A TE I TUOI FIGLI ITALIA CON FERMA FEDE PERCHE’ SORGA AL SOLE LA TUA FRONTE: FRANCESCO CIUSA E LA BRIGATA SASSARI

Francesco Ciusa


di Angelino Mereu (http://amerblog.wordpress.com/)


Nel 1919, cessata la Prima Guerra Mondiale, i cittadini veneti residenti in Sardegna promossero la realizzazione di una targa commemorativa dedicata alla Brigata Sassari che aveva contribuito in modo fondamentale alla liberazione delle terre venete. La targa venne realizzata dallo scultore nuorese Francesco Ciusa e fu accompagnata da una lapide che riportava una frase di Antonio Fradelleto, Ministro per le terre liberate, dove si esaltavano le “eroiche virtù” dei sardi della Brigata Sassari. La targa e la lapide, che erano state collocate sulla parete della scalinata del cortile d’onore del municipio di Cagliari, purtroppo, sono state distrutte dai bombardamenti americani del 1943 e se ne sono perse le tracce. Rimane solo il ricordo nelle cronache dell’epoca pubblicate sul Gazzettino e sull’Unione Sarda (si veda in proposito la ricerca condotta da Dario Dessì per Tottus in pari ). Ma Ciusa si era già occupato della Brigata Sassari quando nel 1916 realizzò una medaglia commemorativa commissionata dai sardi residenti a Milano. La medaglia, nel fronte, raffigura due plastici corpi speculari, col capo chino, che poggiano sugli scudi e su una spada centrale. Nello sfondo una figura di donna con una mano regge una lancia e con l’altra una figura alata che poggia il piede su un globo. Le figure sono incorniciate dalla scritta “A TE I TUOI FIGLI ITALIA CON FERMA FEDE PERCHE’ SORGA AL SOLE LA TUA FRONTE”. La medaglia riporta la firma di Ciusa e dell’incisore Donzelli che la realizzò. Nel retro, la cornice è costituita da un incrocio di falci e spighe, mentre una spada divide lo spazio in due parti che contengono il comunicato del Comando Supremo del 15/XI/1915 e la dedica “ALLA BRIGATA SASSARI SIMBOLO DELL’EROISMO DEL POPOLO DI SARDEGNA OMAGGIO DI AMMIRAZIONE E DI RICONOSCENZA DEI SARDI RESIDENTI IN MILANO – FEBBRAIO 1916”. Nella cornice esterna la scritta “MORTE GLORIA LIBERTA’”. Ciusa nel realizzare la medaglia si rifà a motivi classicheggianti che già caratterizzavano la sua opera scultorea, con particolare attenzione alla “fisicità” dei corpi, resi plasticamente nella loro torsione muscolare. La presenza dei due scudi tondi richiama alcuni bronzetti nuragici, caratterizzati proprio da tale dettaglio, mentre la figura alata è una rappresentazione classica della dea Victoria che poggia i piedi sull’orbis terrarum, a simboleggiare il raggiunto dominio sul mondo. Una simbologia classica già utilizzata, ad esempio, da Antonio Canova nella statua di Napoleone, idealizzato come Marte vincitore, che tiene con la mano destra il globo dorato sul quale poggia una Vittoria alata. Il motivo della medaglia è ripreso da Ciusa ancora nel 1917 quando l’artista dà il suo contributo alla celebrazione della “guerra dei sardi” con una serie di disegni che vanno ad arricchire la pubblicazione “I tuoi figli, Sardegna eroica!”, realizzata per raccogliere fondi a beneficio dei combattenti. Una serie di raffigurazioni simboliche riprende i temi della medaglia con figure racchiuse entro tondi a simboleggiare la Morte, la Gloria e la Libertà. In un altro disegno la statua bronzea della Vittoria è sovrapposta al volto irrigidito dal dolore di una donna sarda. Sono evidenti le similitudinicon l’immagine della medaglia e sono chiari i richiami alla Madre dell’ucciso, l’opera più importante di Ciusa che nel 1907 tanto successo aveva riscosso alla Biennale di Venezia. Lo stesso motivo, evidentemente caro all’artista, fu utilizzato a colori anche per una cartolina commemorativa della Brigata Sassari dove, come scrive Giuliana Altea “Ciusa riesce a trasformare l’enfasi retorica in concentrazione espressiva”, riuscendo a rappresentare in estrema sintesi la gloria riservata ai fanti, abbinata alla sacrale compostezza dimostrata dai sardi durante il conflitto mondiale.

