QUANDO LE DONNE NON CREDONO NELLE DONNE: ESISTE UNA QUESTIONE FEMMINILE? SI, SOPRATTUTTO IN SARDEGNA


di Ornella Demuru

Quando l’altra sera ho visto il servizio su una conferenza del MEM a Cagliari sono rabbrividita. Una sala colma di donne, in prevalenza non più giovanissime. Accalcate nella sala, almeno un centinaio: sguardi fissi e sognanti, diretti verso il protagonista della giornata, l’attore italiano Stefano Accorsi. Perché i  brividi? La scena mi appariva drammaticamente ridicola. Non mi vivo diversa da altre donne quindi era come se ci fossi anch’io in mezzo al loro. Fermo restando che Stefano Accorsi è da ritenere un buon attore e sicuramente non è una banale icona cinematografica formato “sex symbol”, il vedere tante, ma così tante donne assiepate a sentir parlare un attore, per quanto bravo, a me preoccupa. Preoccupa tanto. Mi preoccupa perché ad eventi del genere così “frequentati” non corrisponde né fa da contraltare un qualche altro incontro onlywomen super affollato: ad esempio un incontro dove le protagoniste sono donne, con i nostri temi, i nostri problemi, la nostra storia, o ancora più in generale con al centro temi politici e sociali che ci riguardano. Le donne oramai accorrono esclusivamente agli incontri dove sono presenti delle star, più spesso maschili, ma anche quando sono femminili è necessario che si tratti di personaggi di successo, di successo mediatico. Quel successo così attraente che ti fa mollare lavoro, famiglie e quant’altro. Mentre un incontro sull’imprenditorialità femminile con persone alquanto autorevoli non fa gola. Neanche un po’. Non c’è folla per un incontro dove è possibile parlare di noi e di ciò che vogliamo dalla società per vivere meglio. E, immagino, nemmeno per uno in cui domandarsi che fare per quelle ragazzine di 16 anni che sostano in via Santa Gilla con le cuffiette nelle orecchie in attesa che qualche baldo automobilista le carichi. Questo e tanto altro non ci coinvolge, non abbastanza da fare numero in una qualsiasi sala. Se poi questi incontri sono organizzati da donne, meno che mai ci sarà presenza femminile. Chi è autorevole e può cambiare la società sono gli uomini. Non ci sono dubbi. Le donne non credono nelle donne. Non è un’accusa la mia, ma un dato politico e sociale e che va affrontato. E questa giornata vorrei che servisse a dirci perlomeno la verità. Quindi una questione femminile c’è. C’è nel mondo e c’è ancor di più in Sardegna. In questa terra dove con la tiritera della società matriarcale – che secondo la vulgata avrebbe lasciato un retaggio ancora vivo e tangibile nella società sarda contemporanea – siamo riuscite, incantate da questa affascinante menzogna, a fare diverse capriole all’indietro nella strada della nostra possibile emancipazione.
Quella storiella del matriarcato che dice che in Sardegna “a comandare”, oggi come da sempre, siano le donne. Donne ciniche e dure che decidono i destini familiari, che gestiscono imprese, che s’impongono con la propria saggezza in contesti che altrove sono solamente maschili. Mi piacerebbe tanto sapere dove vive realmente chi propaganda la matriarcalità sarda. Evidentemente non qui. Che le donne sarde abbiano genericamente all’interno della famiglia una posizione più giusta e dignitosa rispetto ad altre culture è sì sostenibile, ma che questa posizione abbia dei riflessi e delle ripercussioni nella società tanto da renderla diversa rispetto ad altre è falso. Dannosamente falso. E il dato oggettivo della discriminazione sociale lo si rileva dai dati dell’occupazione femminile, dalla disparità degli stipendi fra uomini e donne, dalle denunce delle violenze subite (quasi tutte in famiglia), dalla presenza sporadica nelle istituzioni, dalla discriminazione in associazioni, nei partiti e in qualsiasi altro consesso sociale. Aggiungiamo a ciò il fatto che un dialogo fra donne sarde non esiste. Non esiste un dibattito politico fra donne, e sulle donne, non esiste nemmeno un’idea diffusa dell’esigenza o della supposta esistenza di una questione femminile. E se questo in parte può caratterizzare altri paesi occidentali, la Sardegna ha però, a mio parere, un vuoto dialettico e di azione ancora più profondo. Credo che le donne più mature dovrebbero smettere di ripetere che il femminismo degli anni ’70 ha commesso degli errori e che addirittura sia stato inutile: non solo è ingiusto, ma è pure improduttivo. Stantie reprimende che ci privano di un concreto orizzonte per il futuro. Io negli anni ’70 ci sono nata e oggi voglio andare avanti a prescindere da ciò che è stato fatto giusto o sbagliato.
Attaccare le donne nelle loro lotte, nelle loro aspirazioni, nei loro percorsi di emancipazione è e sarà sempre dannoso per la società nel suo complesso prima che per noi stesse. Mi piacerebbe per questo motivo che in quella che è stata ribattezzata “ 8 marzo – Giornata internazionale della donna” un primo incondizionato, ampio e diffuso accordo fra donne sia proprio di stabilire di non attaccarci mai a vicenda nelle nostre rispettive lotte, nei nostri tentativi di lottare, perlomeno pubblicamente. È chiaro che è giusto e corretto dissentire, discutere, dialogare, “cercare un varco per un incontro fra due”, come direbbe Luce Irigaray, ma mai dovremo demonizzare una donna per la sua visione della lotta o per la lotta che sta conducendo: criticare un digiuno, una protesta in piazza, un articolo è soltanto frenare ulteriormente la nostra strada verso l’autodeterminazione. Tutto ciò che le donne fanno per un cammino di emancipazione deve essere difeso. Sempre. Già questo primo passo ci permetterebbe di procedere con maggiore serenità nelle nostre rispettive strade, strade che, dobbiamo esserne coscienti, inevitabilmente s’incontreranno. L’ondata di femminismo che succede al femminismo cosiddetto “del riflusso” (1918-1968 Virginia Woolf e Simone de Beauvoir) ha voltato le spalle all’approccio culturalista della de Beauvoir che preconizzava una politica dell’uguaglianza e della promiscuità dei sessi in virtù della loro somiglianza. E questo è un dato molto importante che dovrebbe farci riflettere. Il nuovo obiettivo dal femminismo successivo non fu l’uguaglianza ma quello che veniva considerato l’epifenomeno, un aspetto collaterale dell’uguaglianza: la “differenza”, la differenza sessuale. Un percorso articolato e complesso quello del secondo femminismo, che giunge sino a noi attraverso diverse correnti di pensiero. Sino alla conclusione che la “differenza” per eccellenza sia la maternità in quanto esperienza cruciale della femminilità, esperienza a partire dalla quale si può ricostruire un mondo più umano e più giusto. È la filosofia del care o la morale delle donne. Il care, spesso tradotto con “sollecitudine” che va inteso come la “preoccupazione fondamentale del bene degli altri” sarebbe la conseguenza dell’esperienza cruciale della maternità. Spontaneamente sensibili ai bisogni dei più piccoli, le donne avrebbero sviluppato un’attenzione particolare alla dipendenza e alla vulnerabilità degli esseri umani. Così facendo sarebbero portatrici di una morale diversa da quella degli uomini. L’etica femminile del care opposta a quella maschile della giustizia (Carol Gilligan). Insomma un approccio che fa della biologia la base di ogni virtù, esattamente il contrario di quel femminismo di primo e metà ‘900. Ma noi che in Sardegna abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi d’Europa e quindi del mondo, come ci poniamo rispetto a questo nuovo pensiero della contemporaneità? Lo conosciamo? Cosa ne deduciamo? Come lo decliniamo nella nostra realtà? Vogliamo restare mute di fronte a percorsi di pensiero e di crescita intellettuale? Un’elaborazione politica e sociale al femminile si fa sempre più necessaria, specie dopo questi anni in cui, come dice Lorella Zanardo, la comunicazione mediatica ha fatto del corpo delle donne lo strumento più importante del marketing, rendendo le donne oggetti pseudo pornografici prive di coscienza. Un’anomalia tutta italiana che mal si concilia con i modernissimi movimenti femministi europei, come per esempio quello radicale ucraino di Femen dove le donne utilizzano provocatoriamente il proprio corpo nudo per protesta contro il turismo sessuale e la discriminazione di genere del proprio paese. Insomma abbiamo molto da fare, da studiare, da riscoprire, molto su cui dialogare e impegnarci per cambiare le cose. Come ha affermato la direttrice del Newsweek Tina Brown, la questione femminile non è un affare di donne è “una questione di diritti umani”. Una questione da affrontare con serenità, facendo autocritica, per porre nuovamente le basi di una società veramente diversa e differente. Il pensiero finale va a Rossella Urru giovane donna che ha scelto di dedicarsi proprio a tante donne, donne lontane bisognose di tutto. Quel tutto che noi diamo fin troppo per scontato. Oggi più che mai Rossella Urru rappresenta un esempio di donna mirabile, che compie scelte difficili e impegnative, una donna che ci deve far riflettere anche su noi stesse. Iniziamo a farlo, iniziamo da qui.

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Un commento

  1. Gentile signora,
    è fin troppo banale condividere il condivisibile che ci passa sotto il naso tutti i giorni, ma storicamente, cioè dagli archivi civili e religiosi, compaiono condizioni e situazioni, specie nella demografia, nelle quali la parità uomo-donna sembra un portato di lunga durata e forse non era solo un riguardo ai nomi di famiglia che i coniugi portavano. Quando il cognome delle madri scompare dai registri si è in epoca di specializzazione lavorativa e di netta distinzione lavoro/famiglia e paese/campagna, situazione nella quale il produttore di redditi era esclusivamente, o quasi, il pastore o su messaiu del tempo.
    Quel che stupisce in questi giorni distratti è la faciloneria con la quale ci buttiamo su miti poco approfonditi per farci stordire, come lei giustamente rileva.
    S. Loi

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