LA “MAL ARIA”, IL TERRIBILE FLAGELLO DELLA SARDEGNA: MALATTIA ENDEMICA CHE ANCORA OGGI RAPPRESENTA UNA DELLE PRINCIPALI EMERGENZE SANITARIE DEL PIANETA


di Natascia Talloru

Che profumi tra i canneti, nella macchia popolata di lepri e di pernici, quando tornava il sole a risuscitare i ceppi morti e abbandonati dei bassi vigneti. Il guaio era che il paradiso in Baronia durava tre mesi: dopo, il sole diventava cattivo, si metteva a pentirsi della gioia che aveva portato tragli uomini, impazziva anche lui. In una settimana portava il deserto. E quel che è peggio (poiché il caldo si può sopportare) uscivano da quelle gore alle quali tra ciuffi di oleandri si era ridotto il Cedrino eserciti di zanzare portatrici di morte.

 Il giorno del giudizio, Salvatore Satta

La “mal aria”, così definita in seguito a una vecchia credenza secondo cui venne trasmessa dall’aria malsana,  è una malattia  endemica che ancora oggi rappresenta, assieme alla tubercolosi e all’AIDS, una delle principali emergenze sanitarie del pianeta. E’ causata da un piccolo protozoo del genere Plasmodium di cui ben quattro specie sono responsabili della malattia nell’uomo: il P. Falciparum; il P. Vivax; il P. Malariae e P. ovale  (ultimamente anche il P. Knowlesi  che era tipico nelle scimmie ma che è stato evidenziato in alcune regioni del Sud-Est asiatico). Le specie più comuni sono il P. Vivax e P. Falciparum, di cui quest’ultimo mortale.

La trasmissione della malattia avviene tramite puntura di zanzare femmine della specie Anopheles: per riprodursi il Plasmodiumcompie un ciclo vitale tra lo stomaco della zanzara e l’uomo, si insedia prima nel fegato e dopo viene rilasciato nel sangue, dove causa la morte dei globuli rossi. Parte dei Plasmodium presenti nel sangue sotto forma di gametociti possono trasmettersi ad altre zanzare, se il soggetto ne viene nuovamente a contatto, fecondare, e dare origine a un altro ciclo vitale.

I sintomi e i tempi di comparsa sono variabili a seconda del tipo di Plasmodium: si va da casi asintomatici a casi molto gravi con manifestazioni comprese in un periodo tra i 7 e i 30 giorni dopo la puntura di una zanzara infetta. Inizialmente si può presentare mal di testa, sudorazione, nausea, vomito, dolori muscolari e febbre, frequentemente confusi con una blanda influenza; alle volte si riscontrano tipici attacchi con brividi, febbre e sudorazione in sequenza, anemia e ingrossamento del fegato e della milza. Solo l’esame microscopico del sangue o i test rapidi parassitologici  possono confermare la presenza della malattia.

Attualmente i trattamenti in uso mirano a eliminare il Plasmodium dal sangue e differiscono in base ai sintomi e al tipo di parassita. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), le terapie di combinazione a base diartemisinina (ACTs) risultano oggi i più efficaci farmaci disponibili. Purtroppo in alcune aree come Cambogia, Laos, Myanmar, Tailandia e Vietnam  si sono sviluppate resistenze che mettono in discussione l’utilizzo stesso dei trattamenti. La clorochina è consigliata nelle aree in cui non vi sono resistenze al P. vivax, P. ovale, P. malariae e knowlesi. Nei casi più gravi di malaria terzana si raccomanda l’uso di medicinali del gruppo dell’artemisinina (artesunato)  anche per via endovenosa e intramuscolare e, dove non fosse disponibile, si ricorre all’artemetere per via orale e intramuscolare in preferenza al chinino, storico alcaloide naturale dalle proprietà antipiretiche, antimalariche e analgesiche. Attualmente la ricerca è rivolta verso lo sviluppo di vaccini, alcuni sono in fase avanzata di sperimentazione ma, a causa del complesso ciclo vitale del Plasmodium, risulta difficoltosa la realizzazione di un vaccino che sia indirizzato a tutti i tipi di parassita. In ogni caso, come concludono i ricercatori del Lancet: “il vaccino può contribuire al controllo della malaria quando usato in combinazione con altre misure di sorveglianza efficaci, soprattutto in aree ad alta trasmissione”. Una diagnosi accurata e un programma di prevenzione per i viaggiatori che vorrebbero recarsi in zone ad alto rischio, sono solo alcune delle chiavi indispensabili per controllare la malattia.

