CARO ISTRANZU TI SCRIVO (IL MITO DELL'OSPITALITA' DEI SARDI)


di Valeria Gentile *

Galluresi, logudoresi, barbaricini e baroniesi, ogliastrini, campidanesi, sulcitani. La Sardegna è quasi un continente, raccontava magistralmente Marcello Serra nel 1958, eppure tutti questi piccoli popoli – che difficilmente possono essere considerati un unico popolo – hanno qualcosa in comune.

È il mito dell’ospitalità dei sardi, con cui ogni sardo ha fatto i conti almeno una volta nella vita. Si tratta dell’idea che siamo famosi anche “fuori” perché ci mobilitiamo con premura per chiunque chieda il nostro aiuto, perché offriamo lunghi passaggi in macchina a chi si trova in difficoltà lungo la strada, perché apriamo le nostre case e le nostre dispense per ogni viaggiatore senza batter ciglio e con superlativa generosità. I nostri “amici continentali” si stupiscono sempre della nostra ospitalità. Persino i banditi, quando cominciarono a sequestrare anche stranieri, li trattarono in modo piuttosto ospitale, nelle grotte del Gennargentu. Per non parlare di come siamo ospitali noi sardi “moderni” coi nuovi colonialisti d’ogni provenienza, dagli sceicchi agli sciocchi padroni.

Ma che cos’è questa convinzione isolana, questa nostra credenza ancestrale al valor civile? E come si combina con la caratteristica diffidenza dei sardi, con la loro dura considerazione dell’estraneo, soprattutto se viene dal mare? Istranzu – esattamente come extraneus in latino – vuol dire sia estraneo, sia straniero e forestiero, sia ospite – e anche un po’ strano (fuori dal comune). Nata dalla radice latina extra, questa parola sta ad indicare chi viene appunto da fuori, chi appartiene a un’altra patria. In Sardegna quindi, lo straniero semplicemente è ospite. Ce lo dice l’etimologia e ce lo dicono i numerosi b&b dell’interno che portano questo nome con disinvoltura. Eppure il concetto di base secondo una semplice analisi grammaticale è che l’oggetto istranzu non si lega al soggetto né per legame familiare, né per amicizia, né per dipendenza di nessun genere: “l’estraneo da me” non ha nessun rapporto con me.

Mi vengono in mente i miei viaggi in Italia e all’estero. Occorre fare molta attenzione al concetto di ospitalità disinteressata. A Ramallah mi hanno aperto le loro case con calore, offerto da mangiare e da bere anche durante il loro severo Ramadan, eppure qualche mese prima un occidentale è stato fatto saltare in aria solo in quanto occidentale. A Tokio dei perfetti sconosciuti a cui ho chiesto informazioni hanno voluto comprarmi i biglietti della metropolitana e accompagnarmi fino al binario, eppure nessun giapponese mi ha offerto da mangiare o da dormire. In Cina sono stata invitata a restare in una baita di montagna tra gli altissimi campi di riso gelati, a mangiare zuppa calda e a riscaldarmi davanti al fuoco casalingo, finché lasciavo un po’ di soldi alla loro comunità di minoranza etnica Zhuang. In Senegal mi hanno dato da mangiare sempre più di quanto mangiassero loro: lì hanno la teranga – concetto di ospitalità che dà il nome a ristoranti, alberghi, persino radio nazionali – eppure è nota la tendenza opportunistica dei senegalesi a vedere ogni toubab come fonte inesauribile di denaro. Ma che cos’è esattamente l’ospitalità? Che cos’è l’accoglienza? È l’atteggiamento del padrone che riceve il forestiero e lo nutre non per guadagnarci ma per sola umanità, il ricevere in casa propria con dimostrazione di affetto. Quindi l’ospitalità dei sardi che traggono vantaggi dal turismo, semplicemente, non è ospitalità?

