LA SCRITTRICE DELL'IDENTITA' SARDA: MARIA GIACOBBE, NUORESE CLASSE 1928, E LE MILLE BATTAGLIE LETTERARIE PER L’AUTONOMIA E LA RINASCITA DELL’ISOLA

Maria Giacobbe, scrittrice, vive in Danimarca


di Adriano Vargiu

Secondo un luogo comune – ma neppure tanto comune – i sardi amarono poco Grazia Deledda da viva. Soltanto il Premio Nobel per la letteratura, nel 1926, li fece un po’ ricredere. In realtà – come ha scritto Francesco Alziator nella sua Storia della letteratura di Sardegna (1954) – «non era piaciuto all’uomo della strada isolano che la Deledda avesse diffuso e accreditato una Sardegna di fuorilegge, di umili, torbida e malata, primordiale e scatenata nei drammi e nelle ire dei tormenti e dei tormentatori. In quella banale confusione tra la realtà dell’arte e quella della storia, in quel miope non riconoscere la libertà della fantasia e

identificare l’arte della scrittrice nella veridicità del cronista, erano i motivi dell’impopolarità della Deledda». Al contrario di quanto successe alla Deledda, Maria Giacobbe – anche lei nuorese – gode della stima generale. Le sue opere sono rivolte alla difesa dell’identità sarda, il suo impegno civile l’ha portata a combattere sempre a fianco del suo popolo in tutte le battaglie per l’autonomia e la rinascita dell’isola. Maria Giacobbe è nata a Nuoro nel 1928. Figlia di Dino Giacobbe, sardista e antifascista, combattente in Spagna contro i franchisti, in memoria di Carlo Rosselli aveva chiamato i tre cannoni della sua batteria Justicia, Libertad e Trabajo. Fu con Emilio Lussu, quando questi uscì dal Par tito sardo d’Azione. Le figlie, Maria e Simonetta (moglie di Michele Columbu) hanno scritto nel 1999 la sua biografia, Tra le due guerre. Dopo gli studi liceali è stata maestra elementare in diverse scuole del Nuorese. Dal 1959 vive a Copenaghen, nel 1962 ha preso la cittadinanza danese, sposata al regista e scrittore Huffe Harder, puntuale ogni estate ritorna nella sua isola. Con il libro Diario di una maestrina, nel 1957 vinse il Premio Viareggio opera prima. Altre opere: Piccole cronache (1961), Le radici (1977): tre opere di narrativa definite «autobiografie a ritroso», perché attraverso i ricordi dànno un quadro della vita, del mondi della scrittrice. Ancora: Il mare (1970), Grazia Deledda. Introduzione alla Deledda (1974), I ragazzi del veliero (1992), Gli arcipelaghi (1995, diventato film con lo stesso titolo nel 2000, regista Giovanni Columbu), Maschere e angeli nudi: ritratto d’infanzia (1999), Pòju Luàdu (2005), Chiamalo pure amore (2008). Nella sua produzione non mancano saggi e antologie poetiche, anche in lingua danese. Diario di una maestrina: la scrittrice racconta i primi anni d’insegnamento d’una ragazza di buona famiglia, la crescita democratica d’una giovane provinciale vissuta in un’epoca trionfalistica, sfociata nella seconda guerra mondiale. L’entusiasmo per l’insegnamento, frenato dalle tristi condizioni ambientali, la forza d’una donna per vincere timidezza, pregiudizi e situazioni vecchie di secoli. La lotta d’una intellettuale in gonnella, con una non comune capacità d’immedesimarsi nel proprio tempo. «Quando nel 1956-57 – così la Giacobbe – lavoravo al Diario di una maestrina, la Sardegna non aveva smesso di sperare nel Piano di Rinascita, che approvato con una legge del 1948 era ancora agli studi per i suoi particolari. Più che la mia età allora giovanile, fu la fiducia che da molti si riponeva nell’attuazione di quel piano… Era una Sardegna povera, quella che avevo descritto, ma una Sardegna che forse stava per svegliarsi e rialzarsi. Molti erano i disoccupati e moltissimi i sottoccupati e i sottopagati, molti erano gli analfabeti, molti erano i bambini che morivano durante la prima infanzia, e fra quelli che sopravvivevano molti erano denutriti; molti erano quelli che