"CAPO E CROCE – LE RAGIONI DEI PASTORI" AL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. INTERVISTA ESCLUSIVA A MARCO ANTONIO PANI (REGISTA DELLA PELLICOLA INSIEME A PAOLO CARBONI)

immagine tratta dal film


di Bruno Culeddu

In concorso nella sezione “Prospettive Doc Italia”  della ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma (in sala  il 14 novembre al Teatro Studio e il 15 novembre al Barberini) “CAPO E CROCE. Le ragioni dei pastori” di Marco Antonio Pani e Paolo Carboni, ci racconta l’esperienza della protesta dei pastori sardi avvenuta tra il 2010 e 2013 nella rivendicazione del diritto a sopravvivere. Ne parliamo con Marco Antonio Pani.

Siamo stati per tradizione e cultura educati a concepire il mondo della pastorizia, in Sardegna, come connotato da un forte individualismo, e quindi a ritenere questa categoria di lavoratori destinata a non produrre movimenti comuni di lotta e di rivendicazione collettiva dei diritti. Abbiamo quindi assistito con grande interesse alle proteste pubbliche avvenute tra il 2010 e 2013 a Roma, Civitavecchia e in Sardegna. A suo giudizio, ma soprattutto alla luce della sua vicinanza di documentarista a questa protesta, che cosa è cambiato nel mondo della pastorizia in Sardegna e quale aspetto di questo cambiamento – se c’è stato – ha voluto porre al centro del suo lavoro? La pastorizia non è più esclusivamente un’attività, per così dire, artigianale. Una volta tutti i pastori trasformavano direttamente il latte ovino in formaggio e ricotta. Con questa produzione, insieme alla vendita della lana, della carne, delle pelli, riuscivano normalmente a coprire le esigenze primarie delle loro famiglie. Si è poi passati alla produzione industriale e i pastori (non tutti, ma molti) hanno iniziato a produrre il latte per venderlo agli industriali (che lo trasformavano principalmente in pecorino romano) i quali gli riconoscevano un buon prezzo. C’era quindi, fino agli anni 80, la possibilità di scegliere se produrre da sé, consorziarsi in cooperative oppure fornire  il latte a terzi. E in tutti e tre i casi, si riusciva a sopravvivere. Poi le cose sono gradualmente peggiorate. La modernizzazione delle aziende sollecitata e sostenuta dalla Regione per far si che le aziende si uniformassero agli standard igienici e di produzione previsti dall’Europa, se da una parte ha reso il lavoro manuale meno faticoso per il pastore, dall’altra lo ha costretto ad aumentare la produzione e lo ha messo nelle mani delle banche, alle quali si trova a dover restituire prestiti che dovevano avere un tasso bassissimo e che invece, dopo che la Comunità Europea ha giudicato illegali le agevolazioni concesse da alcune leggi regionali, sono diventati altissimi. Come se non bastasse, paradossalmente, l’affermarsi del mercato europeo, con le sue leggi di mercato, e della globalizzazione, ha prodotto un graduale declino dei prezzi delle produzioni locali, dovuto all’immissione sul mercato di merci a bassissimo prezzo provenienti da paesi terzi con costo del lavoro decisamente più basso. Il latte ora può arrivare con facilità dall’Albania, dalla Romania.  E questa sembra essere la base del ricatto: “il prezzo lo facciamo noi, altrimenti il latte, gli agnelli, i maialetti, li compriamo altrove. Il latte, lo portiamo qui, e facciamo il nostro pecorino con quello. Oggi, ci sono pastori che continuano a trasformare il loro latte e a venderlo sotto forma di formaggio. Questi guadagnano un po’ di più, ma spuntano comunque prezzi troppo bassi rispetto ai costi di produzione e sono sottomessi allo strozzinaggio della grande distribuzione. Poi ci sono quelli che producono molto e vendono agli industriali. Loro riescono a tirare avanti, ma con una sproporzione notevole , anche in questo caso, fra il guadagno ed il lavoro. Poi i consorzi, sempre di meno, in realtà, ma che riescono ad attribuire un prezzo migliore per litro di latte e a fare un bon prodotto. Infine i piccoli produttori, quelli che hanno 15, 200 capi, e per i quali vivere è diventato davvero difficile. Molte spese, troppe, e nessuna garanzia. Nemmeno quella di avere un tetto sopra la testa, visto che i debiti stanno portando molti a perdere le proprie aziende e addirittura le case.

