TERRORISMO IN EUROPA: SENZA UNA PREVENZIONE UNITARIA, IL PEGGIO DEVE ANCORA VENIRE


di Tommaso Canetta

Se è vero, come vuole la saggezza popolare, che la notte sia più buia subito prima dell’alba, allora l’Europa deve prepararsi ad affrontare nei prossimi anni le ore più buie della sua storia recente e gli incubi che verranno con esse.
Il terrorismo islamico che ha finora martoriato il vecchio continente rischia infatti di essere solo un antipasto di quanto potrebbe succedere in futuro, quando lo Stato Islamico verrà definitivamente cancellato dalla mappa del Medio Oriente e i “soldati” del suo esercito saranno dispersi – letteralmente – ai quattro venti.
Tra i foreign fighters di passaporto europeo, tra i tanti combattenti extracomunitari che avranno più da temere in patria che all’estero e che potrebbero cercare di raggiungere l’Europa, non si può escludere si nasconderanno jihadisti ancora pronti a portare avanti la propria battaglia. E non saranno più “persone con disturbi mentali” che si radicalizzano rapidamente sul web e che colpiscono con armi da taglio o autovetture, come avvenuto nella maggior parte dei casi negli ultimi mesi, ma ex combattenti con addestramento militare, come nel caso di Moahmmed Deleel, il terrorista siriano che è esploso a Ansbach in Germania lo scorso luglio e che solo per un caso fortuito non ha fatto una strage, o della cellula belga responsabile degli attentati a Parigi nel novembre 2015.

Lo Stato Islamico non è ancora sconfitto – il tempo perché l’Europa (soprattutto le varie intelligence nazionali) si prepari ancora c’è – ma le sue roccaforti si stanno sempre più sgretolando. In Libia la recente avanzata su Sirte delle milizie di Misurata, fedeli al governo di unità nazionale di Serraj, ha praticamente eliminato l’Emirato dell’Isis nel Paese (anche se la sigla resta a livello di organizzazione terroristica).Giacomo Stucchi (Lega Nord), in qualità di presidente del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) nei giorni scorsi aveva lanciato un avvertimento: “Se a lungo è stato altamente improbabile, se non impossibile che l’Isis facesse viaggiare suoi affiliati sui barconi, esponendo ai rischi oggettivamente alti della traversata uomini su cui aveva investito in tempo e soldi, oggi si è in pieno caos, e nella fuga dalla Libia quelli che non sono diretti verso sud potrebbero anche decidere di tentare la carta del viaggio in mare verso l’Europa”. L’allarme è subito stato smentito dalla Guardia Costiera Libica per la regione centrale, il cui comandante ha assicurato che Sirte è circondata anche via mare e non c’è rischio di fuga.
Ma se l’Emirato dello Stato Islamico in Libia era oggettivamente di dimensioni ridotte – per uomini, mezzi ed estensione territoriale – e il contenimento dopo la sconfitta non pare quindi troppo problematico, non si può dire lo stesso per la “casa madre” in Siria e Iraq (vasta all’incirca quanto l’Inghilterra e con decine di migliaia di adepti).

Anche qui il Califfato è in grave difficoltà. In Iraq, dopo aver perso le battaglie di Ramadi e Falluja, è sotto costante attacco da parte tanto dell’esercito regolare quanto dei Peshmerga del Kurdistan iracheno. Grazie anche allo sforzo militare dei ribelli siriani moderati del New Syrian Army (aiutati da forze speciali inglesi) ha perso il controllo sul valico di Al Tanf – che congiunge Siria e Iraq – ed è sotto pressione all’altro valico meridionale, quello di Al Bukamal sull’Eufrate.
I suoi possedimenti sono frammentati e la grande offensiva dell’esercito regolare e dei Peshmerga su Mosul (la seconda città più grande dell’Iraq dove, dopo la sua caduta nelle mani dell’Isis, Al Baghdadi proclamò la nascita del Califfato più di due anni fa oramai) sembra imminente, tanto che Obama ha di recente ulteriormente aumentato il numero di soldati americani dispiegati nell’area.

In Siria i territori dello Stato Islamico vengono incessantemente erosi dall’azione dei curdi siriani del Ypg (da alcuni mesi riuniti con altri ribelli arabi nelle Sdf, Syrian Democratic Forces), supportati dall’aviazione americana. Pochi giorni fa è caduta Manbij, cittadina nel nord della Siria molto importante per l’Isis (che qui ha perso, pare, più di mille dei propri combattenti), e ora sarebbe nel mirino delle Sdf la cittadina di Al Bab: caduta questa, le vie di rifornimento a nord per lo Stato Islamico e per Raqqa, la sua capitale siriana, sarebbero definitivamente chiuse (complice anche il concomitante attacco dei ribelli sostenuti dalla Turchia al valico nord di al-Rai, finora controllato dal Califfato). E lo stato di difficoltà dell’Isis in Siria è testimoniato anche dalla sua assenza nella battaglia di Aleppo, dove le truppe di Assad – affiancate da milizie sciite e dall’aviazione russa – si scontrano con i ribelli sunniti, senza che gli uomini di Al Baghdadi riescano ad approfittare della situazione.

Lo Stato Islamico sta imbarcando acqua ed è opinione condivisa tra gli analisti che sia destinato ad affondare nei prossimi anni (salvo improvvise accelerazioni di un eventuale nuovo presidente americano, che potrebbero avvicinarne la data di morte, o salvo catastrofi regionali che al contrario la allontanino).
A quel punto sarebbe imprudente non preventivare la possibile fiamma di ritorno rappresentata da (ex?) jihadisti che entrino in Europa. Gli attentati saranno probabilmente inevitabili – in parte già lo sono – ma quanti e quanto pericolosi (saranno usate auto e coltelli oppure bombe e mitragliatrici?) dipenderà anche dalla bontà del sistema di prevenzione che si riuscirà a dispiegare nel frattempo, a livello di servizi di sicurezza ma non solo.

Non si può, ad esempio, pensare di risolvere il problema criminalizzando l’immigrazione nel suo complesso, rendendo così più torbida e difficile da scandagliare l’acqua in cui nuotano e si confondono i jihadisti. Non si può poi agire divisi, con gli Stati affacciati sui confini dell’Europa egoisticamente lasciati soli dagli altri che invece innalzano muri, e senza una totale condivisione dell’intelligence.
Né si può pensare di delegare ad altri il compito di gestire il flusso migratorio: l’accordo con la Turchia – che dopo il fallito golpe e la repressione di Erdogan sembra traballare – è paradigmatico.
Se oggi Bruxelles acconsentirà alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi (senza peraltro aver ottenuto in cambio il rispetto delle 72 condizioni poste alla Turchia), potrebbe un domani subire la decisione “umanitaria” di Ankara di dare la cittadinanza a 3 milioni di profughi siriani (a quel punto liberi di entrare in Europa). Il tutto dopo aver pagato a Erdogan 6 miliardi di euro per tenere i profughi dentro i propri confini. L’Unione europea deve trovare la forza e il modo di fare da sola, non regalando a nessuno (nemmeno a teorici alleati in ambito Nato, come Ankara) il potere di ricattarla, e di fare bene. Altrimenti rischia di sprofondare in un incubo da cui nemmeno l’arrivo dell’alba potrebbe svegliarla.                                                                                                                                                                                               http://www.linkiesta.it/

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