evadevano all’obbligo scolastico e moltissimi erano quelli per i quali la scuola, così com’era, anche se frequentata, restava un episodio più che altro negativo; molti erano quei giovani che finivano per trovarsi in conflitto con le leggi dello Stato; moltissimi quelli che per procurarsi un lavoro, che la Costituzione dice essere “un diritto e un dovere per tutti i cittadini” della Repubblica, dovevano lasciare la loro terra, che pure era già una delle meno densamente popolate d’Europa». Piccole cronache invece narra della vita nuorese sotto il fascismo, con il padre fuoruscito, combattente in Spagna con le Brigate Internazionali. In Le radici il maggior pregio sta – oltre che nello stile sobrio e suggestivo – nella fusione che il racconto riesce a determinare senza forzature tra la vicenda intima dell’autrice e il mondo circostante. «Filtrati attraverso le reazioni degli adulti e gli effetti che ne derivano dall’andamento della vita domestica, emergono dalla narrazione gli echi che travalicano la dimensione individuale e familiare, per investire la struttura e la specificità dell’intera società barbaricina. Il conflitto tra vecchio e nuovo, il rapporto tra proletariato e piccola borghesia di paese capoluogo dell’area pastorale, la condizione della donna e della famiglia in una Nuoro già in bilico tra la staticità di tradizioni secolari e l’avanzare della civiltà dei consumi». Il brano proposto in chiusura è tratto dal Diario di una maestrina, davvero bello: «A Bortigali ci si arriva in treno. Quel trenino che sulle rotaie a scartamento ridotto trotterella da quasi un secolo per le salite tra Nuoro e Macomer. Si parte alle cinque del mattino. Il cielo è ancora scuro e le strade sono deserte; ma già da lontano si sentono i gridi rauchi e brevi con i quali la locomotiva sembra voler esprimere la sua disperata stanchezza. Respira pesantemente andando avanti e indietro per la stazione, come un vecchio cantante che nel suo camerino si appresti alla serata d’addio. Alcuni detenuti ammanettati salgono spinti da due carabinieri, sul vagone di terza classe. Un piccolo gruppo di parenti li saluta e con la tacita condiscendenza delle guardie porge loro qualcosa per il viaggio… Lo scompartimento di prima è spazioso come un salotto. Ha i cuscini di velluto rosso adorno di pizzo; i finestrini, i parquets, i plafonds, i lampadari d’ottone dorato a volute hanno un’aria talmente confortevole e familiare che mi aspetto di vedere da un momento all’altro una vecchia servente in cuffia e guanti bianchi con un bricco di cioccolata fumante. Sono completamente sola… Alle prime luci del mattino la campagna è bella e invitante. Si potrebbe saltare dal treno, giocare un poco sull’erba, cogliere qualche fungo, rinfrescarsi al ruscello che da molti chilometri accompagna la strada ferrata, e senza neppure correre si riacchiapperebbe il treno alla curva successiva… Ci siamo fermati a sette stazioni, ma non abbiamo incontrato nessun paese. Il personale viaggiante ha scambiato qua e là delle chiacchiere con i capistazione e relative famiglie…». 

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

2 commenti

  1. ho conosciuto la Giacobbe, tanti anni fa. una persona splendida, mi ha colpita!

  2. Gian Paolo Mele Corriga

    Una figura autorevole del firmamento culturale di Nuoro : Punto di riferimento nell’attuale periodo tra due secoli. Anche LEI unu “ZIGANTE NUGORESU “chi est depio partire a Terr’anzena ,ca medas bortas est beru :NEMO PROFHETA IN PATRIA .Mi lega alla sua famiglia un bel ricordo IO sono stato battezzato dalla sorella Simonetta (Titti) con lo Zio FRANZISCHEDDU ,nel Giugno del1944 nella Cattedrale di Nuoro. Un saluto Gian Paolo Mele corriga Nuoro Vicolo G. Giusti 5 08100 NUORO.

Rispondi a Francesca Concas Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *