LA PRESENTAZIONE AL “LOGUDORO” DI PAVIA DEL ROMANZO “MERI” DI GIAN BATTISTA FRESSURA, OCCASIONE PER RICORDARE ANCHE ALTRE OPERE SULLE RAGAZZE SARDE PARTITE PER FARE LE DOMESTICHE

Nella foto di Giulio Ricciardone, Da sinistra Angela Congiu (di Bono) vicepresidente Logudoro; Gian Battista Fressura; Paolo Pulina.


di Paolo Pulina

Nel pomeriggio di sabato 19 settembre 2015, presso la sede sociale, il Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia ha organizzato la presentazione dell’ultimo romanzo, “Meri”, di Gian Battista Fressura, edito da Edes di Sassari  alla fine del 2013.

L’autore  è nato nel 1952 a Bono (Sassari). Agli inizi degli anni Settanta si è trasferito a Sassari per gli studi universitari.  Qui svolge la professione di funzionario di banca. Ha al suo attivo altri due romanzi in sardo e in italiano (pagine a fronte), “Adda ’e riu” del 2005  e “A duru duru” del 2009, anch’essi usciti per i tipi  di Edes.

Anche questo suo terzo testo narrativo bilingue racconta, come i precedenti, vicende di Bono (Biddasana): a Fressura piace sottolineare il fatto che la trasfigurazione letteraria da lui operata in queste trame romanzesche trasforma in “personaggi”, quindi non più coincidenti con i modelli reali che possono averlo  ispirato,  alcune  “persone” del suo paese natale. Dato che presso il Circolo “Logudoro” è presente una folta rappresentanza di bonesi (arrivati a Pavia, soprattutto agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, quando la città offriva concrete possibilità di lavoro nelle numerose industrie allora fiorenti), così come avvenuto nella presentazione delle due precedenti opere, anche questa volta Fressura ha dovuto spiegare questa sua linea  programmatica di scrittura: i fatti raccontati sono reali ma è inutile cercarvi un riferimento preciso a individualità riconoscibili.

Meri è la sintesi emblematica di esperienze vissute da tante diverse ragazze del suo paese andate in continente al servizio di famiglie ricche che potevano permettersi questo aiuto in casa. 

La scheda editoriale del libro è questa. «Meri è Mariantonia, la figlia di Peppa Brundu, una delle tante ragazze che negli anni ’60 del Novecento partivano, quasi bambine, dai paesi della Sardegna verso le città del Continente – Roma, Milano, Torino, Genova – per fare le domestiche (sas teraccheddas). Tornavano, dopo poco tempo, completamente cambiate, con pantaloni e camicie attillate, pettinature vaporose, trucco e rossetto e, soprattutto, parlavano in modo diverso, non parlavano più il sardo, parlavano il romanesco, il milanese e le altre parlate delle nuove città di residenza. Tornavano portando nei paesi, ancora saldamente legati alle tradizioni culturali e alle condizioni economiche della società contadina e pastorale, le cose nuove delle città, i simboli della modernizzazione, e riempivano sas carrelas di musica, fotoromanzi, colori allegria e sogni. Erano gli anni del boom, l’Italia cresceva, produceva e distribuiva ricchezza e si modernizzava. E anche la Sardegna, a modo suo, partecipava alla modernizzazione del Paese, aggiungendo però nuove contraddizioni a quelle vecchie. Il libro cerca di dare conto di queste contraddizioni, lungo un racconto dai toni diversi, talvolta tragici e altre volte ironici».

Meri  è attirata a Roma, dove era andata a “servire”, dal mondo dorato del cinema, vuole diventare  attrice. Diventa “Meri” per sempre dopo che ha fatto una piccola comparsa in un film (proiettato anche nel cinema del paese, quello voluto dal professor Carlo Carretto, mitico, e poi mistico, “uomo buono” per Bono) pronunciando una sola battuta: «Piacere,  mi chiamo Meri». Naturalmente non può non pagare qualche prezzo in questa sua avventurosa e illusoria aspirazione. Costretta a tornare in paese con una bella bimba, Deborah,  avuta da un attore non italiano già sposato, ha almeno la soddisfazione di vedere che la figlioletta tocca il cuore del ruvido e burbero genitore Baboreddu, nato come la madre Peppa in una famiglia in cui  da sempre l’unica cosa che veniva tramandata era la  miseria. Finite le illusioni, per  Meri a Roma  è una continua caduta,  diventa una stracciona, che si risolleva solo grazie all’incontro  fortuito con  Peppeu, anche lui  emigrato da Bono, venditore ambulante di frutta e verdura. Morto Peppeu, Meri torna al paese natìo e la sua casa «in poco tempo diventa un porto di mare», dove lei rievoca le sue avventure e sventure romane ma dove, dopo un certo tempo, anche  le donne del luogo prendono coraggio e raccontano vicende di una storia al femminile, storia di una progressiva  presa di coscienza  che aveva determinato la partecipazione delle donne anche a iniziative di lotta e di protesta. (Nonostante questi meriti delle donne  – riflette Meri – «la gente, sempre pronta a capire le necessità degli altri e a dare una  mano, di fronte allo sbaglio di una donna non aveva pietà»).

Quando Deborah  torna a casa  non trova più la mamma, morta da qualche giorno, ma alcuni  quaderni, «zeppi  di errori e correzioni»  in cui Meri aveva trascritto  le storie che aveva  ascoltato nelle riunioni con le donne del luogo. Deborah e il  compagno   regista decidono di trarne materia per un film allo scopo di raccontare «storie di donne  che avevano  vissuto la loro vita contro le tradizioni e le regole e ne avevano pagato le conseguenze». Nei  titoli  di coda del film ci  sarà questa frase: «Un ringraziamento  particolare a una di loro che ha raccolto con cura  i racconti di quelle storie.  Grazie Meri».

