti di aggregazione nel mondo della letteratura e della poesia, per sentirsi meno isolati e poter formare una costellazione di luci in cui poter condividere qualcosa di più profondo. Strategie, per la sopravvivenza, per creare nuovi lettori. Perché questo è il compito di un editore. Non è quello di vendere libri o far vendere libri.

Punto di vista anche di Luca Sossella (a lui si devono le straordinarie raccolte in video delle opere di grandi artisti come Carmelo Bene e tanti altri) editore di poesie da oltre trent’anni. <<L’era di Gutenberg e di Manuzio è arrivata all’epilogo, credo che la trasmissione del sapere ritornerà nell’alveo dell’oralità attraverso tutti i dispositivi che ci fornisce la tecnologia>>. È necessario allora concentrarsi sull’opera d’arte, <<l’unica condizione trascendentale, una volontà di trascendenza che deve avere a che fare con l’immanenza. È l’autolimitazione di Dio quando progetta il mondo, è lì che l’artista si deve esiliare>>. È in quel passaggio che è fondamentale concentrarsi, quel momento in cui il visibile che ha che fare con l’invisibile. Ed è in un certo senso lo stesso passaggio, <<il punto di sella>>, che cita la grande poetessa Patrizia Valduga nella Piazza dei Balli e che durante la sua presentazione al pubblico del Cabudanne ci ha tenuto a precisare: <<Io mi ritengo una bravissima traduttrice, ma non dite che sono una grande poetessa, sono solo una psicopatica con attacchi di panico, piena di paure e angosce>>. Bella, ironica, schietta, e sbalordita, per la straordinaria partecipazione della gente del luogo al festival, ha fatto notare quanto quella della “festa dei poeti” di Seneghe fosse una realtà mirabile, per lei nuova perché <<di solito ci ascoltiamo solo tra noi poeti>>. Una platea disarmata, incantata dal profondo silenzio dei versi recitati, attinti dalla raccolta delle sue poesie e di alcuni grandi autori che lei stessa ha tradotto. Come una delle sue quartine preferite che ha recitato a memoria, una poesia in farsi di Omar Khayyam, un poeta persiano vissuto nel XII secolo: se sono sobrio ogni gioia è proibita/ ubriacato, la coscienza è svanita/ ma c’è un punto tra ebbrezza e sobrietà/ lui mi possiede/ lui solo è la vita. <<Quando l’ho recitata a un fisico, lui mi ha detto che quello si chiama punto di sella. Il punto in cui due sistemi contrapposti stanno in equilibrio. Questa cosa mi ha folgorata. Perché è il punto in cui si scrive poesia, in cui ragione e sentimento stanno in equilibrio>>. Come l’innamoramento, o l’arte, che ci permettono a volte di trovarci in quel punto di sella, e ci ricordano che possiamo stare bene con noi stessi, invincibili. <<Quel momento in cui sentire, essere, capire, diventano una cosa sola>>. Patrizia Valduga ha ricordato quindi i poeti dell’800 come Foscolo, Manzoni e Leopardi, ma al contrario di quel che viene riportato nei testi di letteratura non li considera grandi, perché <<seguiamo ancora un canone che è stabilito da quel porco di Carducci insieme a quello stronzo di De Sanctis>>. Il Belli e il Porta, poeti in dialetto romano e milanese, avverte la poetessa veneta che sono tra i più grandi autori italiani, ma <<ci sono delle traduzioni schifose>> non gli viene reso giustizia. Tra loro inserisce anche Giovanni Prati <<che poi però Carducci, invidioso, ha fatto fuori>> di cui ha recitato a memoria “L’ultimo sogno” che ha tradotto di recente.