La malaria in Sardegna

Si attesta che la malaria in Sardegna sia comparsa la prima volta circa duemila anni fa e nei secoli sia stata la causa più importante di spopolamento e arretratezza dell’isola. Importata dall’arrivo dei Protosardi di provenienza nord-africana, divenne endemica all’epoca dei Cartaginesi. Con la conquista da parte dei Romani assunse le caratteristiche di una vera e propria epidemia, ma la diffusione continuò in tutta l’isola fino al Medio Evo per proseguire fino al XX secolo. In base a studi recenti condotti su campioni di siti in varie aree geografiche, corrispondenti a diverse epoche storiche e datati col radiocarbonio, le popolazioni nuragiche godevano di un buon stato di salute e non sarebbero state indebolite dalle febbri malariche. Questi studi hanno messo in luce un altro dato curioso, l’altezza, caratteristica che parrebbe essere legata alla malaria. Secondo i dati scientifici i nuragici avevano un’altezza media di 1,66  e questo potrebbe significare che all’epoca una statura superiore non fosse così un dato straordinario. Il cambiamento potrebbe essersi verniciato proprio in seguito alla diffusione della malaria a partire dal V secolo, con variazioni cicliche nel tempo, ipotesi avvalorata dagli accertamenti sanitari sui giovani in età militare, secondo cui “i sardi si collocavano all’ultimo posto per statura, perimetro toracico, peso medio. In particolare gli abitanti della pianura erano piccoli, di costituzione debole, con voluminosi tumori alla milza, afflitti da senilità precoce e segnati dalla malattia nella stessa identità fisica e antropologica” (E. Tognotti).

Ma perché proprio in Sardegna la malaria fu così incisiva? Diversi fattori contribuirono a renderla tale, primo fra tutti il clima. La Sardegna offriva un ottimo habitat per la proliferazione delle zanzare Anopheles, che richiedono ambienti umidi e temperature superiori ai venti gradi: zone paludose, acquitrini, rocce impermeabili, fossati,  fiumi di piccole dimensioni e a basso regime, che favorivano la formazione di zone stagnanti, erano luoghi ideali di infestazione.

A questi elementi si sommano i fattori culturali. Allora si era convinti che la malattia fosse provocata dalla “mal aria” e non da un insetto. I sardi non disponevano di mezzi sufficienti di intervento, sia per il loro perenne isolamento, ma anche per le condizioni nelle quali vivevano, costituite da abitazioni comuni di uomini e animali in terribili condizioni igieniche e regime alimentare simile a quello che oggi potremmo trovare nei paesi in via di sviluppo.

Quasi tutti i centri abitati mancavano di un sistema di gestione dei rifiuti e di impianti fognari, le case erano sprovviste di servizi igienici e acqua corrente. I locali scolastici ricevevano luce solo dalle porte e non disponevano di latrine. Vi erano dei regolamenti in materia di abitazioni, scuole e igiene pubblica ma il lontano potere politico e lo scarso interesse delle amministrazioni locali, associate a una scarsa economia di sussistenza e assenza di conoscenze specifiche in materia, avevano contribuito allo sviluppo della malattia. Pur avendo risorse disponibili capitava persino che mancassero i medici, poiché nelle università sarde erano pochi a laurearsi e peraltro dovevano recarsi in luoghi non facilmente raggiungibili; professionisti che spesso non venivano presi in considerazione  da parte dei malati, i quali per povertà, incoscienza e ignoranza, rifiutavano i trattamenti. Numerosi sprangavano le porte delle loro case o non si facevano trovare all’arrivo dei medici, preferivano affidarsi alle cure tradizionali empiriche poiché temevano le complicazioni conseguenti ai primi trattamenti con il chinino. Tutto ciò che si poteva sapere erano gli effetti della malattia, come ci testimonia la “saggezza” popolare: “Sa febbre terzana non est toccu de campana” (la febbre terzana non è un tocco di campana); “Sa febbre attunzale o est longa o est mortale” (la febbre autunnale o è lunga o è mortale).

La malaria colpiva dunque  il ceto più povero della popolazione: contadini, braccianti e pastori transumanti, lavoratori agricoli, minatori, cantonieri, ferrovieri; colpiva le donne e i bambini. Le conseguenze, anche quando non erano mortali, portavano a catastrofi; sopravvivere comportava un maggior rischio di tumori alla milza, problemi al fegato, crisi viscerali, complicazioni respiratorie e affaticamento fisico. Non da meno erano i fattori psicologici: si divulgò nel sardo una mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro, carente spirito di iniziativa, difficoltà di concentrazione, scarse attitudini e resistenza al lavoro. Da qui deriva il divulgarsi di stereotipi del sardo pigro e inetto, incapace di lavorare in maniera produttiva; nell’immaginario collettivo gli abitanti della pianura erano dominati, non rispettati, inclini a cedere allo straniero, contrapposti agli abitanti dell’entroterra più indipendenti, resistenti, rispettati e propensi alla violenza.

