STORIA DI UNA STREGA: JULIA CARTA, LA “HICHEZERA” DI SILIGO


di Federica Ginesu *

La terra della Sardegna è madre misteriosa. Da quando la prima volta la luna si specchiò nel mare, riti antichi e leggi ancestrali la regolano. Un potente sapere soggioga la natura: è nelle statuine delle dee madri, negli amuleti, nella pelle e nel sangue delle donne. Una santa conoscenza che gli uomini avevano in passato trasformato in maleficio. Bastava pronunciare una parola per sancire la condanna: coga, bruxia, strega, colei che creava rimedi e annunciava la morte. Lontane dalle creature malvagie della fantasia popolare, le streghe erano donne libere che vivevano estranee nei loro villaggi, temute e relegate ai margini, perché erano depositarie di un potere antico: ascoltavano l’acqua, il suono delle pietre, il fruscio del vento tra le foglie degli alberi. Erano le figlie delle janas, le antiche maestre che erano state cancellate dalle invasioni, dalla guerra, ma che vivevano ancora nell’eco di una leggenda, nel buio di una grotta, nella natura che dettava ritmo al tempo.  Julia Carta di Siligo, la hichezera (strega), era una di quelle donne. Originaria di Mores proveniva da un’umile famiglia, il padre era un alvanil, muratore, mentre la mamma si dedicava ai suoi sette bambini e alla casa, per tenere vivo il focolare. Julia Casu Masia Porcu, nota come Julia Carta, è una bambina che impara a filare, tessere e cucire come tutte le altre, ma ha capacità singolari: scorre in lei l’energia shardana che chiede solo di essere attivata. La nonna è una bruxia e sa che tra le tre nipoti è lei la prescelta. Le insegna a riconoscere le piante e i loro effetti, la istruisce sul potere delle parole obbligandola a recitare a memoria incomprensibili frasi in una lingua sconosciuta. Le suggerisce di non confessare ai sacerdoti le sue pratiche occulte, ma di recitare i peccati in una buca per poi ricoprirla di terra, oppure sotto il lenzuolo del letto, perché i preti sono infidi, rivelano i tuoi segreti. È il suo apprendistato da strega che per ora non può essere confidato a nessuno.

A venticinque anni si sposa con il contadino Costantino Nivola, e si trasferisce a Siligo dove incontra un’altra donna, Tomasina Sanna, potente guaritrice, che le svela i metodi per curare il “dolor de costado”. Salvia, prigolosa (rosmarino) ed erba di Santa Maria, bollite in una pentola di vino, poi tritate e fritte con lo strutto. Un unguento che bisognava spalmare sulla parte malata per guarirla. 

Apprende anche l’arte degli amuleti: le punghe che proteggevano dai nemici, realizzate raccogliendo in un sacchetto le ceneri di un fazzoletto di lino che conteneva delle monete. Dalle zingare girovaghe, che vagabondavano fra i monti e le campagne dell’Isola, impara invece ad osservare il fuoco e la lingua delle fiamme e a misurare col giunco le articolazioni del malato, per sapere se sarebbe guarito oppure no. 
Tutto il paese sa che Julia Carta è una bruxia, ha poteri terapeutici, è una guaritrice e un’indovina e in tanti si affidano a lei.

Siligo è un paese povero in cui pastori e contadini si spartiscono le terre comuni, dove i ricchi tengono in scacco il popolo che non ha mezzi per difendersi, dove la religione è uno strumento per tenere sotto controllo la plebe, per assoggettarla. È una comunità dominata dall’arretratezza, regolata da consuetudini non scritte, segnata da conflitti e inimicizie. La rina è il litigio, rissa per cui si creano ostilità,disamistades, dove la strega interviene perché ha un potere superiore alle leggi de su connotu, il suo è un canale di comunicazione che intercettava funzionalmente i bisogni e gli interessi del sistema villaggio. 

La bruxia è in grado di scagliare il maleficio, ma anche di riconoscere e scacciare quello lanciato da altri; manipola le forze oscure che non hanno spiegazione; con i nomina, manufatti anti malocchio, è in grado di proteggere dalle ostilità i banditi; con le sue pozioni può eliminare un nemico donandogli la morte, ma anche guarire e portare sollievo

È un mondo, quello in cui si muove Julia Carta, in cui agiscono forze soprannaturali, intriso di superstizione e credenze, in cui il bene e il male si scontrano in una perenne lotta che solo la strega è capace di controllare. Julia diventa così figura scomoda che suscita timore, ma anche odio, gelosia, invidia, non può spadroneggiare, va limitata al più presto. 

Il 18 giugno 1596 Juan Tola, commissario della Santa Inquisizione, si reca a Siligo per arrestare Julia Carta. Piomba nella sua casa, la strappa al suo piccolo di quattro mesi e la porta a Sassari dove verrà rinchiusa nelle carceri del Castello Aragonese, sede sarda dell’Inquisizione. 

Il processo dura dieci anni ed è documentato ampiamente dal libro “Storia di una strega. L’inquisizione in Sardegna” di Tomasino Pinna, studioso che ha trovato i documenti che attestano la veridicità della storia nell’Archivio Histórico Nacional di Madrid.