Quale destino prevedi per i pastori? Nemmeno tre anni a seguire le loro proteste insieme a Paolo Carboni e a parare con loro sono sufficienti per fare previsioni del genere. Credo personalmente che molto dipenderà dalla capacità che avranno per unirsi nella produzione, oltre che nella protesta. Dovranno essere bravi a creare dei marchi, a differenziare il prodotto, a mettere sul mercato dei prodotti tipici, come fossero dei gioielli unici, un po’ come sono riuscite a fare negli ultimi due decenni i produttori vitivinicoli. Ma la strada è ancora lunga e difficile, e le politiche regionali non aiutano affatto. Un esempio per tutti, un pastore appassionato di cavalli mi raccontava che due anni fa la comunità europea metteva a disposizione ingenti fondi per l’allevamento di cavalli da corsa. Noi abbiamo l’anglo-arabo-sardo che è una delle razze equine più conosciute nel mondo proprio per le loro doti atletiche. Parliamo di cavalli che hanno vinto gare e palii in tutto il mondo. L’equitazione e le corse di cavalli sono attività economiche che producono denaro, e per questo i cavalli di razza preparati sono oltre che bellissimi animali, una fonte di reddito non trascurabile per allevatori e preparatori. Ebbene, a detta del nostro “testimone” l’unica Regione italiana a non aver preparato un piano apposito e a non aver chiesto quei finanziamenti, è stata la Sardegna che, al contrario, ha varato un piano di aiuti per le cosiddette “ippovie”. In altre parole, si concedono contributi a chi fa, degli anglo-arabo-sardi, dei cavallini da passeggiata.

I pastori impegnati nella lotta di sopravvivenza hanno sofferto la presenza della cinepresa?  Direi di no. Al contrario, la loro urgenza di comunicare al mondo il loro disagio, ma anche l’orgoglio di essere fra i maggiori depositari di tanta parte della nostra cultura popolare, e di un rapporto con il mondo più a misura d’uomo, ha fatto si che collaborassero tantissimo, senza quasi imbarazzo. Casomai per noi , all’inizio, è stato complicato non farci confondere con agenti della Digos in borghese. La polizia è numerosa e non manca mai, non solo alle manifestazioni, ma persino nelle semplici assemblee del Movimento Pastori Sardi. È anacronistico, eppure per le istituzioni sembra ancora vigere l’assurda equivalenza fra pastori sardi e sicura fonte di pericolo e sovversione.

Durante la lavorazione del materiale acquisito c’è stato qualcosa che avete preferito non portare sugli schermi? Avevamo 390 ore di girato e tantissimi argomenti da affrontare. Abbiamo dovuto rinunciare a così tate cose, che pensare di non portarne alcune sullo schermo, volutamente, non era nemmeno possibile. Ci sarebbe piaciuto raccontare di più l’iter delle varie vertenze, che abbiamo seguito con puntualità. L’occupazione del Palazzo del Consiglio Regionale, che invece abbiamo dovuto relegare a una didascalia esplicativa per risparmiare tempo. Oppure raccontare meglio il particolare meccanismo di democrazia partecipata nel quale si svolgono le assemblee dei pastori. Ma purtroppo un film documentario non può durare troppo, e noi volevamo che i pastori avessero la possibilità di raccontarsi, così abbiamo privilegiato appunto “le ragioni dei pastori”. Le altre cose le abbiamo raccontate lo stesso, ma più sotto forma di ricordi, o di appunti sul racconto principale, che viene dalle loro voci.

Tra i settori produttivi in crisi c’è anche quello cinematografico. Che cos’è Moviementu, come e perché è sorto e chi vi partecipa? Moviementu è un’associazione, nata come movimento spontaneo, di persone che lavorano o vorrebbero lavorare nell’audiovisivo e nel cinema in Sardegna. Fra gli iscritti, ci sono nomi conosciuti, come i registi Enrico Pau, Paolo Zucca ed Enrico Pitzianti, ma anche meno conosciuti, e poi macchinisti, operatori di ripresa, attori, esercenti (l’ANEC SARDEGNA ne fa parte, per esempio) e produttori come Karel, che l’anno scorso ha partecipato al Festival di Roma con un bellissimo documentario di Sergio Naitza su Tiberio Murgia. Qualche mese fa ci siamo riuniti per discutere insieme dello stato di semi abbandono nel quale versa ultimamente il nostro settore, e abbiamo pensato di unirci, per far sentire con più efficacia la nostra voce e convincere le istituzioni sarde del fatto che il cinema e l’audiovisivo sono una filiera produttiva a basso impatto ed alta redditività, nella quale attualmente lavorano in Sardegna centinaia di persone, con diverse professionalità e con diverse specializzazioni. Noi siamo convinti che con qualche intervento deciso, in direzione di un sostegno reale e puntuale al settore cine audiovisivo, si produrrebbe una ricaduta economica molto notevole sul territorio, così come è avvenuto in altre regioni d’Italia (vedi Puglia, Piemonte, Sicilia e, attualmente, Basilicata), si eviterebbe di perdere posti di lavoro o professionalità, e si avrebbe al contrario, la possibilità di crearne di nuovi.

Qual è l’obiettivo più urgente? In questo momento gli obiettivi principali sono tre: far si che la Legge Cinema della Regione venga finanziata con un budget che sia per lo meno adeguato al settore cinematografico e che così possano continuare a prodursi film come quelli che negli ultimi anni hanno portato prestigio, cultura e lavoro alla nostra terra; obbligare la Regione a dotare di fondi, personale adeguato per numero e professionalità, spazi e strutture la Film Commission della Sardegna; ottenere a tutti i costi che la Regione vari un piano per l’audiovisivo e il cinema con il quale chiedere all’Unione Europea i fondi previsti dai bandi 2014/2020. Se perdiamo questo treno, il prossimo passerà fra sette anni. Per il nostro settore sarebbe praticamente la fine, o continuare ad arrangiarci come quasi sempre abbiamo dovuto fare finora. 

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