Nota finale. Nella circostanza mi è sembrato giusto fare riferimento ad altre due opere narrative che in questi ultimi tre anni hanno affrontato la stessa tematica che innerva la narrazione di Fressura. Lo ho fatto citando due ritagli stampa, apparsi sul quotidiano di Sassari “La Nuova Sardegna”, uno nel maggio 2012, l’altro nell’aprile 2015. 

UNO. «OZIERI. Andato in pensione dopo tanti anni trascorsi in qualità di funzionario addetto ai servizi meccanografici in una banca sassarese, il geometra Pinuccio Becca si è potuto finalmente dedicare in pieno alla sua prima passione, la letteratura. Dopo un lungo lavoro di rifinitura, ha così potuto pubblicare la sua prima opera col titolo “Teraca” (edito a Cagliari da La Riflessione di  Davide Zedda).

L’intreccio si svolge nelle zone fra il Goceano ed il Logudoro, con riferimenti in particolare alle città di Bono ed Ozieri dove una giovane fanciulla, appunto partita da Bono, giunge dopo aver abbandonato la propria famiglia che versava in difficili condizioni economiche, per “mettersi a teracca” (servetta) presso una ricca famiglia di prinzipales locali. L’autore con vive pennellate e con una esposizione lineare, avvincente e di facile lettura conquista il lettore pure con continui richiami a realtà dagli ozieresi e dai goceanini ben conosciute. Alle situazioni talvolta drammatiche si alternano momenti di vita comunitaria di vivo interesse, con diversi colpi di scena. Il tutto inoltre può far forte richiamo alle situazioni spesso assai spiacevoli che le donne dei nostri paesi dell’interno, ma non solo, allora come oggi, sono costrette a subire, mirando comunque sempre a un loro totale, degno riscatto sociale e civile». (Gerolamo Squintu, “La Nuova Sardegna”, 23 maggio 2012).

DUE. «PERDASDEFOGU. Pietrina, Clelia, Evelina, Maretta, Erminia, Bonaria, Silvana, Càrrula, Elena, Delia, Eugenia, Odilia, Secondina, Cichedda, Giuanna, sono solo alcuni dei nomi delle tante protagoniste del nuovo libro di Giacomo Mameli, “Le ragazze sono partite” (edizioni  Cuec). Emigrano in particolar modo da Perdasdefogu nell’entroterra sardo, verso il continente, a Roma e Milano, a partire dal secondo dopoguerra (ma alcune anche prima), per fare “le seraccas” (le serve) presso alcune famiglie benestanti. […]

Vanno via a 13, 15, 16 anni per Roma, Milano, la Svizzera, per fare le serve e le operaie stagionali. In Svizzera si parte in gruppi per andare nelle fabbriche di cioccolato, mentre gli uomini vanno come minatori in Belgio o operai a Torino. Perdasdefogu rimane un paese di vecchi e di bambini. Partono per necessità, ma anche per voglia di emanciparsi. Si parte da un contesto privo spesso di tutto, di bagni, di luce, di frigorifero, “anche l’acqua era un lusso”, non si aveva in casa. Ai quei tempi c’erano “fame e sete”. Ragazze, bambine coraggiose che vedono per la prima volta il treno o hanno paura di salire sulla nave perché non sanno nuotare.

Il testo, costruito in modo corale, è un intreccio di storie di donne nell’arco di più generazioni, che partono e raccontano la loro esperienza migratoria. […] Giacomo Mameli è qui  narratore comunitario, autore “epico” della voce collettiva. Nel libro emergono molti temi delle migrazioni: il dilemma tra restare e partire; la relazione complessa tra chi parte e chi resta; l’emigrazione come progetto familiare; il tema dell’insularità e del “continente”, della terra oltremare come Terra Promessa dalla quale arrivano le lettere delle donne che raccontano dei soldi guadagnati e che inducono altre donne a partire, fino a spopolare interi paesi della presenza femminile. Infine la catena migratoria e la cura come tema femminile.

Emerge nel libro anche la violenza di genere che si gioca nelle relazioni serve-padroni. Pietrina prende a ginocchiate e gomitate gli uomini che cercano di approfittare di lei. È una condizione condivisa dalle donne migranti in generale. Alla violenza di genere alcune riescono a reagire, come Pietrina o Erminia, altre no, come le ragazze messe incinte dai padroni e che vengono mandate ad abortire in Tunisia “in viaggio premio”. Sono donne che partono per aiutare la famiglia, ma che spesso sono spinte da una forte iniziativa individuale». (Martina Giuffrè, “La Nuova Sardegna”, 30 aprile 2015).


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5 commenti

  1. penso a mia mamma che con tanta sofferenza e umiltà ha lasciato la Sardegna a 16 anni per avventurarsi in continente per fare la domestica. E in Sardegna comunque, se non nel periodo estivo per trovare i genitori e fratelli, non ci è mai più tornata.

  2. come tanti…le ferie è sempre stata la scusa per tornare a casa

  3. Giambattista é il mio mito..il suo “addaeriu” mi ha fatto tanto sorridere! Mi piace davvero molto il modo in cui scrive..

  4. Io partita quando avevo solo 22 anni convincendo i miei genitori che sarei rientrata dopo il matrimonio di mio fratello ma cosi non è stato, sono passati 41 anni ed eccomi ancora qui ma non mi sono mai pentita di essermi trattenuta anche se mi è mancata la famiglia e la mia terra.. a volte ho dovuto aspettare due anni senza tornarci ed è stata dura !!

  5. La storia si ripete…..sempre

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