BUONCAMMINO, FINE PENA. TRA RIABILITAZIONE DELLA MEMORIA E RIUTILIZZO URBANO


di Mario Salis

Buoncammino e Cammino Nuovo, il primo sul colle più fatale della città, l’altro appena fuori le mura e dai sentimenti della sua memoria più antica, come scivolato dai suoi bastioni. Avrebbero potuto addirittura scambiarsi i nomi, perché il dolore della detenzione, che si aggiunge a quello arrecato ad altri, può diventare un percorso di riscatto verso una nuova vita, che lo guardi a distanza o gli volti le spalle.

Ma anche gli auspici migliori possono tramutarsi nella beffa di un nome e negli equivoci di un luogo pur sempre suggestivo, laddove il belvedere è stato per secoli un’inespugnabile esigenza strategica e militare, come ancora testimonia quel vasto compendio fino alla sua piazza d’Armi, oggi intreccio virtuoso di studi e nevralgica comunicazione. “Boncamminu” per Cagliari è stato il Carcere, l’inappellabile epiteto per classificare “genti de galera” senza l’incertezza della sua fine pena: mai! Perché il castigo peggiore è quello che incide indelebile la memoria delle vittime insieme al tormento dei giudici, anche quando tardivo ed insperato giunge un verdetto assolutorio spesso aggravato dalle minuscole rettifiche sulle pagine dei giornali.

In soli due giorni trentamila persone hanno varcato il cancello di quello stabile, precluso da sempre agli occhi della città pur essendo bene in vista ed inesplorato come il pianeta della giustizia. Una cifra importante, sorprendente ed attendibile, senza approssimazioni, come conferma Giulia Medas 30 anni, insegnante precaria e responsabile del FAI Giovani Cagliari. “Iniziativa resa possibile dalla sensibilità di alcuni amministratori, dall’opera di trecento studenti e rispettivi insegnanti, con artisti che hanno messo a disposizione tempo personale e conoscenze. Investire tempo e denaro per attività culturali si può, anche con sacrifici, non è certo una spesa inutile”.

La città o chi per lei: un piano carceri discutibile ma non discusso, sfratta il dolore delle sue prigioni dimettendo la sofferenza degli ospedali, come se i mali incurabili di una società si possono guarire semplicemente isolandoli. Si indebolisce così una precaria convivenza che la buona politica può agevolare e rendere feconda, come ha osservato il consigliere comunale Matteo Leccis Cocco-Ortu, nello spirito della stessa Costituzione che concepisce la pena funzionale alla rieducazione del condannato.

Pioggia e vento si sono dati convegno per una perfetta scenografia, come nella baia di San Francisco all’isola di Alcatraz, senza scoraggiare una incolonnata visita di parenti stretti, almeno della memoria di una città. C’era la guardia penitenziaria in pensione che ha lavorato nello stabilimento penale, poi nelle mandamentali o giudiziarie, nel penitenziario o nella colonia penale, transitando per le case di correzione, perché neppure i reati hanno un’età, ma dove ha visto di tutto, ancora rinchiuso nel più rigido riserbo. Non manca qualche ospite nostalgico che ritrova al loro posto tutte le stelle di quell’albergo. Si rivela senza indugi, scoprendosi l’avambraccio approssimativamente affrescato, nulla a che vedere con quelli artistici di oggi, che allora significavano il timbro indelebile di una scelta di vita dannata, in parte subita e forse voluta. C’è anche il bambino di mezzo secolo fa, che pensava di vedere i suoi reconditi sotterranei, teatro misterioso di un suicidio riparatore a discolpa di aver progettato un certo tipo di inferno. Racconti a tinte forti dei grandi, come di un traballante cellulare a quattro ruote, da cui volavano banconote di una refurtiva diventata ingombrante.

Il vento non ha condonato una goccia d’acqua scesa senza tregua, come senza sconti di pena ha sollevato per anni sui bambini che giocavano a perdifiato in su rondò, quella fastidiosa polvere bianca di calcare, allontanando sdegnosamente il profumo del pane del vicino forno militare. Unica concessione anche con l’avvento dei telefonini, il collaudato sistema di comunicazione di Santu Lorenzu: dalle voce distesa di mogli, figli ed amanti a quelle di lupo dove le tacche del segnale non sono mai mancate. Nella zona industriale di Uta, tra pale eoliche, frangivento di eucalipti e spesse mura da super carcere sarà difficile trovare la linea La città aumenta così il patrimonio non trascurabile di cubatura vuota, che si aggiunge a quelle già provenienti dal demanio militare ed ancora in attesa di una destinazione, nonostante le commissioni, i sopralluoghi ed altre perdite di tempo. Sì il tempo, perché la politica condanna se stessa con la presunzione e l’arroganza di chi lo può fermare senza una valida ragione. Questo pomeriggio un interessante convegno al Ghetto: “carcere spazio urbano – il confine tra città e periferia penitenziaria” per iniziativa di Buoncammino Lab.

A dicembre Roberto Copparoni di Amici di Sardegna brucia tutti alla partenza, con una proposta per una casa del volontariato e della cultura, un luogo di incontro per rimuovere la sofferenza senza dimenticarla. La sensazione è che ci sarà da aspettare. Una storia che finisce si chiude con i titoli di coda, come nel filmato di “all’uscita di Galera” un video di Paolo Carboni con il volto e la voce inconfondibile e potente di Joe Perrino. “Oh garrogna” diventa un grido di vendetta e di dolore nello sfondo che corre di una Cagliari in bianco e nero.

Il turno delle visite si è concluso dopo che il carcere ha spalancato le porte che ora restano socchiuse. A lato ora un drappo spartano nasconde quella nota targa di marmo, in attesa che se ne scopra un’altra. Le sue storie non hanno voluto saperne di uscire, rimarranno per sempre sopra la città, perché da qui si vive o si evade.

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