E che dire della cristianità nelle nostre Barbagie, che predica l’amore verso ogni prossimo? I dogmi con cui arrediamo i nostri salotti e i nostri peccati sono davvero quelli che poi seguiamo quando un prossimo bussa alla nostra porta? Moltissimi filosofi e sociologi, come Derrida e Bourdieu, hanno scritto interi saggi sull’impossibilità sociologica del disinteresse. I circuiti di reciprocità in Sardegna sono basati sui due pilastri dell’interesse viscerale: il dono e la faida. Nelle comunità barbaricine, per esempio, lo scambio non è una transazione commerciale ma un dono reciproco. In Barbagia non esistono vie di mezzo: il timore esagerato si affianca a un’ostilità esagerata e ad una generosità altrettanto esagerata. O ci si fida interamente o si diffida interamente, o le armi o la dote. È un sistema sociale dall’equilibrio molto delicato, regolato da individui che “stanno sulle loro” ma che devono impegnarsi a dare e a ricambiare. E quando si riceve un torto, questo ricambiare non viene meno: il codice d’onore della vendetta barbaricina riflette molto bene i circuiti di reciprocità, e anzi, ne rafforza l’istituzionalità.

Mi ritornano in mente espressioni come “a fora sos istranzos” o “primu s’istranzu, mancari malu”: via gli stranieri (dominatori), prima viene lo straniero anche se cattivo. E se quella che chiamiamo ospitalità dei sardi fosse un sofisticatissimo meccanismo di controllo del nemico? Un do ut des che reprime comportamenti indesiderati e libertà non previste?

“Quando cammina questa contadina dalla ricca sottana allora il rosso comincia a balenare come un uccello che mostri i suoi colori. Sono divertenti queste donne così vivaci e provocatorie. Le loro schiene sono dritte come piccoli muri e le sopracciglia decise e ben disegnate. Stanno sul chi vive in un modo divertente. Non c’è nessun tipo di servilismo orientale. Come uccelli vivaci e svegli, sfrecciano per le strade e senti che sono pronte a darti un colpo in testa con la stessa indifferenza con cui ti lancerebbero un’occhiata”. D. H. Lawrence (Mare e Sardegna).

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3 commenti

  1. anche Marcello Fois anni fa’ scrisse qualcosa in merito alla nostra “ospitalita’…”

  2. MARIO ANGELO FENU

    e’ esattamente la mia opinione sull’argomento….al di la’ di questo,complimenti! Saluti da Angelo Fenu di Nuoro

  3. In un periodo di solitudine forzata, a Milano, città in cui vivo da quasi 70 anni (ma sono nata a Sassari) mi è venuto il desiderio di dialogare con i miei conterranei, anche se a volte mi trovo in conflitto con i politici sardi e con chi li approva (purtroppo vedo che non hanno fatto altro che sfruttare la loro terra, lasciandola sempre più povera e allo sbaraglio).
    E leggendo la descrizione dell’ospitalità dei sardi, ho ritrovato tantissimi commenti che sentivo fare da mio padre sull’adorata Sardegna (“quasi un continente”, come diceva il titolo di un libro che si ripassava incessantemente con nostalgia) e sull’orgoglio dei sardi.
    Non pensavo di provare moti d’animo che consideravo spenti, sostituiti dalla modernità che, in fondo, non mi dispiace.
    E non solo, mi è ritornato alla mente ciò che mi raccontava mio marito, milanese, che quando andava per lavoro all’estero, se incontrava un sardo solidarizzava subito con lui dicendo di avere la moglie sarda.
    La nostalgia che provava all’estero per la sua casa si attenuava grazie alle piccole attenzioni che gli riservavano come “sardo” di adozione.
    Pensando adesso a tutto ciò , ringrazio tutti i sardi che gli hanno riservato piccole, ma importantissime attenzioni, che gli hanno reso meno dura la lontananza da casa. Una chiacchiera tra “sardi”, una parola buona o un consiglio, uno scambio di vedute sui paesaggi sardi, un caffè dove solo un italiano aveva la nostra caffettiera, ecc.
    Adesso che non c’è più, pensando a loro mi sono venute le lacrime agli occhi per la gratitudine, perché capisco che per lui sono stati una carezza al cuore, e vi dico: continuiamo a coltivare questi criteri di appartenenza al nostro popolo, e manteniamo il nostro orgoglio nel senso più nobile del termine, perché arriverà il momento che la Sardegna si scrollerà dai parassiti; sono ben attaccati alla nostra pelle, è vero, ma, come si fa con le zecche, un batuffolo intriso di olio, e li si vedrà scivolare via…
    Buona Pasqua.
    A proposito, come si dice Buona Pasqua in sardo, o in sassarese?

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