La pericolosità della poesia, la capacità di preannunciare, di vedere ciò che ancora non è in essere ma lo sarà. Ma il poeta oggi ha (per fortuna) perso quel ruolo sociale, non ha più l’ascolto e la visibilità di un d’Annunzio, per esempio. Sotto al peso dei morti della Grande Guerra infatti al poeta eroe si è sostituito il poeta ignoto. La morte sociale del “vate” è avvenuta per una ragione profonda, per tutti quei morti che ci sono stati a causa dei poeti e a quei valori culturali fatti di cartapesta che da loro stessi sostenuti e propagandati avevano portato al massacro di tante migliaia di giovani. Un massacro ricordato in musica e parole dai Bàrrakha Epos, il duo composto dal grande paroliere Umberto Fiori e Pino Martini, entrambi componenti degli storici Stormy Six (voce e basso), nell’inedito e bel progetto “A rapporto” per voce, basso, violino, fisarmonica e chitarra. Un recital-concerto ispirato ad alcuni episodi tratti dai libri di Emilio Lussu “Un anno sull’altipiano” e “Marcia su Roma”, presentato in prima nazionale venerdì 2 nella Piazza dei Balli con la preziosa collaborazione del violinista Maurizio Dehò (Trio Rhapsodjia, per anni compagno di strada di Moni Ovadia), Francesco Zago alla chitarra e Nadio Marenco alla fisarmonica. Dieci canzoni di grande raffinatezza musicale che riportano vividi alla memoria i tragici momenti della vita in trincea, raccontati nelle sue opere dal grande scrittore di origini sarde. Come l’episodio in cui i due soldati si trovano nella postazione in trincea a un passo da quella degli austriaci, da cui partivano le cannonate che martellavano ininterrottamente le postazioni italiane. <<È l’alba, ed è la corvè del caffè. Gli austriaci stanno facendo colazione, sarebbe facilissimo prenderli di mira, ma Lussu e il suo soldato si guardano e alla fine non hanno il coraggio di sparare, tornano al loro reparto, e anche da loro è pronto il caffè>>, spiega Umberto Fiori prima dell’esecuzione musicale.
E in primo piano ancora la Prima Guerra Mondiale, tema portante di questa edizione e delle anteprime, a cui sono stati dedicati diversi incontri con studiosi, poeti, ed esperti di quel periodo drammatico che ha lasciato un segno profondo nella storia d’Italia e dell’Europa.

Le “Lezioni di storia e il Processo alla Grande Guerra” con gli interventi di Luciano Marroccu, docente di Storia Contemporanea dell’Università di Cagliari e autore di saggi e romanzi, Salvatore Cubeddu, sociologo, esperto di cultura e storia della Sardegna e autore di diverse pubblicazioni e Mario Cubeddu, presidente di Perda Sonadora e grande intenditore di storia locale, hanno proposto un punto di vista molto interessante, insolito e sconvolgente, in merito alla drammaticità dei fatti del periodo 1914-18: quello raccontato attraverso i numeri delle morti di massa. Il primo giorno di guerra, durante la battaglia della Somme del 1° luglio, morirono 19.534 soldati, in un giorno solo, tra atroci sofferenze. Una generazione intera a cui si chiede di sacrificarsi. In nome di cosa? Più di venti milioni di soldati morti e venti milioni di feriti. La Sardegna mandò al fronte più di 400.000 uomini dai 19 ai 45 anni. In Italia morirono 650.00 soldati, in Germania e in Russia più di due milioni, dell’impero britannico 1.150.00, in Francia 1.170.00. La Prima Guerra Mondiale fu un evento così traumatico che segnò la storia successiva. Numeri che parlano, e che rendono l’idea concreta di quello che fu uno dei periodi più atroci della storia europea. <<Un disastro per l’umanità in nome di un illusoria speranza per un futuro diverso>>, hanno sottolineato Luciano Marrocu, Salvatore Cubeddu e Mario Cubeddu durante l’incontro. Chiedersi allora perché malgrado l’efferatezza di tali fatti, gli uomini accettavano di andare in guerra, è importante. Domande alle quali non è facile dare delle risposte, perché tanti erano i fattori che entravano in gioco: il livello basso d’istruzione, il senso di responsabilità e del dovere, e in particolare per i sardi un’occasione per uscire dall’isola, mischiarsi agli altri italiani, essere apprezzati dai loro ufficiali, diventare gli eroi italiani, come ha sottolineato Salvatore Cubeddu. Una guerra rosso sangue che ha mandato al macello milioni di vittime.

