LA LINGUA, LA CULTURA, L’IDENTITA’ E LA MUSICA: PIERO MARRAS, IL RE DELLA CANZONE ETNO-FOLK IN SARDEGNA

ph: Piero Marras


di Simone La Croce

intervista condivisa per gentile concessione dell’Associazione Brincamus – www.brincamus.it

 Piero Marras è uno dei più longevi rappresentanti della musica etno-folk in Sardegna. Un cantautore, nel senso classico del termine, evolutosi negli anni ’70 che ha saputo, a suo modo, dare dignità a un “genere” bistrattato da pressapochismo, superficialità e smania di arrivare.  Spesso si rifugge dalla musica cantata e suonata “in limba”, anche a causa di tanti pessimi esempi che affollano le sagre di paese. Piero Marras, per contro, vive e rappresenta la tradizione con umiltà, guardando al futuro dall’alto dei suoi 67 anni in modo innovativo e smart. Un esempio decisamente poco seguito dai suoi colleghi più giovani. Un cinghiale, come ama definirsi, che potrebbe prima o poi iniziare a cantare di nascosto, senza proclami né ostentazione. Spinti anche dalla curiosità di un punto di vista originale e inusuale, gli abbiamo posto qualche domanda. Nello spazio di qualche riga ci ha regalato importanti riflessioni sull’attuale stato di salute della musica “etnica” in Sardegna e della cultura in generale.

Hai una lunga carriera alle spalle. Più di 50 anni ormai. Come credi sia cambiata rispetto alla fine degli anni ’70, periodo in cui hai esordito, la musica in Sardegna? Io ho cominciato a suonare nei gruppi dal 1967. Da quegli anni la musica è cambiata ed è cambiato soprattutto il modo di ascoltarla. Trovo che il tempo dell’ascolto oggi sia casuale e distratto. Spesso è ascolto pilotato, specialmente in rete. Non gli si dedica un tempo specifico. Così come, in generale, si leggono pochi libri e si subiscono film pessimi. La musica “accompagna”, come dal dentista. Non è più protagonista, è un corollario. Questo è un mondo miniaturizzato. Vince il tweet, la sintesi estrema. Il paradosso è che la Canzone (quella con la C maiscola) che è di per se stessa sintesi, non trova più lo spazio di una volta. O meglio non trova un ascolto adeguato. I testi devono scivolare via veloci, immediati. Possibilmente disimpegnati. Salvo rarissime eccezioni, la musica d’autore oggi sembra anacronistica. Per quanto mi riguarda, l’importante comunque è non lasciarsi fagocitare dalla superficialità dei tempi e credere nelle cose che si fanno. A costo di finire per essere “di nicchia”. 

A mio personalissimo parere, dalla scena musicale etno-folk sarda emergono tanti bei progetti, ma anche tante cose non propriamente all’altezza, come d’altronde in tutte le scene musicali di ogni parte del mondo. Ma qui in Sardegna, nello specifico, che c’è che non va secondo te? In Sardegna si va per emulazione. Qualcuno fa una cosa più o meno originale e gli altri si limitano a copiare, non a sviluppare. Non vorrei essere troppo severo, ma c’è molta superficialità nell’affrontare il “suono della lingua sarda”, che, invece, viene spesso strumentalizzata. Intendo dire che non basta cantare in sardo per esprimere il nostro mondo. Mi piacerebbe che si cantasse di più “il sardo” e che si avesse l’umiltà necessaria per significare un humus interiore. Sarebbe bello si lavorasse per uno specifico da esportare e non per ingrossare le fila asfittiche di un localismo di terza categoria, cosiddetto “etnico da piazza”. Si dovrebbe avvertire l’esigenza di un suono con cui poter aggredire il globale. Volare alto. E invece siamo ancora a una folklorizzazione sempre più pallida e uguale a se stessa. Come se il tempo non scorresse e la tradizione debba necessariamente essere sempre la stessa anche fra cent’anni. L’identità è un concetto dinamico. Ognuno dei musicisti sardi, compositori, autori e interpreti, deve porsi il grande obiettivo di far partire la musica da qui, di essere la tradizione di domani o almeno un riferimento per la sua evoluzione. Quindi non bisognerebbe usare “sa limba” in maniera posticcia perché fa molto etnico, ma perché è il modo più coerente e significativo di raccontare un mondo a parte. Il nostro.

