NEI ROMANZI DI MARILOTTI LA STORIA (CON LA MAIUSCOLA) E LE STORIE FANNO CAPO IN SARDEGNA: NEI PAESI DI MONTAGNA DAI NOMI INVENTATI, ONURI E NUXENTI; NELLA METROPOLI DI CAGLIARI


di Paolo Pulina

Lo scrittore Gianni Marilotti vive e lavora a Cagliari dove insegna Storia e Filosofia nei Licei. Ha curato diverse pubblicazioni di carattere storico-politico; fondatore e presidente dell’Associazione culturale “Mediterranea”, si occupa attivamente di Storia del Mediterraneo e di cooperazione allo sviluppo. È autore, tra gli altri, del volume “Italia e Nord Africa” (Carocci Editore, 2006) e del saggio “Dall’interdipendenza all’interindipendenza” comparso nel volume curato da Antonio Sassu e Sergio Lodde “Tra il vecchio e il nuovo. I movimenti politici nel Nord Africa” (Aracne Editrice, 2013).

Nel 2003 ha esordito nella narrativa con “La quattordicesima commensale” (Il Maestrale) vincitore del  Premio Letterario “Italo Calvino” e del Premio Nazionale “Marisa Rusconi” come migliore opera prima edita in Italia nel 2004.

“La quattordicesima commensale” è la  protagonista femminile del romanzo:  Franca Bellisai, giovane studentessa sarda trasferitasi a Torino negli anni Settanta. Qui il  suo compagno è Vittorio Rullo dei Nuclei Comunisti Combattenti, che conduce una vita clandestina in quanto teorico e pratico della lotta armata, destinato a morire in uno scontro a fuoco con la polizia. Rimasta sola, Franca va a Parigi, nel 1982, per cercare collegamenti con i compagni della lotta armata ma ormai il clima è di smobilitazione. Con il cospicuo ma “scottante” denaro contante ereditato da Vittorio, che non lo aveva consegnato ai compagni,  si impegna in una serie di iniziative di cooperazione internazionale: in particolare a favore dei campi profughi in Bosnia. Quindi ritorna, dopo vent’anni,  in Sardegna, nel paese natìo di Onuri, dove fonda una cooperativa sociale ma deve far fronte alle accuse di essere la cassiera di una banda di sequestratori, comprendente il cugino con cui era sempre rimasta in contatto. Alla fine è rinchiusa in una cella del carcere cagliaritano di  Buoncammino, dalla quale non uscirà viva.

Spiegazione del titolo. Nell’Ultima Cena, nella quale Gesù siede a tavola con i 12 apostoli, Giuda, il “tredicesimo commensale”, si rivela il traditore e da allora il suo nome è il simbolo  della falsità fatta persona e il numero tredici è temuto ed evitato, secondo una consolidata abitudine suggerita dalla superstizione, a cominciare dagli incontri conviviali. Come azione apotropaica nei confronti dell’influenza nefasta del numero 13 a tavola si ricorre a un “quattordicesimo commensale”  purchessia.

L’espressione ricorre due volte nel romanzo. La prima nel contesto  “Francia, marzo-dicembre 1982”: «Franca era ancora indignata per com’era stata trattata poche ore prima al termine di una serata uguale a tante altre che  aveva trascorso insieme ai compagni esuli a Parigi […].  Non le piacevano quelle serate claustrofobiche […], quei rendez-vous nostalgici a parlare di vecchie gesta sessantottine o settantasettine che finivano tra canti e slogans rivoluzionari. Franca si sentiva un’estranea, un quattordicesimo commensale, una specie di infiltrata in un mondo che scopriva, giorno dopo giorno, non essere il suo. Pronta a cogliere in qualcuno di loro quel segnale da lei tanto atteso ma che puntualmente non arrivava».

La seconda volta l’espressione  è usata nel contesto “Sardegna, 1994”: «È proprio vero che nessuno è profeta in patria. Non aveva mai immaginato un atteggiamento diverso nei suoi confronti. Eppure c’era qualcosa che le sfuggiva, che non riusciva a comprendere fino in fondo. Non poteva essere solo la storia del cugino a creare quel clima così affettatamente ostile. Che fossero davvero convinti della sua collusione con una banda di sequestratori? Che avessero notato in lei un fare snobbistico estraneo allo spirito del paese? Franca rifletté sul fatto che per la prima volta da molti anni, dacché aveva assunto quel ruolo da quattordicesimo  commensale, si trovava nella difficile situazione di non essere capita, di essere anzi sgradita proprio per quell’aria indagatrice, per il suo atteggiamento distaccato e incostante. Forse era per tale motivo che non solo non l’avevano aiutata ad inserirsi nelle logiche del paese, ma l’avevano a poco a poco isolata».  

Marilotti è tornato al romanzo nel 2013 con “L’errore” (Il Maestrale), riscuotendo ampio consenso di pubblico e critica.