Ma rosso porpora è anche il colore che indica il punto in cui le sfumature sono più vibranti. Come dicevano i greci e latini e come sostiene Mariangela Gualtieri, tra le poetesse più grandi d’Italia e tra le più amate a Seneghe. Ormai cittadina onoraria del paese, ha curato due anni fa la direzione artistica e quest’anno è ritornata in veste di ospite insieme al pianista e compositore Stefano Battaglia, musicista tra i più stimati nella scena contemporanea internazionale, con l’urgenza di cantare i colori. La terra parla in colori/Mai tace mai tace/Mai piange/Bisogna ascoltare. Un rito sonoro per cielo e terra, color porpora, come i versi che colorano la sua poesia, scintillanti. E bianco come il colore della musica, sospeso. Insieme hanno “incendiato” l’antica chiesetta di Santa Maria, sfondo ideale per questo appuntamento dell’ultima giornata del festival. Nell’ampio Sagrato, una novità negli spazi di questa edizione, tra luci imbevute di fiamme e fuoco, il silenzio della voce interiore risuonava forte. Un rito sonoro, una dimensione interstellare, oltre il tempo <<per cantare i colori, accogliendoli come potenze, come forze acustiche>>.

Tra gli epicentri italiani della rinascita della poesia in dialetto, la Romagna. Nevio Spadoni, uno dei massimi autori dialettali viventi, ha raccontato sabato al pubblico di Putzu Arru i poeti romagnoli del primo e del secondo ‘900 raccolti nel libro “D’un sangue più vivo”: da Pascoli a Guerrini, Campana, Tonino Guerra, Mariangela Gualtieri e tanti altri. Cosa unisce tanti autori e poeti con registri e stili diversi da giustificare un simile lavoro? <<Sono poeti antologizzati di una stessa area geografica, quindi accomunati da un amore per la nostra terra, terra dura fatta di gente sanguigna, di lavoratori spesso anticlericali, ma fortemente radicati nei valori della libertà e della giustizia. Un amore per la natura che si legge in tutti i poeti romagnoli>>, ha spiegato l’autore romagnolo.

E la natura, vista nella sua dimensione piena di bellezza, ha ispirato anche il poeta pluripremiato nei maggiori concorsi letterari della Sardegna, Giovanni Piga. A dialogare con lui sulle sue opere in “limba” il giornalista e esperto di cinema e cultura sarda Tore Cubeddu. <<Ovunque noi volgiamo lo sguardo c’è sempre qualcosa da dire e da scrivere. Bukowsky dice che la poesia cura, aiuta a non impazzire. Il Monte Ortobene è il monte sacro e caro a noi nuoresi. Lì ho una casetta per meditare e ascoltare la natura, questo formicolio dentro che viene chiamata poesia>>. Autore di poesie nel suo amato dialetto nuorese e grande conoscitore della lingua sarda, Giovanni Piga nella sua produzione letteraria e nel suo incontro seneghese ha portato l’omaggio alla poesia antica e alla memoria di suo nonno, attraverso la grande varietà di modelli metrici tradizionali e moderni. Mi chiamano poeta/ ma io vecchia pietra di nuraghe/ cane antico che abbaia alla luna/ sono fiero di essere ciò che sono.