Sei probabilmente il musicista che in Sardegna ha incarnato al meglio la figura del cantautore, pur riuscendo a coniugare nel tempo world music e tradizione musicale sarda. Quali sono i modelli che hai avuto modo di seguire in questi anni e che maggiormente ti hanno influenzato? Il mio background cultural-musicale è molto vasto. Va da Bob Dylan a Peter Gabriel, con in mezzo una moltitudine di compositori e interpreti che mi hanno accompagnato in ogni stagione. Dylan è partito dal folk e lo ha letteralmente rivoluzionato, ponendo le basi di tutto quello che oggi viene definito country rock, coniugando sonorità acustiche ed elettriche con testi mai banali e anch’essi rivoluzionari. Peter Gabriel è forse l’unico che ha saputo interpretare il suono globale in maniera moderna ed accattivante. È forse quello che si è speso di più nella ricerca: da lui è partita la world music. E soprattutto è stato colui che ha saputo dare un’anima al digitale, sfruttandone al meglio tutte le potenzialità. Che non sono poche.

Ami definirti un cinghiale, animale nei confronti del quale, personalmente, provo molta simpatia. Come mai questo accostamento? Il cinghiale ha da sempre rappresentato per me l’emblema della libertà. La sua solitudine e il suo essere fiero e selvaggio mi hanno sempre affascinato. Come un “ultimo capo indiano”, metafora di un mondo valoriale che resiste e non si dà mai per vinto. Il magnifico interprete di una resistenza preistorica, che combatte fino all’ultimo, nonostante l’impari sfida con in tempi: coi suoi parenti maiali pronti a farsi prosciutto, con miriadi di doppiette a pallettoni e relative mute di cani servili e famelici. Vedo nel cinghiale anche una tenerezza inusuale, nascosta e mai ostentata. Come quando è in compagnia dei suoi cuccioli. A volte vorrei essere lui e magari cantare di nascosto la notte fra le macchie di lentischio.

Il tuo primo album, Fuori Campo, è uscito nel 1978. L’ultimo Ali di stracci tre anni fa, nel 2013. In mezzo tanti cambi di rotta e tante sperimentazioni, pur restando nell’ambito del cantautorato. Quali di questi cambi è stato, a tuo modo di vedere, il più impegnativo? Beh, debbo dire che più che una scelta è stata una esigenza, la voglia di marcare davvero la mia provenienza. Raccontare un mondo dal di dentro e farlo con i suoni che gli appartengono. C’era la volontà di rendere giustizia a una lingua troppo spesso bistrattata e resa quasi museale dalla irresponsabilità delle istituzioni. Volevo dimostrare la sua duttilità, la sua modernità e, soprattutto, la sua originale sonorità. Il ping-pong fra italiano e sardo è lo stesso che viviamo tutti noi ogni giorno e rende molto più dinamica la mia creatività.

Hai fatto tante di quelle collaborazioni artistiche e musicali che citarle qui risulterebbe noioso. Qual è la cosa più strana che ti sia capitato di fare e quale quella che ti ha segnato di più? Tra le tante citerei senza dubbio Dionne Warwick, grande professionista e gran bella persona, e Andrea Boccelli, musicista di alta cultura e sensibilità. Ultimamente ho fatto alcune performance con Gavino Murgia. Bel musicista. Per giunta nuorese come me. Mi sono divertito e penso anche lui. La musica è questo: gioco e divertimento. Non a caso gli inglesi usano il termine “play” per indicare l’atto del “fare” musica.

Hai un’idea di quali persone costituiscano oggi il tuo pubblico? No. Sinceramente non me lo sono mai chiesto. La sensibilità non ha età. Certo ci sono i gusti personali, ma non credo che apprezzare la buona musica sia un fatto generazionale. Io ho la presunzione di poter arrivare a tutti. O almeno ci provo!

Dopo quasi quarant’anni di carriera avrai tirato le somme più e più volte, immagino. Conti di fare musica finché ti sarà possibile o hai in mente altri progetti per il futuro? La musica è vita. È come respirare. È il mio vero mezzo di comunicazione. L’unico che sa aprirmi al mondo. Credo di avere ancora tanto da dire e penso che la musica mi farà sempre compagnia. Come? Questo non lo so esattamente. Seguo l’istinto. Il giorno che non mi sentirò più di cantare in pubblico, lo farò di nascosto. Senza annunci. Come ho cominciato. Altrimenti che cinghiale sarei!

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