MONTE D’ACCODDI, LA SCALA DEL CIELO: UN MIRACOLO CHE PORTA IN ALTO PARLANDO AL MONDO DI SARDEGNA


di Emanuela Katia Pilloni

 “Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo dove io vorrò ricordare il mio nome, verrò a te e ti benedirò.” Esodo XX, 24

In Sardegna ogni rilievo collinare assurge facilmente alla dignità di monte e non si fa differenza tra i risultati dell’antropizzazione e quelli dell’orogenesi. A Barumini l’imponente reggia nuragica appariva come un dolce rilievo collinare prima che gli scavi di Lilliu la rivelassero nella sua maestosa artificiosità. Così fu anche per Monte d’Accoddi: la psedudo-collinetta, situata a 11 km da Sassari e a circa 5,5 km dallo stagno e dalla spiaggia di Platamona, nascose per millenni, sotto le mentite spoglie di rilievo naturale, un tesoro inestimabile per antichità e unicità.

Il nome Alle varianti più o meno recenti del nome – Monti d’Aggodi, Monti d’Agoddi Monte d’Acode o Monte La Corra, corrispondono differenti interpretazioni etimologiche avvicendatesi nel tempo: un’erba, il kòdoro; il luogo di raccolta, accoddi; o il corno, corra. Si deve però al Prof. Virgilio Tetti la più probabile ricostruzione dell’origine del nome, che nelle più antiche testimonianze catastali è indicato come Monte de Code, ossia Collina delle Pietre (da coda = pietra) e nel condaghe medievale di San Michele di Salvennor la resa spagnola del toponimo suona per l’appunto Monton de la Piedra .

La struttura e gli scavi Il miraggio del nuraghe segretato alla vista da pietre e terra portò i primi indagatori a ricercare – tanto affannosamente quanto inutilmente – la presenza di un vano interno al Monton de la Piedra. Ma quello che emerse dagli scavi non deluse le aspettative: un terrapieno troncopiramidale, circoscritto da una intercapedine in muratura a sostegno di una terrazza con funzione di altare rituale, e una lunga rampa d’accesso a sud. Dalle campagne successive affiorò un altare più antico in scala ridotta sul quale insisteva quello recenziore: era il sacello originario, cui fu dato il nome di tempio rosso per via del color ocra utilizzato per l’intonaco e il pavimento. Il santuario era inoltre dotato di tavole per le offerte situate in prossimità della rampa d’accesso, una delle quali – di forma trapezoidale, sorretta da tre appoggi con sette fori e inghiottitoio naturale – sembra richiamare azioni rituali in onore della Dea Madre o di altre divinità ctonie. A completare il corredo architettonico una pietra calcarea squadrata – un menhir di 4,44 metri d’altezza – ed un masso sferoidale lavorato, variamente interpretato come altare per il sacrificio di agnelli – a guisa di omphalos delfico – o come simbolo solare.

Cronologia L’esame del materiale archeologico, suffragato dalle analisi del carbonio radioattivo, ha permesso di datare la struttura più antica di Monte d’Accoddi, il cosiddetto tempio rosso, alla cultura di Ozieri, nel Neolitico Recente, tra il 3.200 e il 2.700 circa a. C: milleseicento anni prima dei più antichi nuraghi! La frequentazione del sito continuò ancora a lungo – come testimoniano i rinvenimenti di materiali attribuibili alle culture Monte Claro, Vaso Campaniforme e Bonnanaro – fino all’età protostorica e storica. Un anello di bronzo recante il simbolo di Cristo nell’Apocalisse (l’alfa e l’omega) sembrerebbe indicare il probabile perdurare della funzione sacrale della località anche in epoca medievale, in un quadro di sincretismo religioso più volte rintracciato nei contesti isolani.

Ziggurat e Mastaba Se i dati architettonici formali riportano ad alcuni celebri modelli funerari egiziani – quello della mastaba tronco-conica ancor più della piramide – la funzione religiosa e la presenza della rampa cerimoniale d’accesso sembra avvicinare Monte d’Accoddi maggiormente ai templi funerari di Montuohtep e Hascepsut a Deir-el-Bahari, in cui l’ascensione metaforica alla divinità si esplica proprio nella scala senza gradini.

I raffronti più stringenti, tuttavia, provengono dalla Mesopotamia. È infatti ai templi-torre del dio solare Belo (Baal o Marduk), le ziqqurat, che oggi si guarda con maggior interesse. Ma se la biblica Torre di Babele, ovvero la ziqqurat di Babilonia, come pure quelle di Assur e Korsabad, sono di tipo complesso e databili al terzo millennio, più vicina appare, per semplicità d’impianto e cronologia, la ziqqurat di Anu, a Uruk, dove secondo lo storico greco Erodoto, fra riti propiziatori della fertilità celebrati in occasione dell’inizio dell’anno agrario c’era anche la ierogamia divina del cielo con la terra, in cui la ziqqurat fungeva da talamo nuziale.

L’altare di Javeh Non appare peregrino neppure il richiamo alle Sacre Scritture. Nell’Esodo, infatti, la modalità di costruzione dell’edificio sacro che Dio stesso indica a Mosè presenta forti analogie con il tempio di Monte d’Accoddi, tanto per l’utilizzazione di pietre grezze e terra (“..non lo costruirai con pietra tagliata, perché alzando la tua lama su di essa, tu la renderesti profana”) quanto per la presenza di una rampa senza gradini (Non salirai sul mio altare per mezzo di gradini, perché là non si scopra la tua nudità”).

Il guardare al vicino oriente per trovare modelli non deve trarre in inganno. Almeno per il primo scopritore del tempio, Ercole Contu, che così sintetizza l’annosa questione: “..con uguali propositi, mezzi e necessità, in tempi e luoghi diversi, gli uomini possono aver creato cose somiglianti e allo stesso tempo straordinarie e meravigliose senza che esse avessero nessun vero rapporto fra loro. Perciò non è errato parlare di “miracolo” per il monumento di Monte d’Accoddi!”

Un miracolo che porta al cielo parlando al mondo di Sardegna.

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