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Un commento

  1. Augusto Brigas

    Il poeta-soldato dimenticato… Mastru Gavinu di Bosa, un sardo qualunque nella Grande Guerra.
    Ecco una tra le tante poesie da Lui scritte nei campi di battaglia, proprio quella del giorno della Vittoria.
    Vittoria
    Il lungo inverno dell’anima è finito; la vita ritorna nei cuori con la speranza. La guerra è finita, per l’Italia nel migliore dei modi, con la Vittoria. Ma quanto cara essa è costata: sei milioni di uomini chiamati alle armi, seicento mila morti, quasi tre milioni di feriti. Gavino Ruggiu in questa lunga elegia alla Vittoria ripercorre l’intera vicenda della guerra, ne esamina i passaggi, si china in un reverente omaggio alla memoria dei morti. E’ l’ode alla Vittoria quella in cui traspare la sua particolare ispirazione al concetto cardine, della colpa e della pena, proprio della Commedia di Dante. La guerra è l’inferno, la speranza il purgatorio, il futuro sognato nell’auspicio finale, il Paradiso. Nel racconto bellico in versi viene rimarcato il concetto del fuoco che divora, della vampa che infiamma la pianura: il fuoco dei cannoni brucia l’esercito austro ungarico così come quello infernale i peccatori. Se il poeta minaccia pene terribili per i nemici, sale il suo canto nella parte finale, verso la consolatoria ed ingenua illusione del sereno ritorno alle case, di un mondo nuovo di luce e gioia, senza più il buio mortale della guerra. Sarebbero trascorsi appena vent’anni prima della nuovo guerra mondiale. Nel suo sogno poetico, Ruggiu diventa fabbro di speranza, immaginando che i cannoni siano finalmente fusi per costruire macchine agricole. Possano ritornare a casa senza più odio quanti si sono odiati, senza più alcun desiderio di vendetta: e le mani che stringevano le baionette, prendano le falci, per mietere il grano. Il suo inziale grido Patriottico, la forza coinvolgente del suo racconto in versi del vittorioso assalto finale, si stempera alla fine dell’ode nel Paradiso auspicato di un mondo perfetto, di lavoro, di pace, di amore. Il soldato Gavino Ruggiu depone le armi; il fabbro Gavino Ruggiu riprende il martello e si avvia profondamente cambiato dalla guerra alla sua officina.
    Vittoria
    Ecco chi sa Vittoria finalmente
    Apparit trionfante in s’orizzonte
    Coment’e mai bella e sorridente.
    S’alzada a bolu da un altu monte
    In sos ghiaccios de Settentrione
    Cun nd’un’iscritta nobile in sa fronte.
    Fremed’esultat dogni nazione
    Non però cuddas chi su vastu pianu
    Bident ruta ‘s’insoro ambizione.
    Giughed’iscrittu cun sambene umanu,
    A s’ala destra <indomita costanza> –
    E a sa manca <Morte a su tirannu>.
    Cumpared’in s’immesa lontananza
    Che un’essere subranaturale,
    E s’abberit su coro a s’isperanza.
    Albione la mirat, ahi cale
    Pinna podet descriver degnamente
    Tantu giubilu immensu generale
    Ecco falat silenziosamente
    In sa martire terra gloriosa
    E rimirende s’odiada zente.
    Narat <custa tragedia dolorosa
    Prestu devet finire, ca tremenda
    Vinditta como s’alzad’orrorosa,
    E tes subire sa pius orrenda
    Onta epoi lontanu umiliadu
    Tes piantare sa lurida tenda.
    Cust’est terrinu sacru riservadu
    Solu a sos suos eroicos fizos
    Ch’in chentu modos has marturizzadu
    Finit su vaticiniu, sos chizos
    Alzad’apena e mirat sos tiranos
    Mutiladores fuer cun fastizos.
    Anglos, franzesos e americanos
    Sa severa giustizia divina
    Giughne’e non lis fuit dae manos,
    E cumbattint cun forza leonina
    Elevad’a grandesa sovrumana,
    Estirpende s mala raighina
    Da sa fertile terra Alsaziana,
    Inue tantu sambene e dolore
    S’incorporesid’in manera istrana.
    Ma finit – narat – finit dogni orrore
    E i su tou populu afflittu
    Tet torrare a sa terra de s’amore;
    Non po nudda in s’oceanu infinitu
    Milli naves potentes sunt passadas,
    Armadas po difendere su dirittu.
    E de Persking sas nobile armadas,
    Ruent gherrende ancora che leone
    In cuddas frontieras violadas.
    Bennida est s’ora de sa redenzione,
    Tirannu e ti riservat s’orrorosa
    Immancabile pena e su taglione>
    Fint su faeddare e maestosa
    S’alzat de nou e paret da lontanu
    Celeste visione prodigiosa.
    Passat che lampu cun podere arcanu
    E i si firmat de bottu in s’aspru monte
    Fattu sacru a su cultu Italianu.
    Est su Gappa terribile, de fronte
    L’est su Piave chi curret veloce
    Totu trazende che i s’Acheronte.
    Salve – esclamat – o logos de s’atroce
    Ira de s’inimigu baldanzosu
    Nd’azis truncadu s’impetu feroce,
    In cuddu die triste e dolorosu
    Chi su latinu sambene gentile
    Rivendicat cun samben generosu.
    Si bastada osservare su febbrile
    Armamentu de pezzos mostruosos
    Po distruer s’ingratu infam’e vile.
    E in aspros caminos tortuosos
    Filas interminabiles passare
    In sos peregrinagios gloriosos.
    Filas ch’attendent, non timen de dare
    S’ultimu anelu, sos ch’in battaglia
    Sa vittoria a bolu han’afferrare.
    Ma cale, cale perfida canaglia
    Sa terribile accusa had’imboladu
    Ch’istraziat pius de sa mitraglia?
    Ma chi est che s’onore had’infangadu
    De su nobile esercitu latinu
    Cand’hat malignamente insiniadu
    Ahi de Caporetto e de Tolminu
    Difenfores codardos e comente
    S’abbandonesit su sacru terrinu?
    Poite mai a sa lurida zente
    Liberu passu desint de entrare
    Senza l’opponner su pettus furente?
    Oh lu narant sos viles, ch’isculpare
    Si cherent, po ch’ant tessidu sa trama
    De tantu detestabile operare.
    Ahi maligna, ambiziosa brama
    De chie tristemente si est offertu
    Po traigher’e bendere una mama!
    Ca soldados eroicos, no zertu
    Po culpa ostra in su die fatale
    S’inimigu sas portas had’abertu.
    Ca ois cun affettu filiale
    Hazis cun noncuranza sa vida
    Semper’offertu po un’ideale.
    Ideale sublime! Ch’accanida
    Rendiat sa giurada resistenza
    A sos pes de sa patria decisa.
    E mai de su tempus s’inclememezia
    O sos pius atroces patimentos
    Nd’intachesit sa pura ostra cussenzia.
    Ca sempre tra giulivos e cuntentos
    Mantenizis su votu sacrosantu
    De resistere a totu sos chimentos.
    Ahimè Sabotinu e Monte Santu
    Podgora, Cuccu e Vodice han formadu
    De ois un’immensu campusantu,
    Ma totu cun costanzia superadu
    Hazis forte, tenaces e gagliardos,
    Dae s’Alpe a su Carsu insambenadu.
    E poi sos potentes baluardos
    Ruent che i sa foza a un’a unu
    Po culpa ‘e pagos viles e codardos.
    Oh siant maleittos cantos sunu
    Cussos Giudas, che zertu han’a rezzire
    Sa pedra de s’infamia da dognunu!
    Ma coraggiu, o Eroes, redimire
    Devides cuddos frades istimados
    Chi bos attendene in tantu patire.
    Ammentade, o Eroes, sunt passados
    Pagos meses chi ois cun manera
    Prodigiosa bos sezis affirmados,
    Cando sa diabolica chimera
    De s’erede ‘e su vile impiccadore
    Hazis naufragadu tota intera:
    Ma como, como in s’ora ‘e su dolore
    In s’ora chi unu lugubre Calvariu
    Si presentad’a ojos cun orrore,
    Istrappade s’orribile scenariu
    De sas duras tragedias passadas
    In su mattessi tristu anniversariu
    Già sas complices viles, esecradas,
    De sos tirannos, sunt miseramente
    Bintas, tremantes e umiliadas;
    A bois su gigante pius potente
    Como a distruer senza piedade,
    Po chi torret che primmu a su niente.
    A s’assaltu, ch’est s’ora, vendicade
    S’oltraggiu crudelissimu, insultante,
    E i sos caros frades riscattade
    Gai faeddat e i sa vibrante
    Oghe s’lazat che monitu severu
    E radiosa isparid’a levante.
    E poi su silenziu austeru
    Ecco rintronat poderosamente
    Unu colpu terribile e fieru.
    Est su signale, e prestu orribilmente
    Sa musica infernale dad’isfogu
    A sa tremenda lirica potente.
    E totu avvampat, brujat, unu fogu
    Immensu est su pianu; e fogu e morte
    Sun’unica cosa in custu logu.
    Poi s’interminabile coorte
    De sos pitticos fantes gloriosos
    Che una sola volontade forte.
    Superende sos milli e poderosos
    Ostaculos de s’arte e de natura
    Irresistibilmente impetuosos
    Dilagana in sa vasta pianura
    In su monte, in dogn’adde, ude dolentes
    Fuint sos inimigos cun paura.
    Ma ite sunt sos clamores ardentes
    Che dae s’istradon’e Mattarellu
    S’alzan entusiasticos, frementes?
    Est unu prode, eroicu drappellu
    Chi a s’invitu tou, o Trento amada
    Primmu cheret risponder’a s’appellu.
    Eccodi finalmente liberada
    Anima nostra! O frades nostros privos
    De dogni bene, in s’ora isventurada,
    Como esultade, esultade giulivos,
    Po chi sas belvas cun ojos grifagnos
    Sun fuidos che rettiles lascivos.
    Risuscitade, o Ispiritos magnos,
    Chiesa, Battisti e Filzi e i sos bostros
    Generosos, magnanimos cumpagnos!
    Osservade, osservade cuddos mostros
    Tant’indemoniados malandrinos
    Chi paghe implorant, paghe a sos pes nostros.
    Paghe a chie? A sos bostros assassinos?
    A cuddos chi ligadu cun cadena
    Bos hana dadu in manu a sos buzinos?
    Ma Eroes, poite tantas penas
    Gai tristas, dolentes ammentades
    E no mustrades sa fronte serena?
    E lontanu, lontanu ite osservades
    In su mare dolente ma tenace?
    Forzis a sorre ostra est chi chircades?
    Libera issa puru, s’Audace
    Primmu arrivesit po la liberare
    Da s’artigliiu terribile, rapace.
    O Trieste, o Reina de su mare,
    O purissima gemma diamantina
    A sorre tua curre po abbrazzare!
    Nara, bella Naiade divina
    Cantas boltas dolente suspirende
    T’amos bidu vicinu a sa marina;
    E religiosamente cunservende
    L’Isperanzia tua e penas duras
    Fisicas e morales supportene?
    Como totu est finidu, sas impuras
    E maleittas animas dannadas
    Rezzint sa pena ‘e tantas isciaguras.
    Paghe si, ca sun tropu sas feridas,
    Su luttu, sa miseria, su piantu,
    Po tantas penas troppu incrudelidas.
    Paghe. Ma dogni dirittu sacrosantu
    De su mundu chi totu insambenadu
    Sas pesantes cadena had’infrantu,
    Siad’in bases solidas fundadu
    Senza chi da niunu pius mai
    Potat benner distruttu e calpestadu.
    Cust’est sa vera paghe e solu gai
    Sun sas minaccias totu eliminadas
    De noas cherras, dolos e guai.
    Ma ite naro, si sun già firmadas
    A Villa Giusti sas condiziones
    A su nou isvilippu armonizzadas.
    O Trieste, o Reina de su mare,
    O purissima gemma diamantina
    A sorre tua curre po abbrazzare!
    Nara, bella Naiade divina
    Cantas boltas dolente suspirende
    T’amos bidu vicinu a sa marina;
    E religiosamente cunservende
    L’Isperanzia tua e penas duras
    Fisicas e morales supportene?
    Como totu est finidu, sas impuras
    E maleittas animas dannadas
    Rezzint sa pena ‘e tantas isciaguras.
    Paghe si, ca sun tropu sas feridas,
    su luttu, sa miseria, su piantu,
    po tantas penas troppu incrudelidas.
    Paghe. Ma dogni dirittu sacrosantu
    De su mundu chi totu insambenadu
    Sas pesantes cadena had’infrantu,
    Siad’in bases solidas fundadu
    Senza chi da niunu pius mai
    Potat benner distruttu e calpestadu.
    Cust’est sa vera paghe e solu gai
    Sun sas minaccias totu eliminadas
    De noas cherras, dolos e guai.
    Ma ite naro, si sun già firmadas
    A Villa Giusti sas condiziones
    A su nou isvilippu armonizzadas.
    E i sos prepotentes teutones
    S’arrendent puru, ca da dogni parte
    Los minacciant sas deghe naziones.
    Finidas sunt sas furias de Marte,
    Dogni lotta terribile, accanida,
    E torrant tottu a su tribagliu, a s’arte.
    E i s’umanidade redimida
    Subra sas tristas ruinas fumantes
    Dat nos impulsos a sa no avida.
    Sos unos trasformende palpitantes
    Sos ordignos de morte mostruosos
    In poderosas macchinas gigantes;
    Sos ateros cuntentos, amorosos,
    arende o seminende in compagnia
    de sos insoro fizos, trabagliosos:
    E i su puru amore, s’armonia
    E dogni bellu vivere onestu
    Com’est comune a totu in allegria.
    Torra tempus felice, manifestu
    Nos rende dogni cuadu tesoro
    E faghe ancora ch’a su pius prestu,
    Torrent felices totu a terra insoro
    A leare ss falches beneittas
    Po nde messare sas ispigas d’oro,
    Senz’odiu, rancora né vinditta!
    Poesia scritta da Mastru Gavino in S. Lorenzo di Mossa (Gorizia) nel Novembre 1918.
    trasmette Augusto Brigas di Bosa, nipote del poeta-soldato Gavino Ruggiu

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