Diamo di seguito la scheda editoriale pubblicata dalla casa editrice: «Cagliari: il cadavere dell’adolescente Liliana Zulla viene rinvenuto nel cimitero monumentale di Bonaria: dai primi riscontri appare evidente la violenza sessuale. Gli indizi portano l’ispettore Manno e il sostituto procuratore Vischio a indagare sul giovane schizofrenico Filippo Mò, amico della vittima. Ma i due investigatori devono subito affrontare la reticenza dello psichiatra Paolo Baneduro, estremamente protettivo nei confronti del ragazzo. In parallelo si scandaglia l’ambiente scolastico di Liliana, dove troviamo la conturbante professoressa Mavi Virdis. Su questi e altri fronti d’indagine si presenta un intrico di depistaggi, lettere anonime e una sistematica evasività delle parti: un quadro dai contorni mobili in cui s’innesta l’omicidio di un’altra donna. L’emergere di nuovi elementi scompagina il quadro probatorio iniziale ma sconvolge anche personalmente Manno e Vischio e per i due uomini crolla il confine tra vita privata e professionale. In un crescendo di intuizioni improvvise, rovesciamenti di prospettiva, coinvolgimento dell’opinione pubblica, l’intera città – una Cagliari in bilico fra atmosfere mediterranee e cupezze cimiteriali – guadagna un ruolo insospettato».

Il terzo romanzo di Marilotti, “Il Conte di Saracino”, è stato edito da Arkadia alla fine del 2014.  Il titolo deriva da una vecchia leggenda secondo la quale un pastorello del paese di Nuxenti, piccolo paese arrampicato sul Monte Libertà, nel cuore della Barbagia, mentre suonava lo zufolo nel territorio di Taccu ’e Linu, sentì il canto melodioso di una sirena: «Direttosi verso il luogo da cui arrivava il canto, arrivò a un uscio molto piccolo. Entrò e si guardò attorno. Tutto l’ambiente era parato di metalli preziosi, collane, fermagli, spille e anelli: in mezzo c’era un telaio d’oro e una donna che tesseva: la cassa del telaio suonava come un organo e accompagnava la cantilena della tessitrice, bella come il sole. Cantava un ritornello: “Castello di Tacchelinu / Conte di Saracino / Castello di Taccoforte / di Saracini Conte”».

Ebbene Peppe Tolu, con avviato emporio a Nuxenti, in cui era venuto ad abitare dopo aver sposato Assunta, rimasto vedovo (con due figli andati a fare gli studi universitari  a Torino e lì fermatisi), improvvisamente scompare non senza aver prima, però, tappezzato le vie de sa  bidda con manifesti che annunciavano la chiusura della bottega (ormai trascurata dai clienti a favore  di un supermercato) e un rancoroso addio ai concittadini di un paese per lui «già  morto».

Rifugiatosi in montagna, Tolu è come se diventasse lui il “Conte di Saracino”: «Pur senza castelli, né terre, né sudditi, ma non per questo meno importante nel suo ruolo di signore della  montagna: questo ora si sentiva di esser divenuto Peppe».

In questo clima fabuloso  (un pastore racconta a Tolu  la leggenda di un tesoro nascosto in quei luoghi,  due secoli prima, da un bandito; Tolu scopre una conca dove ha «la sensazione che il richiamo del canto fatato della sirena di Tacchelinu si facesse più pressante») ci sono due ben reali e influenti (per motivi opposti)  figure femminili: donna Memena, ricchissima, ma «un concentrato di cattiverie» dato che «da più di trent’anni era costretta su una sedia a veder scorrere la vita di Nuxenti: nascite, morti, partenze e nuove unioni»; nemica giurata di  Mangedda, “la strega”,  sa bruxia, sa dimònia,  vittima del formale ostracismo spietato dei compaesani timorosi dei suoi presunti poteri malefici ma anche  inclini, quando occorre, a sperimentare di nascosto a proprio vantaggio  gli influssi occulti  benefici.

Il  passato di Mangedda è un mistero  per i compaesani e anche questo è motivo di inquietudine per loro. Lei lo rivelerà solo a Tolu eremita, con cui si incontra in montagna, e al quale solo farà scoprire il suo vero volto (fisico e morale).

Pur messa a dura prova dal “rispetto umano” nei comportamenti pubblici cui Beppe non è riuscito a sottrarsi nei confronti di lei, l’unione fra i due sarà salvata dal coraggio e dalla determinazione di Mangedda che lo porterà con sé, dove possa ritrovare sé stesso: «La decisione fu presa all’istante. E così  Peppe e Mangedda svanirono, come in sogno, consapevoli che questa volta la loro fuga sarebbe stata un’andata senza ritorno». La favola è finita. Si chiude il libro ma restano i drammi reali che il racconto invita a dibattere: lo spopolamento delle zone interne della Sardegna e la conseguente necessità di ritornare a uno sfruttamento consapevole del territorio della Sardegna: nel libro l’idea “depredante” di un campeggio per i camper a ridosso di un’area archeologica è contrastata da Peppe e dai suoi  lavoranti senegalesi con il progetto di raccolta e trattamento delle erbe e delle piante officinali; l’arrivo nelle campagne sarde dei senegalesi (il loro simbolo nel libro è Abdullah) per lavori di collaborazione nel settore della pastorizia ormai rifiutati dai residenti; le difficoltà della coesistenza nei paesi tra nativi ed extracomunitari.

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