La denuncia, che dà al via al processo, parte dal parroco di Siligo, Baltassar Serra y Manca, che raccoglie la delazione di un gruppo di donne. La prima che si rivolge al canonico è Barbara de Sogus che racconta le pratiche alternative di confessione che Julia le suggerisce. Ma a fortificare l’accusa contribuisce sicuramente anche la voce popolare, se murmura, perché Julia è la strega, l’hichezera di Siligo. 

Altre donne si fanno avanti raccontando di arti magiche e filtri proibiti: ossa di morto tritate e ridotte in polvere mischiate ad acqua per curare la pleurite, amuleti per sfuggire alla giustizia, affumentos (suffumigi) coi quali la bruxia guariva e prevedeva gli esiti di una malattia pronosticando anche la morte.

Viene denunciata e arrestata per due motivi: affermazioni eretiche e pratiche magiche. Julia percorre i corridori fiocamente illuminati che la condurranno nella sua cella col suo logoro vestito, non possiede nulla, né soldi, né abiti, è solo una donna colpevole di essere se stessa.

Il processo si svolge in segreto come imponeva l’Inquisizione. Julia non può sapere perché da un momento all’altro si è ritrovata a dormire per terra sulla pietra, si sente sola e abbandonata. Viene convocata tre volte in udienza, le tre moniciones rituali. Gli inquisitori le chiedono di liberare la sua coscienza e dire la Verità, ma Julia non ha mai fatto del male a nessuno seriamente, non riesce ancora a capire di cosa la accusino. Quando gli inquisitori la convocano e le leggono i capi di imputazione, Julia si sente mancare: viene chiesta la pena di morte. 

Sa che le sue accusatrici l’hanno denunciata, perché si è rifiutata di praticare ad alcune persone le sue cure a base di erbe. Cerca di giustificarsi in qualche modo, ma non è abbastanza. Nel frattempo altri testimoni l’accusano: la strega ha fatto scendere la luna, ha guardato nel fumo di braci malefiche per predire la morte di un infermo, ha evocato il diavolo davanti a una bambina, ha profanato il cimitero. Tutte infamie. 
Julia ammette di aver suffumicato alcune persone mescolando cera, incenso, palma e acqua benedetta che gettava nelle braci accese, ma nega il patto col diavolo. È disperata, le mura del carcere buie e gelide la stanno portando alla pazzia. Solo nella camara del tormento, prima di essere torturata, rivela di fabbricare amuleti, di aver appreso le pratiche di confessione dalla nonna, le arti magiche dalle zingare, di aver siglato un patto col diavolo. 

Julia è quindi giudicata colpevole: un’eretica, idolatra del demonio, ma non merita il rogo, le viene imposta la Riconciliazione, castigo forse più severo della morte. È condannata a tre anni di prigionia e al sequestro di tutti suoi beni, ma prima l’aspetta la cerimonia dell’autodafé.

Il 26 ottobre 1596 Julia è condotta nella piazza di Santa Caterina a Sassari, che per l’occasione è affollatissima. Indossa un abito giallo con due croci oblique, il sanbenito, in mano una candela, sul capo una mitra decorata con simboli e frasi che dichiarano le sue colpe. È strega, donna, un’impura da assoggettare che la Madre Chiesa riaccoglie in seno per mostrare pubblicamente la sua magnanimità, il suo strumentale infinito perdono. Sale sul palco. Tutti devono sapere le sue colpe che vengono lette a voce alta. Julia pronuncia la sua abiura in sardo. Ogni volta che uscirà di casa dovrà indossare il sanbenito, un’umiliazione e un’onta infinita che perpetuava sulla famiglia e sulla discendenza il simbolo della vergogna.

Julia verrà poi processata un’altra volta sempre per stregoneria, ma le carte sono incomplete e la strega di Siligo si dissolve, fa perdere le sue tracce, il mistero l’avvolge in una lieve coltre di memoria eterna.

La storia di una bruxia è storia delle donne sarde che l’attrice Francesca Saba declama e rende viva durante la pièce teatrale, culmine della visita guidata nel quartiere di Villanova, a Cagliari, organizzata dalla società di eventi culturali Eidesia. Dalle carte polverose di un archivio alla strada, mentre il suono delle launeddas ferisce l’aria. Julia appoggiata a un muro pieno di graffiti cerca di resistere, di non soccombere, per questo era una strega. Erano eretiche le nostre antenate come lo siamo noi, streghe che credevano e credono in un solo dogma, come dice Joyce Lussu nel “Il libro delle streghe”:

la possibilità per le donne di intervenire nella realtà modificandola, di rovesciare l’atteggiamento verso il mondo che ci è stato imposto, di acquistare una nostra identità individuale e collettiva pur tra mille problemi. Vivere da proprietarie del mondo, non da inquiline”. Vivere da streghe.

* La Donna Sarda

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Un commento

  1. che bella la frase: “il mistero l’avvolge in una lieve coltre di memoria eterna”

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