IN GIRO PER L’EUROPA PER STUDI CON IL PROGETTO ERASMUS, ALLA SCOPERTA DELLA MIA TERRA, DELLE MIE RADICI


di Manuela Cuccuru

Joni Mitchell nello stereo, libri sparsi sulla coperta. Una tisana dal forte odore di menta sul comodino, ed io sul letto della mia camera, del mio vero primo appartamento. Guardo e ascolto lo scorrere delle ore di una qualsiasi serata. Mi sembra oggi, che queste calde e afose ore siano la proiezione, in piccolo, della fine del mio “Erasmus”. Erasmus, questa parola-nome-personaggio mi ha sempre incuriosito, poi coinvolta in un’avventura, e ora mi ha “contrassegnata”, e mi etichetterà a lungo, per sempre. Più volte, prima di addormentarmi, spegnendo la lampada sul comodino, mi sono chiesta come avessi fatto ad arrivare a questo punto, a costruire tutto, a farlo così. E son rimasta a riflettere, per lunghe e interminabili ore, alle decine di domande inoltrate, di fogli firmati, a tutti i timbri che ho visto mettere, alle carte d’imbarco che ho visto staccare, ai paesaggi di montagne, piccole come modellini, che ho osservato, col naso schiacciato contro finestrini graffiati di aerei rumorosi e semivuoti. Io che non avevo mai viaggiato se non ad agosto, durante la famosa alta-stagione. Le stelle fluorescenti sul soffitto mi riportano alla mia presente realtà di Lione, loro, che sono uno dei simboli di noi Erasmus: le stelle adesive che si illuminano al buio e la passione per le candele, di tutte le forme e di tutti i profumi, che ci piace tenere accese mentre chiacchieriamo con gli amici fino a tardi, piccolo nuovo sconosciuto focolare di amicizie nate dal nulla, alimentate di presente e ignare di futuro.

Guardo di nuovo le pareti della mia camera, foto di Cagliari, dell’ultima estate “prima di partire”, sorrisi sinceri, abbracci di amici che ritroverò, ricordi di viaggi che ho “rubato” a periodi di vacanza universitaria, una cartina di Oxford, foto di Marsiglia, musicals di Londra. Sì, perché lo studente Erasmus tipo, quello come me insomma, quello delle stelline adesive luccicanti, un po’ prevedibilmente organizzato nella sua voglia di conoscere, sente anche la necessità di una vacanza dall’Erasmus. Sarà perché si vive intensamente, perché bisogna decidere tutto, dove sia più conveniente fare la spesa, ricordarsi di comprare anche i cerotti (che da sempre bastava chiedere a mamma), sarà perché non si vuole sprecare neanche un attimo, ma, per esempio, nel mio caso, la città l’ho vissuta, spremuta, ascoltata e sopportata, da subito. Lione, col suo clima così continentale, col suo freddo pungente d’inverno, e il suo caldo torrido d’estate. E così io, che ero innamorata del sole, di un altro tipo di cielo, dell’orizzonte col mare, mi sono abituata e affezionata allo scorrere lento e sornione di due fiumi in una sola città, a quel paesaggio di comignoli rossi, di ponti moderni e massicci o passerelle romantiche, che mi hanno guidato, quartiere per quartiere, alla scoperta di questa splendida città. Nella via sento urla di gioia di ragazzi inglesi che esultano dopo aver visto la partita in qualche pub vicino: il Manchester avrà vinto. Tra loro, qualche mio amico, che magari prima di tornare a casa passerà da qui, per salutarmi, per bere un thè, per affumicare un po’ la mia stanza, io che non sopporto il fumo. E glielo lascerò fare, perché lo studente di Erasmus impara ad essere più accondiscendente, cioè più aperto alle abitudini degli altri, i suoi amici, che a poco a poco sono diventati la sua famiglia, anche se così diversi. Mi sono scoperta a chiacchierare con loro per ore di sentimenti, di università, della mia famiglia, della mia città e della Sardegna, e a farlo in francese, non la mia lingua e a volte neanche dei miei interlocutori, ma è la nostra lingua qui, il nostro filo di salvezza e ricchezza sociale, unico mezzo di comunicazione grammaticale, a volte così sgrammaticato. La voglia di conoscere dell’Erasmus medio, la stessa che mi sono scoperta, è tanta, enorme, non quantificabile. Siamo sempre alla ricerca di nuove persone, che possiamo capire e che possiamo capirci, fermo restando quel limite di sana differenza che ci rende tutti, tra stranieri, più interessanti, magari perché si scopre che il gallo che in Italia ha sempre fatto “chicchirichì”, in Francia urla “cocoricò”. Ecco, la conoscenza con gli stranieri o francesi il più delle volte è così, spontanea, sfrontatamente semplice, magari, per i canoni delle relazioni sociali della nostra città, imprevedibile. E in mezzo a tutte queste realtà straniere, ecco emergere la mia prepotente, straordinaria e finora sconosciuta sardità. Che come popolo fossimo testardi, introversi, “isolani”, già lo sapevo, è uno stereotipo, ed è questa la definizione che mi ha snocciolato la professoressa del corso di francese, lei, di Parigi, così lontana dalla mia isola. Lei che non ha mai visto il nostro mare, come è celeste e trasparente sotto i raggi del nostro sole, che a volte è talmente luminoso da confondersi col candore del cielo di luglio. Ma in fondo “nostro” di chi? È questa la domanda che mi sono posta un giorno mentre camminavo di fronte a una delle tante imponenti fontane di Lione, lusso di uno spreco d’acqua che “noi” non ci possiamo concedere. E in quel momento ho capito che l’Erasmus, oltre alla conoscenza di un’altra lingua, e un’agendina arricchita di nuovi indirizzi di Berlino o Torino, mi aveva regalato la coscienza della mia terra, delle mie origini, di un “noi”.

