IL SIGNIFICATO GLOBALE DELL'IDENTITA' (APPROFONDIMENTO ALL'ARTICOLO DI ADELASIA DIVONA PUBBLICATO IL 12 OTTOBRE)

l'autore dell'articolo è consultore all'emigrazione per il Canada in Regione Sardegna


di Alberto Mario DeLogu

Maria Adelasia dice bene: non esiste il postulato biologico-geografico della “sardità”. E d’altra parte, quando sentiamo parlare di “sicilianità”, o di “piemontesità”, o di “irlandesità” o di “maltesità”, un pochino ci viene da sorridere anche a noi. Siamo sinceri. L’identità è come l’amore nell’aforisma di Oscar Wilde: quella altrui ci annoia mortalmente.

Cavalli Sforza una quindicina d’anni fa dimostrava che il genoma sardo è il più eccentrico rispetto a quello delle altre genti d’Europa. Pare che solo i baschi siano altrettanto “diversi”. Ma quanto conta davvero il sangue? E perché mai dovrebbe, ora che sappiamo che, nel magma folle dei cromosomi, è probabile avere più somiglianze biochimiche con un immigrato centrafricano che col nostro proprio fratello? E se davvero contasse, vorremmo che contasse solo per i pregi, o anche per gli immancabili difetti?

Giorni fa è venuto a ripararmi la parabola della tv un giovane tunisino. Nel ringraziarlo e salutarlo gli ho detto: sai che io e te siamo cugini? Non capiva. Allora gli ho spiegato. Tu non sei numida né libico né berbero, gli ho detto: il tuo tratto somatico è semitico, cananeo, punico. E dal 500 al 200 avanti Cristo, decennio più decennio meno, la tua gente ha travasato sulla nostra isola una quantità di coloni tanto grande quanto la popolazione sarda d’allora. Ecco perché probabilmente io e te siamo cugini.

La china dell’identità genetica è ripida e pericolosa. Vale la pena conoscerla, ma è bene abbandonarla subito come strumento di misura dei caratteri collettivi e individuali.

Resta la matrice culturale. E quella, a differenza della matrice genetica, che Jacques Monod sosteneva essere conservativa, è duttile e plasmabile. Resistenziale, può darsi, come pensava Juanne Lilliu, ma della rigidità dei ghiacciai, che impercettibilmente si muovono e se traguardati nei millenni appaiono fluidi come acqua di torrente. Il cambiamento: è questa l’unica costante del mondo.

Come vecchie montagne si erodono e di disfano in colline e pianure, così nuove montagne emergono dalla crosta terrestre. Il cambiamento non procede solo in una direzione. Per questo, pure coscienti della relatività di ogni medaglia identitaria, è bene che i sardi si rimettano a manovrare la ruota della loro Storia. E ricomincino a pensarsi come nazione e a parlare la loro propria lingua.

Col pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà di cui parlava quell’altro sardo della Marmilla, il piccolo grande uomo di Ales.

Link all’articolo di Maria Adelasia Divona:

http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2012/10/12/il-coraggio-di-rimanere-il-coraggio-di-partire-riflessioni-di-una-sarda-di-ritorno/

 

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3 commenti

  1. Adelasia Divona

    Ringrazio Alberto (…o Alberto Mario?) per la citazione, e sottolineo che il mio intervento è quello di una sarda di ritorno, geneticamente sarda per metà, che ha deciso di recuperare la sua “matrice culturale” e che avanza lentamente in questa riscoperta delle origini grazie anche ai contributi degli amici di TIP

