VALENTINA SPANO E IL SOGNO DI FARE IL FISICO E CURARE IL CANCRO: STORIA DI (STRA)ORDINARIA PASSIONE IN GIAPPONE

Valentina Spano


di Martina Marras *

Valentina Spano ha 31 anni. Laureata in fisica, si appresta a terminare la scuola di specializzazione che la renderà esperta in fisica medica. Il suo sogno, nato quando era ancora una bambina ammaliata da MacGyver (laureato in fisica, per l’appunto), è stato quasi coronato. Per la tesi di specializzazione ha fatto ricerca in Giappone, per quattro mesi, in un centro all’avanguardia in fatto diadroterapia, una particolare tecnica di radioterapia che utilizza gli adroni contro il cancro. La lotta alla malattia più temibile si fa sempre più sofisticata e tecnologica, tanto che il male incurabile oggi fa un po’ meno paura. Si allunga l’aspettativa di vita e i numeri sono confortanti, ma tanta strada è ancora da fare. Valentina si è portata dietro parte delknow how nipponico che spera di poter applicare quanto prima, possibilmente in Sardegna, terra che non vorrebbe abbandonare. 

I suoi occhi brillano di entusiasmo: la certezza è che lei è assolutamente rapita dal suo lavoro, totalmente innamorata. «L’adoterapia utilizza una tecnologia davvero fantastica», assicura Valentina. Nella radioterapia classica si irraggia il tumore con fasci di particelle accelerati da un acceleratore radiale piccolo, confinato nella macchina utilizzata per l’irraggiamento. Le energie in gioco sono ristrette, le sedute sono tante e il paziente è sottoposto ad un alto grado di stress. L’adroterapia mette in gioco maggiori energie riducendo considerevolmente il numero di trattamenti e i risultati sono molto soddisfacenti. Richiede tuttavia molti investimenti e molto spazio per i macchinari che hanno enormi dimensioni. Al momento sono pochissimi i centri al mondo che utilizzano questa tecnologia, circa una dozzina. L’Italia, da questo punto di vista, rientra fra le eccellenze, disponendo di un centro a Pavia, seppur in scala ridotta rispetto a quelli altamente specializzati presenti sul territorio giapponese.

Nello specifico, Valentina, si occupa di radioprotezione, quindi della protezione dalle radiazioni per operatori, pazienti e popolazione in generale. «In Giappone mi sono occupata della radioprotezione dei lavoratori», spiega. «Le energie in gioco sono molto alte e alcune parti del macchinario, al passaggio del fascio, diventano radioattive. Purtroppo sono proprio quelle che il lavoratore deve maneggiare, dal momento che vengono cambiate paziente per paziente. Si tratta del calco del tumore, chiaramente specifico per ogni caso, e del collimatore, cioè lo strumento che serve a collimare il fascio, a indirizzarlo a seconda della forma del tumore. Sul grado di rischio e sulla sicurezza degli operatori c’erano solo dati teorici, mentre il nostro compito è stato quello di occuparci della parte sperimentale. Non c’è modo di schermarsi da queste radiazioni, l’unica precauzione è agire molto velocemente. Tuttavia, dal nostro studio, sono emersi dati positivi e nessun pericolo se si lavora in sicurezza».

Idee chiare, futuro incerto. Valentina non ha dubbi su quello che vorrebbe fare da grande, anche se tanti sono i punti interrogativi, specie se si spera di restare nell’Isola. Tra le varie applicazioni del fisico medico c’è anche quella di occuparsi dei piani di trattamento, «anche se tutti pensano che lo faccia il medico. Il medico indica dove sta il tumore, ma il piano di trattamento, cioè come farci arrivare i fasci, quanta dose e come, è compito del fisico». Un lavoro delicato e di grande responsabilità: eliminare il nemico è l’obiettivo, ma bisogna sempre preservare tutto il resto. «Altrimenti, anche ciò che è sano, prima o poi si ammalerà. La parte difficile è quella: inclinare i fasci radioattivi in modo che non tocchino nient’altro».

Valentina parla di cose invisibili, difficili da spiegare. Ma usa parole semplici, cariche di aspettative e di voglia di fare. Sullo stato della ricerca nel nostro Paese – e i pochissimi fondi ad essa destinati – non si sbilancia troppo, ma ammette che le carenze sono tante. 

«La tecnologia utilizzata in Giappone, nello specifico a Chiba, dove sono stata io, era veramente all’avanguardia. Di adroterapia ce ne sono tanti tipi, la più efficace sembra, al momento, quella fatta con gli ioni carbonio. Ma i centri che fanno questo tipo di trattamenti sono ancora meno, e credo che in Italia bisognerà aspettare davvero tanto, prima di poterli sperimentare».

Il grande amore per il Giappone. Un primo impatto difficile, la lontananza da casa e il fuso orario tiranno, ma poi è stato subito amore. I giapponesi, dice Valentina, sono persone meravigliose. «Ammiro molto la loro caparbietà, non si arrendono mai e non li butta giù niente. Gli possono capitare le peggiori disgrazie, come in effetti è successo nella storia, che loro reagiscono. Non stanno a piangersi addosso, ricostruiscono tutto quello che è stato distrutto e lo fanno più bello di prima». 

Per realizzare un altro grande sogno, Valentina è andata a Hiroshima il giorno dell’anniversario della caduta della bomba atomica. «La mia maestra delle elementari ci aveva fatto leggere un libro, Il gran sole di Hiroshima, e io a sette anni decisi che dovevo imparare a fare gli origami, giurando a me stessa che un giorno avrei portato le mie gru al monumento di Sadako. Quest’anno, visto che mi trovavo lì, ci sono andata. Ho fatto cento gru e ho assistito alla cerimonia, nella quale hanno raccontato che la ricostruzione cominciò subito. È stato lasciato solo uno spazio al centro, per non dimenticare e dimostrare come da lì tutto era ricominciato. I giapponesi sono molto caparbi e pieni di fiducia nell’umanità».

Si è sentita a casa, Valentina, anche grazie all’affetto e alla disponibilità dei colleghi, ma il suo desiderio è di non allontanarsi troppo dalla sua città natale. Quando le chiedo se tornerebbe in Giappone, alza le spalle. «Sembrerà un’enorme banalità, ma ti dico che se fosse più vicino tornerei domani. Così non è: se opti per una scelta del genere, metti in conto di tagliare i ponti con tutto. Il Giappone è lontano, ci vogliono un sacco di soldi per arrivarci, e almeno 20 ore di viaggio. Quindi, vuol dire che, se va bene, vedi la tua famiglia per due settimane all’anno». Negli ospedali sardi, la figura del fisico medico è presente, ma non nella misura in cui sarebbe necessaria. «Il lavoro ci sarebbe anche qua, se solo si assumesse tutto il personale necessario», dice.

Perché scegliere questa strada? «Mi ha sempre affascinato l’idea che qualsiasi fenomeno che esiste nel mondo sia spiegabile con la fisica. Era un sogno che avevo da sempre, ed è stata dura inseguirlo. Se non lo avessi amato così tanto credo che avrei mollato dall’inizio, ma se desideri davvero qualcosa non devi mai farti scoraggiare dalle difficoltà. Ora, con le mie conoscenze potrei aiutare le persone che stanno male, e questa è davvero una grande soddisfazione». Ma non sempre è facile: «Umanamente è complicato, specie quando vedi certe cartelle cliniche, controlli l’età e ti deprimi moltissimo. Ma quando va bene, quando leggi le cartoline di chi è guarito e dice grazie… credo che quei grazie ti svoltino non solo la giornata, ma la vita».

* La Donna Sarda

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