La Sardegna fu da sempre conosciuta come isola malarica: scrittori, viaggiatori, funzionari governativi e visitatori la descrivevano come un luogo insalubre e pericoloso, ma solamente a fine ottocento si resero disponibili dati statistici che permisero di avere un’idea più precisa sulla diffusione nell’isola.

Già a metà degli anni ottanta di fine ottocento la malaria colpiva 361 comuni su 364, cioè l’87%. Ci furono dei progressi solo nei primi 15 anni del 1900 grazie alla ricerca e allo sviluppo dei farmaci che portarono a una diminuzione dei morti in Sardegna da 28,7 ogni 10.000 abitanti a 6,1 nel 1914. Ma l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915 arrestò questa tendenza positiva che proseguì fino oltre la seconda guerra mondiale.

I dati del Ministero dell’Interno indicano negli anni tra il 1936-1938 una morbilità di 38.655 casi con un tasso di 349, 57 su 10.000; ma il tasso più alto di malaria in Sardegna si registra nel 1941, con la provincia di Nuoro (383,12 casi su 10.000 abitanti). Durante la seconda guerra mondiale aumentò sensibilmente in tutta l’Italia, a causa della disgregazione dei servizi sanitari e alla distruzione degli impianti di drenaggio in seguito a operazioni militari, che portò all’ aggravarsi della situazione fino al 1946, anno in cui fu inserito il DDT (para-diclorodifeniltricloroetano).

Gli ultimi casi di febbre terzana maligna si registrano nel 1952, dopo un’intensa campagna  istituita nel 1946 da ERLAAS(Ente Regionale per la lotta Anti-Anofelica in Sardegna) con il contributo della Fondazione Rockfeller, che durò quattro anni, i quali scelsero la Sardegna come oggetto di studio proprio per il pesante fardello di sofferenza portato storicamente nell’isola dalla malattia, durante i quali furono impiegati 32000 uomini e cinque milioni di litri di DDT.

E, tornando all’ipotesi sul collegamento tra malaria e l’altezza dei sardi, non può essere certo un caso se in seguito a queste campagne antimalariche i sardi ripresero a crescere. A confermare questa tesi, ancora un volta, sono i dati dell’OMS  e le visite di leva degli ultimi settanta anni secondo i quali l’altezza media dei sardi è cresciuta di 1,13 centimetri ogni 10 anni, contro una media di 1,6 nel resto della penisola.

La malaria oggi

Il World Malaria Report  2015 rilasciato dall’ OMS nel mese ancora in corso mette in evidenza un bilancio complessivo positivo nella lotta alla malaria. Le vittime per l’anno che va a concludersi sono circa 438 mila, quasi la metà delle stime effettuate 15 anni fa. Dei 106 paesi che nel 2000 riportavano casi di malaria, più della metà sono riusciti a ridurla del 75%. Anche nella regione africana subsahariana, la più colpita, la mortalità si è ridotta del 66% per tutte le fasce d’età e del 71% nei bambini sotto i cinque anni.

Può considerarsi dunque raggiunto il target fissato dai Millenium Development Goals (Mdg) che avevano previsto di arrestare entro il 2015 l’incidenza globale della malattia. Merito, come ricordato dall’OMS, di tre interventi: primo fra tutti l’uso delle reti trattate con insetticidi, a seguire le terapie combinate a base di artemisinina (farmaco premiato quest’anno con il Nobel) e insetticidi; ma anche i test diagnostici che sono stati in grado di discriminare tra febbre malarica e non malarica, permettendo dunque l’accesso ai trattamenti più appropriati in tempi rapidi.

La sfida dell’umanità però non finisce qui. I casi di malaria sono oggi 214 milioni, e vi è il rischio di contrarre la malattia per 3,2 miliardi di persone, se si tiene conto anche della comparsa di resistenze da parte delle diverse specie di parassita, nei confronti sia degli insetticidi sia dell’artemisinina stessa. Per queste ragioni, dopo i Mdg,  l’OMS fissa con il Global Technical Strategy for Malaria 2016-2030 un altro obiettivo: ridurre l’incidenza e la mortalità della malaria di almeno il 90% entro il 2030, eliminare la malattia da 35 paesi e prevenire la ricomparsa nei paesi malaria free (come il nostro).

 

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