INSULARITA’, CHI L’AVREBBE MAI DETTO? SARDEGNA, STOP ALL’AUTOCOMMISERAZIONE: PRENDIAMOCI LE NOSTRE RESPONSABILITA’

immagine di Daniela Deidda


di Omar Onnis

Non ho mai letto qualcosa a proposito dello svantaggio di essere un’isola del Mediterraneo fino a che la Sardegna non è diventata italiana. Mariano IV non sembra annettesse all’insularità alcuna rilevanza particolare, e di certo nel XIV secolo non avevano i mezzi che abbiamo oggi. Giovanni Maria Angioy, nel suo Memoriale, anno 1799, parla della Sardegna come di una terra potenzialmente ricca e posta in una posizione geografica molto favorevole.

Tutti coloro che sono venuti a depredare la nostra terra negli ultimi due secoli, accolti e aiutati dalle “guide indiane” locali, non hanno trovato particolari ostacoli nell’arricchirsi ai danni dei sardi, malgrado la Sardegna fosse evidentemente un’isola anche allora.

Non sarà dunque che il problema sta da un’altra parte? Per quel che vedo io, per quello che ci raccontano le fonti e ci suggeriscono lo studio e la riflessione, il vero, fondamentale problema della Sardegna contemporanea non è mai stato la sua condizione di isola, quanto piuttosto l’assenza di una classe dirigente propriamente detta e la sudditanza politica, la debilitazione economica, sociale e morale della sua popolazione.

Vantarsi oggi, come fa il deputato europeo Salvatore Cicu, di aver lavorato tanto per far riconoscere all’Europa che la Sardegna è un’isola, può giusto far ridere. Per non piangere (o passare a reazioni meno edificanti). Non bastava mostrare una cartina geografica?

Voglio essere onesto e chiaro fino in fondo: è comprensibile che per alcune questioni (di finanziamenti, di fiscalità, di intervento pubblico nell’economia, ecc.) questo passaggio formale, nell’ambito dell’ordinamento europeo, abbia un suo significato. Ma basta a farne la soluzione dei nostri mali?

Cosa mai vorrà dire il riconoscimento di insularità se si tradurrà soltanto in un nuovo flusso di denaro pubblico o di opportunità concrete da dirottare abilmente verso se stessi e i propri amici, complici, mandanti, padroni? È troppo facile prevedere che, in assenza di una classe dirigente presentabile, qualsiasi erogazione di fondi, qualsiasi via libera di favore, saranno usati per rimpinguare le esangui sacche clientelari e per rilanciare le antiche pratiche corruttive, ormai a secco per mancanza di liquidità. Nel contesto attuale potrebbe dunque rivelarsi l’ennesimo accorgimento per mantenere lo status quo di dipendenza e subalternità. Insomma, sarei molto prudente, prima di esaltarmi per questa notizia.

E del resto, col fatto che la Sardegna sia un’isola, cosa c’entra il penoso teatrino dei piagnistei per l’abbandono della base NATO di Decimomannu da parte della Luftwaffe? E le disastrate condizioni delle nostre infrastrutture, le carenze sistemiche dei nostri trasporti interni, la scandalosa gestione dell’acqua da parte di Abbanoa, la mortificante situazione del nostro settore agroalimentare, il sottodimensionamento del comparto turistico, la crisi dell’università e della scuola, l’incapacità di valorizzare il nostro enorme patrimonio storico-archeologico e demo-antropologico, ecc. ecc. ecc. dipendono dal mare che circonda la Sardegna o forse piuttosto dalla mediocrità, dal conformismo, dalla pavidità e dall’egoismo della nostra classe dominante?

Guardiamo alle reazioni dei suoi esponenti (politici, accademici, persino sindacali) in occasione di episodi simbolicamente significativi. Prendiamo la recentissima vicenda delle dichiarazioni del procuratore generale Saieva. Cosa se ne evince? Se ne evince facilmente che per costoro – dalla giunta dei professori, alle alte cariche universitarie, ai mass media principali, ai grandi burocrati – esiste solo e sempre la fedeltà verso il padrone e mai, mai una volta, la priorità viene data al rispetto e alla reale rappresentanza politica, culturale, morale del popolo sardo.

