LA JAZZISTA CON LA SARDEGNA NEL CUORE: DA LONDRA FILO DIRETTO CON FILOMENA CAMPUS. LE TAPPE PIU’ SIGNIFICATIVE DELLA CARRIERA DELL’ARTISTA DI MACOMER

ph: Filomena Campus


di Alceste Ayroldi

Vocalist jazz, compositrice e regista teatrale, vive a Londra dal 2001. Molto nota nella sfera del jazz sperimentale e dell’improvvisazione free, ha collaborato con musicisti di fama internazionale come Paolo Fresu, Evan Parker,  Kenny Wheeler, Antonello Salis, Orphy Robinson, Guy Barker, Jean Toussaint, Byron Wallen, Cleveland Watkiss, Huw Warren, Martin France,  Antonio Forcione, Andreas Schmidt, Tony Kofi e la London Improvisers Orchestra. Nel 2013 ha ideato e creato il Theatralia Jazz Festival (ex My Jazz Islands Festival)  in collaborazione il primo anno con Forma e Poesia nel Jazz a Cagliari e con il Pizza Express Jazz Club Soho e l’Istituto Italiano di Cultura a Londra con ospiti come Stefano Benni, Antonello Salis, Orphy Robinson, Cleveland Watkiss, Paolo Fresu e altre stelle del jazz europeo. All’interno del Festival ha presentato la premiere di ITALY VS ENGLAND, il nuovo progetto del Filomena Campus Quartet (Steve Lodder, Dudley Phillips e Martin France) insieme al grande scrittore e poeta Stefano Benni, riscuotendo grandissimo successo di pubblico e critica sia a Cagliari che a Londra.

Dalla Sardegna a Londra il passo non è proprio breve. Come e perché sei approdata in Inghilterra? Nel 2001 ho deciso di lasciare la Sardegna per un Master in regia teatrale alla University of London (Goldsmiths College). Un’esperienza che mi ha fatto crescere e che mi ha permesso di conoscere registi e artisti che hanno fortemente influenzato il mio lavoro teatrale e musicale. Quell’anno ho avuto la fortuna di incontrare musicisti del calibro di Orphy Robinson, Rowland Sutherland, Jean Toussaint, Dudley Phillips, Guy Barker. Oltre a splendide amicizie, sono nate solide collaborazioni musicali che hanno dato e stanno dando ancora molti frutti. Anche se Londra è una città molto difficile mi sono sentita accolta e incoraggiata nei progetti sia teatrali che musicali, e arricchita enormemente dalla realtà multiculturale londinese. Non sono più riuscita a tornare. 

Vocalist, regista teatrale, docente universitaria: quale è il tuo background culturale? Ho una laurea in lingue e letterature straniere con una specializzazione in semiotica del teatro. L’arte, la comunicazione, il teatro e la musica sono le mie grandi passioni e negli ultimi anni sono riuscita a fondere questo aspetto ‘multimediale’ del mio lavoro in progetti importanti. Ho insegnato regia teatrale, live art e performing arts per diversi anni in alcune università inglesi, ma dallo scorso anno ho deciso di concentrarmi solo sulla parte creativa e ho quindi lasciato il contratto di insegnamento. La parte accademica continua a interessarmi, ma insegnare a tempo pieno richiede una dedizione che il mio amore per la musica non mi permette più. 
Quale è stato l’anello di congiunzione con il jazz? L’amore per il jazz c’e’ sempre stato, ma la spinta fu l’incontro con Paolo Fresu e Maria Pia De Vito ai seminari jazz di Nuoro. Capii immediatamente che il jazz era la mia strada, e la mia vita cambiò radicalmente. Ho sempre portato avanti lo studio della letteratura, del teatro e della musica su binari diversi. Solo a Londra c’è stata una vera e propria fusione, con la sperimentazione e la scoperta di nuove realtà, come ad esempio il free di Evan Parker e della London Improvisers Orchestra, in cui l’aspetto performativo era esplorato nel suo rapporto con i suoni a volte viscerali e i ritmi sparsi, irregolari. L’aspetto ‘rituale’ della performance, la magia che si crea sul palco nel rapporto tra performer e ‘spett-attore’ mi ha sempre affascinato ed è un aspetto che esploro e curo particolarmente nei miei concerti. 

Tu sei una esploratrice della voce. Rispetto al passato, secondo il tuo giudizio, quali sono le strade della sperimentazione? Cosa c’è di nuovo? Mi interessa l’uso della voce come strumento, la ricchezza infinita di suoni che vengono troppo spesso limitati all’uso della ‘parola’ nella melodia e qualche lieve variazione. Ho una stima immensa per chi sperimenta e sa osare. Ho avuto una grande maestra come Maria Pia De Vito, e sicuramente anche Maria Joao, Sheila Jordan, Betty Carter, Norma Winstone hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione. Devo dire che, a parte rari casi come Cleveland Watkiss, ultimamente non ho incontrato vocalists interessati a uscire dagli schemi del jazz vocale tradizionale, mainstream. E trovo ancora ispirazione nelle opere per me visual-vocal di Lauren Newton, Ursula Dudziak, Jay Clayton

Da “inglese”, un tuo giudizio sul jazz italiano… Elegante, melodico, poetico, emozionante.
Da “italiana”, un tuo giudizio sul jazz inglese, europeo e americano… Nel jazz inglese ci sono diverse ‘categorie’ che vanno dal jazz più tradizionale e americaneggiante di Guy Barker, più vicino a Marsalis, a quello piu europeo di Andy Sheppard o John Taylor, a quello ritmicamente e armonicamente complesso che ha radici nel jazz americano di Jean Toussaint o jamaicano/africano nelle incredibili composizioni di Orphy Robinson, Rowland Sutherland, Denise Baptiste, Byron Wallen…una varietà che è lo specchio di una società con radici lontane e molto diverse.