Mi sono scontrata più volte contro l’ignoranza di stranieri che credevano che i sardi non fossero italiani, ma un sottogruppo di nazionalisti della Corsica, o di torinesi che mi chiedevano come facessi a vivere senza treno e ferrovie. “Ma come?”, mi sono detta. “Io che voto per un’Europa unita, scopro in Francia che il sardo è un popolo a parte, diverso dagli altri?”. In realtà no, è solo questione di sensazioni, che richiamano alla mente parole come “radici”, “certezze”, voglia di viaggiare ma anche di tornare. Radici sarde, come quelle di cui siamo dotati, nate insieme a me, che ho visto estendersi e allungarsi quando ho osservato per la prima volta la nave della Tirrenia staccarsi dalla costa di Cagliari. E dalla “bassa statura” dei miei sei anni fissavo quel mare che mi stava allontanando dalla mia casa, per portarmi in un posto estraneo al mio “recinto dorato”, dove ero cresciuta. Adesso capisco che quella distesa d’acqua salata, per me da sempre un ostacolo fastidioso, in realtà mi ha arricchita di una straordinaria voglia di conoscere “l’altro”. Che il fatto che la concezione generale che molti hanno “su quel popolo di isolani”, sia semplicemente di “sconosciuti, bassi e scuri”, mi ha dato la motivazione per essere più forte dentro, per interrare le mie radici nell’isola che amo, rimanendo curiosa di tutte le realtà più diverse. È come se dovessi ai bianchi calcari della Sardegna, ai letti di fiumi secchi, alla pelle bruciata dal sole, le mie certezze di avere un posto nel mondo, che mi manca, e nello stesso tempo mi soffoca, spingendomi alla ricerca di nuove esperienze e viaggi. E così ho trovata la parola: “caratterizzata”, ho il carattere sardo nelle vene, e per carattere intendo il profumo del mirto esasperato dalla calura estiva, o l’immagine biancastra e opaca del sale marino sulle braccia. Ho bevuto tutta la tisana, Joni Mitchell ha smesso di cantare. Gli inglesi no, intonano cori su cori, e io tra poco allungherò il braccio verso la mia lampada, per permettere, ancora, ancora una volta, alle stelline nel soffitto di illuminare i miei movimentati sogni in lingua straniera, rigorosamente sottotitolati!

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2 commenti

  1. Patetico ……ha scoperto in Francia di sentirsi italiana …….ita catzu bi intrat cun su fatu de esser sardu??Candu pro issa su esser sarda est su mare , su fragu de sa birdura de su sartu , su riu sicu
    Pro caridade

  2. AHAHAHAH seus postus beni.. Po caridadi

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