IL MUSEO DELEDDIANO: VISITA ALLA CASA NATALE DI GRAZIA, DOVE IL VENTO DEL DESTINO HA SOFFIATO GENEROSO


di Elena Maisola

Il museo Deleddiano nasce nella casa natale di Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, nel rione di San Pietro. Sono rimasta piacevolmente colpita di come le recenti ristrutturazioni abbiano rinnovato il quartiere. I vicoli stretti si snodano in una nuova vita di ciottoli e granito tra piccole botteghe artigiane e case dai colori pastello.  Attendo con speranza che venga ristrutturato anche l’ex Mulino Galisai, un’imponente struttura proprio accanto alla casa della scrittrice. Al Museo si accede attraverso un piccolo edificio adiacente alla casa e adibito a biglietteria. La visita procede nelle nove sale dell’abitazione  poste su tre piani e nel cortile interno. La casa è stata dichiarata monumento nazionale, per cui è impossibile eliminare le barriere architettoniche o in qualche modo rendere più agevole la visita anche ai diversamente abili. E’ presente però una postazione multimediale che consente una visita virtuale di tutte le stanze attraverso le telecamere collocate nei vari ambienti del museo. Le sale che più colpiscono sono certamente la cucina, la dispensa e la camera da letto. Tavoli di castagno, il focolare, la credenza, i suppellettili di sughero e rame, la tinozza dell’acqua, l’orbace. Non solo la vista gode di queste stanze, ma anche l’olfatto. Gli alimenti freschi vengono sostituiti nelle varie stagioni dell’anno, i canestri custodiscono il pane, il pecorino è sul focolare a stagionare, la fuliggine è caduta dal camino. E poi il grano nella dispensa, i legumi, le patate, i telai di lino per la preparazione del pane carasau, le canne con i grappoli d’uva e i fichi e le pere. Ovunque la lavanda, l’alloro e l’elicriso legati in mazzi da fili di rafia per profumare l’ambiente e tenere lontani gli insetti. Mi sembrava di risentire l’odore della casa dei miei nonni paterni. Sapeva di umidità nelle stanzette più chiuse e aveva pochissime stanze per ogni piano ma cresceva in altezza. Le porte erano le stesse e anche l’intonaco bianco. La camera da letto sembra essere stata lasciata intatta ai giorni precedenti alle nozze. La foto del futuro marito, Palmiro Madesani, penna e calamaio, quaderni e partecipazioni di nozze, libri sulla libreria pensile e bauli da viaggio sul pavimento pronti per la partenza. L’affaccio è sul cortile e sull’amato monte Ortobene da un lato, dall’altro proprio su quelle viuzze tanto descritte nei suoi manoscritti. E sembra quasi di vedere le caviglie e i piedi delle donne che tornano dalle campagne con i cesti di asfodelo sulla testa. Un ampio spazio è stato dedicato alla descrizione della vita della scrittrice non solo all’interno delle mura domestiche, ma anche all’esterno, nell’ambiente di quella che allora era una città di poco più di settemila abitanti ma prolifera di arte e cultura. Nuoro era l’Atene dei Sardi. Francesco Ciusa, Giacinto e Sebastiano Satta, Pasquale Dessanay, Priamo Gallisay, Antonio Ballero e Grazia Deledda, appunto. Musica, scultura, poesia, romanzi, pittura. Doveva essere feconda di ispirazione quell’aria. Tre sono le sale dedicate al periodo trascorso a Roma, dall’anno delle sue nozze nel 1900 fino alla sua morte avvenuta nel 1936. Ben 36 anni trascorsi lontana dalla sua terra senza però mai dimenticare. E’ Nuoro con le sue campagne e i paesi limitrofi che l’hanno portata a vincere il premio più ambito, seconda donna al mondo, e anche nel suo discorso di ringraziamento, il più breve della storia del Nobel, lei non tralascerà di citare il mondo agro-pastorale da cui proveniva. Lei che è riuscita, forse l’unica, a svincolarlo dai luoghi comuni. Lei che è riuscita a rappresentarlo povero ma nobile quale è, ricco di superstizioni e magie. Quanto profondi sono i suoi personaggi nei loro sentimenti, quanto sono complessi e tormentati. Nessuno come lei è riuscito ad attribuire a queste figure così povere e semplici esteriormente, una tale forza di sentimenti. Troppo spesso questa scrittrice è stata dimenticata. Se fosse nata altrove invece…Ma se fosse nata in un altro luogo, avrebbe scritto ciò che ha scritto? Certamente no. E allora ognuno ha il suo destino. “Siamo proprio come canne al vento. Siamo canne, e la sorte è il vento”. Il vento della tua sorte ha soffiato ed è stato un vento generoso. Soffierà anche per noi e forse allora riusciremo ad esserti riconoscenti. Ringrazio mio padre che mi ha accompagnato nella visita.

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