  2. Concordo sulle conclusioni di AM DeLogu.
    Solo un paio di precisazioni.
    Nella definizione di una identificazione collettiva sarda entrano in gioco fattori geografici e storici (e dunque culturali), ma non certo quelli genetici. Lasciamo questo genere di discorsi – sempre estremamente scivolosi e pericolosi, come sappiamo – a chi ama trastullarsi con un paradigma scientifico ottocentesco e andiamo oltre.
    Nondimeno, è vero che i sardi sono una popolazione piuttosto a sé stante. Anzi, pare che la popolazione sarda sia pressoché la stessa – senza cioè significativi apporti dall’esterno – fin dalla fine dell’ultima glaciazione (diciamo tra i 15000 e i 10000 anni fa). In questo senso vorrei sfatare un mito che – vedo – è duro a morire. Sull’Isola non ci fu mai alcuna colonizzazione da parte dei cosiddetti fenici (sul cui conto gli stessi feniciologhi, pure molto potenti in Sardegna, mostrano sempre grandi cautele) né da parte dei punici. Nel caso di questi ultimi si può parlare di una forma di egemonia politica ed anche culturale (oltre che economica). Ma anche nel loro caso andrebbe sfumato e contestualizzato il concetto di “dominazione” che spesso è usato in modo irriflesso, per meccanica adesione a modelli narrativi usuali.
    Certo è che per la Sardegna un percorso di emancipazione storica non può basarsi unicamente su presunti elementi identitari considerati come dati, come fissati una volta per tutte (per esempio la lingua: quale? solo il sardo? il sardo e il gallurese? e il catalano di Alghero e il tabarchino, dove li mettiamo? e l’italiano, che ormai è una lingua di tutti i sardi?), ma deve contemplare anche altre variabili. In questo gioco storico l’accoglienza e l’inclusività culturale avranno la loro importanza, specie in considerazione dello spopolamento di cui soffriamo.
    Sia come sia, la riappropriazione della nostra storia e del nostro senso di appartenenza a una collettività storica specifica è indispensabile. Il paragone con piemontesi o liguri o umbri o calabresi, ecc. ecc. è improprio, perché dà per scontata la nostra rappresentazione come comunità regionale italiana. Cosa che è destituita di fondamento, come dovrebbe essere evidente.
    La Sardegna è una regione italiana solo in termini giuridico-amministrativi (per altro molto recenti). Eviterei dunque di incorrere in questo primo, fondamentale equivoco, causa di molti fraintendimenti.

  3. Alberto Mario DeLogu (Montreal)

    Concordo con Omar più di quanto ne discordi. D’accordo sul fatto che la genetica lascia il tempo che trova. E nondimeno è un dato di fatto, non mito, che nei 300 anni di dominazione fenicio-punica, in un tempo nel quale la Sardegna contava sì e no 200 mila anime, vi fu un’iniezione etnica massiccia, superiore alle 100 mila unità, di genti di stirpe cananea, provenienti prima dal medio oriente, e poi dalla sua colonia nordafricana. Neanche le ricerche di Cavalli Sforza hanno mai messo in dubbio questo dato di fatto. E d’altronde, basta osservare il tipo antropologico degli abitanti della Sardegna sud-occidentale, e confrontarlo, poniamo, al tipo del nord-est (Gallura), e osserviamo subito la provenienza. Chi frequenta libanesi, siriani e tunisini, sa bene di che cosa parlo. Detto questo, i determinanti genetici valgono lo spazio di una generazione, due al più (se il potere di trasmissione culturale intracomunitario ed intrafamiliare è forte). Al di là di questa soglia, si attenuano e si disperdono in poco tempo. Per credere, provate a incontrare alcuni soggetti della seconda generazione di emigrati sardi, soprattutto in contesti monolingui anglofoni: la perdita di "sardità" (per quanto poco io vi creda) è quasi totale. Ormai dimenticata la lingua sarda, quasi completamente perduto l’italiano, esaurite (o spesso mai esistite) le memorie della terra d’origine, in via di veloce estinzione anche le poche tradizioni e i pochi tratti culturali superstiti. In alcuni casi ho assistito persino alla negazione stessa dell’identità sarda. Mi è quindi chiaro, e spero che lo sia anche ad altri, il significato enorme del lavoro di recupero, di rivalutazione e di vera e propria restituzione di dignità a tutte le forme e le espressioni culturali che ci contraddistinguono in quanto sardi. Senza manicheismi né settarismi, ma con spirito inclusivo, come dice Omar. Che il sardo non sia una lingua, fortemente identificabile, è una distorsione prospettica della quale sembrano vittime solo i sardi residenti in Sardegna. Basta allontanarsene un pochino e si coglie immediatamente l’unità della cultura e della lingua sarda. Che non viene dal niente e non va verso il niente, come sembrano pensare alcuni talebani dell’identità, ma è parte integrante del lago culturale mediterraneo, ed è in continua, quotidiana evoluzione. Quanto al nostro essere "comunità regionale italiana" evidentemente è anch’esso un errore prospettivo, che deriva dalla struttura amministrativa italiana. Ma è male comune: anche la Catalunya, che si pensa (a ragione) nazione, è ancora e soprattutto generalitat. Anche il Québec, che si pensa (a ragione) nazione, è ancora e soprattutto provincia. Nel caso sardo il confine è ben più naturale e macroscopico. Ciononostante, che ci piaccia o no, è ancora una volta l’amministrazione a fare la geografia, e non viceversa. Ed è la ragione precisa per la quale è sulla politica linguistica e culturale che occorre far leva. E’ ciò che sembrano aver capito i catalani e i quebecchesi. Si attende ora il risveglio delle sarde genti…

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