Tra le iniziative più importanti presentate da Perda Sonadora, “La Casa della Poesia”, che ha visto domenica sera a Putzu Arru la presentazione del libro “Un ponte gettato sul mare”, esito del laboratorio di poesia realizzato in collaborazione con Mario Cubeddu e l’associazione Perda Sonadora e Alessandra Tomassone con la Cooperativa Sociale CTR, indirizzato agli ospiti delle case famiglia di Busachi, Samugheo, Santa Giusta e Oristano. Il libro raccoglie le poesie prodotte dai partecipanti al laboratorio partito un anno fa, sotto la guida delle poetesse Azzurra D’Agostino e Francesca Matteoni. <<Questo è un patto tra di noi e le persone che ci hanno accolto. Accogliere è un gesto di salute. C’è l’autarchia di un libro fresco e importante fuori dal mercato editoriale. “Un ponte gettato sul mare”, da un verso di Pascoli. Farsi ponte tra l’isola e il continente, tra le persone, combattere lo stigma. Andare a scavare con dei temi molto semplici dentro noi stessi, cosa che non si fa molto spesso. Uscire e stare insieme creando, e agire fuori dall’ottica della prestazione. Il libro più bello, manifesto sull’etica del fare>>, hanno spiegato al pubblico del Cabudanne, le poetesse. Tra loro anche i poeti della case famiglia che hanno scritto i versi di questo libro, il più bello. Manifesto dell’etica sul fare.

E ancora, tra le strette vie del paese hanno risuonato venerdì tra stupore e meraviglia le note di pura eleganza e sensibilità di Ernst Reijseger, il grande violoncellista, compositore e performer olandese, figura tra le più importanti della scena musicale contemporanea. Concerto per violoncello e quattro voci con Cuncordu e tenore de Orosei: humour, teatralità, bravura, e perfetta sintonia e sincronia con le voci e le sonorità della Sardegna.
Il grande ritorno, domenica, per il gran finale del Cabudanne 2016, di Bobo Rondelli, cantautore, poeta, attore e performer prolifico e instancabile, introspettivo, ironico, innamorato della sua Livorno, ha cantato oltre ai suoi brani, alcuni del grande cantautore e suo compaesano Piero Ciampi, a cui ha dedicato il suo ultimo lavoro discografico dal titolo “Ciampi ve lo faccio vedere io”, titolo omonimo della sua tournèe nazionale che ha chiuso proprio a Seneghe. Un bicchiere di vino e poche luci lo hanno accompagnato insieme agli amici Fabio Marchiori alle tastiere e Filippo Ceccarini alla tromba. Uno show scarno, essenziale, travolgente. Paolo Nori, ospite per un doppio appuntamento venerdì a Prentza de Murone e poi in Piazza dei Balli, tra i più amati al festival dei poeti, ha letto la sera davanti a una piazza strapiena la sua recente opera “La Svizzera”. Quasi un monologo teatrale il cui personaggio principale è Benito, il meccanico di biciclette, già co-protagonista del precedente romanzo dell’autore di Parma “A Bologna le bici erano come i cani” (Ediciclo, 2010). Un grande ritorno per uno degli scrittori più seguiti al Cabudanne che ha lasciato letteralmente il pubblico di Seneghe a bocca aperta.

Francesca Matteoni, poetessa fiorentina, ha portato venerdì a Putzu Arru la sua ultima raccolta di poesie “Acquabuia” a metà fra il buio onirico e la luce fiabesca, introdotta da Azzurra D’Agostino. Licia Lanera fra le attrici più interessanti e temerarie della nuova scena teatrale, miglior attrice italiana della 37° edizione del premio Ubu, ha letto dal balcone sulla Piazza dei Balli, allestita per l’occasione come una suggestiva scena teatrale, la sua piccola antologia di fiabe oscure nell’incontro “Licia legge le favole”, confezionate appositamente per il Cabudanne. Un momento intenso di magia in cui Cenerentola e la Sirenetta si sono materializzate, tra suoni elettronici e straordinario talento.