Hai fondato il collettivo Theatralia: ce ne vorresti parlare? Theatralia è un collettivo di artisti che sperimenta sul testo attraverso teatro fisico, digital art, live art, musica e multimedia. Il gruppo cambia a seconda del progetto, e dal 2005 abbiamo realizzato produzioni di successo che hanno avuto importanti riconoscimenti come la sponsorizzazione dell’Arts Council England, che ha finanziato produzioni come U-238 (adattato dallo splendido testo di Marco Paolini, che ha assistito allo spettacolo al Camden People’s Theatre), e Misterioso di Stefano Benni ai prestigiosi Riverside Studios (teatro storico in cui recitarono da Samuel Beckett a Dario Fo). Tra un progetto e l’altro organizzo gli ‘Interludes’ di Theatralia, degli happenings di improvvisazione totale che coinvolgono musicisti, attori, danzatori e visual artists come Sdna (www.sdna.tv) con cui collaboro da molti anni. 

Quanto di “teatralità” c’è nelle tue composizioni? Ti senti più cantante o attrice? La mia scrittura è molto ‘teatrale’, a volte creo dei veri e propri personaggi, come la cattivissima creatura del brano ‘Hoos Foos’ per la quale indosso una mezza maschera durante il concerto. Nella tradizione della commedia dell’arte la ‘half mask’ ha proprio la caratteristica di essere umana solo a meta’, per cui l’altra parte e’ irriverente e non conosce regole, come quella di Arlecchino. Ho notato che gli spettatori e soprattutto i bambini si spaventano, ma restano ad ascoltare curiosi, quasi ipnotizzati fino alla fine del pezzo, fino a quando cioè tolgo la maschera. Reazioni diverse si hanno quando improvviso come in un ‘grammelot’ con il naso rosso da clown. Mi sento più cantante, anche se mi rendo conto che la regista e’ sempre presente. Forse un po’ brechtianamente. 
Jester Of Jazz (Giullare del Jazz), il tuo lavoro discografico racconta il tuo ruolo nella musica, nell’arte?  Sicuramente. Mi sento giullare come nel significato originale del termine, che fu il motivo del premio Nobel a Dario Fo, “che nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati”. Come artista mi sento responsabile dei tempi che stiamo vivendo e credo che ogni possibilità di riflettere, anche se attraverso un naso rosso o una dolce canzone, possa essere importante e produca qualche beneficio, o almeno un dubbio, un punto di domanda nella mente dello spettatore. Credo che in questo caso l’insegnamento di maestri come Boal, Barba, Brecht, DV8, Complicite, Bausch e tanti altri si sia radicato nella mia esperienza quotidiana e nel mio lavoro. Franca Rame, in una nota al testo che ho scritto per lei, Queen of Clowns, mi ha fatto riflettere molto su questo aspetto, ricordandomi che se ho qualcosa da dire non devo sussurrarlo ma avere il coraggio di dirlo a piena voce. 

Un lavoro che si ritaglia il ruolo di crocevia tra jazz, contemporanea e teatro: come è nato? Per anni mi sono posta il problema di essere troppo ‘eclettica’, di trovare il modo e il tempo necessario per curare ogni aspetto in modo professionale. Quando ho smesso di pormi troppi problemi ho capito che invece questa’ e’ proprio la mia forza, il mio talento, sono semplicemente io. Il primo frutto di questa accettazione o consapevolezza è proprio l’album Jester of Jazz. 

Anche Paolo Fresu ha voluto contribuire “live” al tuo lavoro. Quale è stato il suo valore aggiunto? Oltre a un’autentica amicizia nutro per Paolo grande stima e gratitudine. E’ stato, e continua ad essere, un esempio sotto molti punti di vista, dal suo amore per il jazz a quello per la nostra Sardegna. Nelle sue note di copertina al mio Cd ha colto un lato che io non avevo ancora messo a fuoco nella mia musica, cioè le radici sarde, gli echi delle voci ancestrali delle madri, che ritrovo, stupita e a volte commossa, nel mio canto. 
La presentazione del disco a Londra per due concerti insieme (al Pizza Express di Dean Street) ha arricchito i nostri brani di un suono unico che si e’ sposato magnificamente con i testi, con le armonie, e che ha portato l’improvvisazione in direzione inaspettate, sorprendenti. Spero davvero che sia solo l’inizio di future collaborazioni. 
Pensi di ritornare in Italia? Torno spesso in Italia, la mia famiglia vive in Sardegna e le radici sono molto forti. Ora vivo tra Londra e Berlino e devo confessare che, almeno per ora, non ho un grande desiderio di tornare a vivere in Italia. In realtà mi sento assolutamente cittadina europea, mi sposto continuamente per concerti e viaggiare è una condizione in cui mi trovo a mio agio. Talora soffro per il mio paese, perché ha una bellezza di natura, arte e architettura che altri paesi non potranno mai avere, ma noto con molta amarezza un imbarbarimento negli ultimi anni, che a volte trovo imbarazzante. Spero però che ci sia un risveglio delle coscienze e che si ritrovino il gusto e l’eleganza che fino a non molto tempo fa ci appartenevano. 

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