È così da quando la corte sabauda dovette riparare in Sardegna, nel marzo del 1799, in fuga dalle armate francesi (un classico, questo della fuga, per Casa Savoia). I nostri valenti rappresentanti, fino a poco prima tronfi e pieni di vanagloria, ma timorosi dell’esito della Rivoluzione in corso, si prostrarono davanti a una congrega di nobilastri di provincia e al loro seguito parassitario. Anziché metterli alle strette, approfittando della loro condizione di oggettiva precarietà, se ne resero servi e per compiacerli si macchiarono delle peggiori azioni, dei più disgustosi tradimenti ai danni dei sardi che provavano a costruire un percorso di reale emancipazione collettiva. Questa da allora è la cifra politica ed etica delle nostre classi dirigenti.

Prima di prendercela con lo stato italiano, con i migranti, con l’Europa o con chi diavolo viene presentato di volta in volta come capro espiatorio di comodo, facciamoci un bell’esame di coscienza e guardiamoci attorno.

I primi ad avere pensieri razzisti su di noi siamo noi stessi e quelli che mandiamo a rappresentarci e a governarci. Chi deve smetterla con gli stereotipi mortificanti e le mitologie tossiche sul nostro conto, siamo noi stessi. Chi deve promuovere e sostenere una classe dirigente all’altezza, prendendosi le proprie responsabilità, siamo tutti noi.

Se nei ruoli decisionali e nei ruoli di rappresentanza ci sono sardi di bassa qualità morale, scarsa competenza, poco coraggio civile, qualche colpa l’abbiamo noi tutti. Non è pensabile che la nostra classe dirigente attuale sia in grado di fare qualcosa di buono. È evidente. Non è stata selezionata e messa lì per quello. Quanti altri esempi ci servono per capirlo? E a chi dobbiamo rivolgerci per risolvere questo enorme problema? All’Europa che ci riconosce, dopo alcuni milioni di anni, come isola?

Non dobbiamo più accettare che siano altri a selezionare per noi chi deve rappresentarci. Già solo questo è mortificante. Si tratta di una questione dirimente. Eppure continuiamo a sbagliare. Perché di uno sbaglio oggettivo, pragmatico, strategico si tratta. Nessuna forza organizzata, nessun centro di potere o interesse che non abbia il proprio baricentro e le proprie radici in Sardegna potrà mai fare gli interessi collettivi dell’isola. È un discorso generale, ma preliminare, che sta a monte delle normali dialettiche sociali e socio-economiche interne alla nostra comunità storica.

La selezione della nostra classe dirigente deve emergere dal popolo, dalla cittadinanza e ad essa rispondere, non deve più essere un’opzione in mano alle segreterie dei partiti italiani o a centri di interesse che vedono la Sardegna come puro oggetto storico e i sardi come esseri inferiori da usare a piacimento e da blandire all’occorrenza.

Smettiamola di farci ingannare con la nostra stessa collaborazione. Basta con l’autocommiserazione a comando, con lo scaricabarile delle responsabilità, con l’attesa di elemosine e favori. Chi siamo e quali siano le nostre necessità strategiche dobbiamo saperlo noi per primi, senza pendere dalle labbra di chicchessia per scoprirlo. Non c’è orgoglio sardo che tenga, se non siamo capaci di procurarci da noi ciò di cui abbiamo bisogno, a cominciare da un po’ di sana dignità.

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2 commenti

  1. Complimenti, analisi giustissima, ma dai commenti che leggo nei gruppi di sardisti, indipendentisti e cavolate varie,(dai quali mi sn cancellata) la situazione e’ molto piu’ grave di questa, c’e’ proprio un’ottusita’ di fondo, poca sincerita’ nessuna obiettivita’ e la tendenza ad autocommiserarsi, insomma..zero assoluto

  2. Mea. Culpa.mea culpa….ma non serve l’autocommiserazione…serve..l’unità dei sardi..lavoro..e la consapevolezza..che non siamo un’isola. Dei caraibi…quindi..non potremmo. Vivere di solo turismo…ma essere un porto franco…governati..da gente onesta…ed essere noi stessi onesti..

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