Tra i protagonisti della tradizione musicale sarda al festival di Seneghe è stato dedicato la domenica mattina al Bar Manunza un incontro molto interessante al poeta in lingua sarda Bonaventura Licheri, autore di componimenti religiosi e laudi fra cui il Deus ti salvet Maria. Una buona occasione per presentare il libro “Gaudia”, sulla vita e le opere dell’autore gesuita originario di Neoneli (1667-1733). Insieme a Maurizio Virdis, professore di Filologia Romanza e di Linguistica sarda presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Cagliari, il sindaco di Neoneli Salvatore Cau, lo storico Graziano Fois e Mario Cubeddu si è cercato di raccontare questo poeta di testi sacri, tra i più importanti della cultura sarda. Si sono ricordati in particolare i gosos, una forma di canto religioso che caratterizzava l’opera di Licheri, un tempo cantati in chiesa o in processione, dalle confraternite. Con L’avvento della lingua italiana, imposta anche nel campo della liturgia, si crearono delle restrizioni nella scelta dei testi da cantare. Sparirono così dalle chiese sarde. <<Oggi il canto dei gosos è considerato un avvenimento, un momento raro. Solo pochi cantori specializzati li cantano in alcune occasioni>>, ha illustrato Mario Cubeddu.
Sempre nell’ambito della nostra tradizione, anche il musicista, autore e compositore Antonio Lotta, componente dei celebri “Salis” e della band “Janas” ha portato sabato mattina al Bar Su Recreu, “Le stagioni di un musicista”, un affascinante racconto delle sue esperienze di vita legate alla sua carriera, nel dialogo condotto dal giornalista e esperto di musica e cultura sarda Giacomo Serreli. In collaborazione con il Comitato per i festeggiamenti di San Raimondo la prima serata ha visto la tradizionale gara poetica “Sa Repentina”, con la poesia improvvisata seneghese di Efisio Caddeo e Remo Orrù accompagnati dal noto fisarmonicista Mario Feurra nella Piazza di Santa Maria.

Infine la consueta parentesi musicale del Cabudanne “Il Racconto della Buonanotte”, che a partire dalla mezzanotte ha chiuso ogni serata al Giardino di Su Lare, realizzato in collaborazione con i giovani di Alter Events Crew e Lea Tommasi. Nuovi ospiti e graditi ritorni, come quello di John Vignola, sorprendente divulgatore di conoscenza musicale, esperto di musica e autore di libri sulla storia del rock e voce radiofonica ben nota dalle parti di Rai Radio 3, Radio 2, RaiStereoNotte, con i suoi programmi pluripremiati Ritratti, Twilight, che ha condotto sabato notte il pubblico nel viaggio dal titolo “Cantare la voce”; gli Antiphone il nuovo progetto elettronico di Massimo Giangrande e Andrea Biagioli; la miscela esplosiva di blues, funky e soul in chiave acustica del grande talento sardo Francesco Piu accompagnato alla batteria da Giovanni Gaias; e ancora il musicista, trombettista compositore e didatta romagnolo Simone Marzocchi e la sua divertente e demenziale musica fantastica nella performance “Sibode DJ”.

E infine le installazioni nella Piazza dei Balli legate al concetto di identità del festival, realizzate da Gabriele Lo Piccolo, giovane artista e motiongrapher freelance seneghese (classe 1987) formatosi al Centro Internacional de Fotografia Y Cine (EFTI) di Madrid, e le sue lettere tridimensionali cartacee sparse per le vie e le piazze del festival. E poi i laboratori: la “Summer School” realizzata da Perda Sonadora, che ha promosso l’attività di ricerca, di formazione e di rappresentazione dei luoghi e del paesaggio attraverso la fotografia con i docenti Joachim Brohm e Valentina Seidel.
Lo spazio dedicato ai ragazzi della Biblioteca Comunale di Seneghe patrocinato dall’Unione dei Comuni Montiferru Sinis e organizzato in collaborazione con il Sistema Bibliotecario Montiferru e la Cooperativa ABC Servizi Culturali, che per quest’anno ha allestito i quattro seminari seguiti dagli iscritti con successo: Coding, Astronomia, Fumetto e Lettura ad alta voce.

 

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